2020-01-05
È l’uguaglianza obbligatoria che crea tutti i mostri della nostra modernità
Le ideologie egualitariste non funzionano mai, perché gli uomini sono diversi: ognuno è unico e irripetibile. Pretendere il contrario significa avallare la dittatura del politicamente corretto, che disprezza le differenze.Basta! «Nessuno può davvero credere che siano davvero le nostre famiglie, le classi sociali, il genere maschile, le Chiese cristiane o le università severe le responsabili di quanto accade». A esprimersi così in uno dei suoi ultimi scritti era René Girard, fra i maggiori antropologi del nostro tempo, professore all'università di Standford. La sfuriata è parte della sua protesta contro il conformismo crescente, secondo Girard la vera fonte dei più diversi disturbi (qui parlava di anoressia e bulimia alimentari). Ed anche della violenza e aggressività che (scriveva prima di morire) nel nostro modello di vita non potrà far altro che crescere. Ma se non sono i soliti noti, chi è allora il vero colpevole? La nostra civiltà dell'uguaglianza obbligatoria, cieca e assoluta. Quella che fa sì che la ragazzina che si trova un po' cicciottella si spaventi e diventi una devota della bilancia fino a scoprire la vertigine dei digiuni e il terrore che «se ingoiassi anche solo una briciola, non smetterei più di mangiare». È così che le persone anoressiche «si danno da fare per non assumere più calorie di quanto consenta il livello di magrezza presentato dalla società come desiderabile in quel momento». (Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell'uomo contemporaneo, Cortina).L'obbligo di essere tutti uguali, comportarsi in certo modo, raggiugere le stesse mete e avere più o meno le stesse vite, squilibra tutti e non serve a nessuno. Anche perché per natura l'uomo è già portato a guardare e anche copiare gli altri, tra i quali scegliere fin da piccolo i propri modelli: è questo il «desiderio mimetico», scoperto proprio da René Girard e poi confermato nelle neuroscienze con la scoperta dei neuroni specchio nel gruppo di Giacomo Rizzolatti e Vittorio Gallese. Non è quindi il caso di insistere ancora con ideologie egualitariste che non funzionano mai, perché pur copiandoci, siamo tutti diversi; come affermato dal cristianesimo: la persona è unica e irripetibile. L'ostinazione a ripeterci che siamo tutti eguali contraddice la prova dello specchio e suscita inquietudine: «Perché continuano a dirmi che siamo uguali, se non è vero?». L'inquietudine aumenta poi quando queste intimazioni sono presentate come materia di fede, e accompagnate dal continuo stringere ancora di più le maglie de La cultura del piagnisteo (Adelphi), raccontate dal critico Robert Hughes (poi messo al bando dall'establishment culturale americano per via del grande successo del libro). «Come si può», protestava Hughes, «pretendere di imprigionare tutta l'umanità in un unico modello internazionalista e pseudo scientifico?». Non si può, appunto. Come ogni altra innaturale costrizione, il bavaglio politicamente corretto genera mostri: per questo viene strappato. Anche da questa balorda e tardiva pretesa egualitaria nasce così già dalla fine millennio, continuando poi a svilupparsi fino ad oggi, la rabbia e l'aggressività verso l'avversario che nega la tua specificità e diritto all'identità personale, alla differenza rispetto al conformismo obbligatorio. Per cui sarebbe sensato (e appunto: liberale) liberalizzare le differenze, anziché promuovere commissioni contro chi le rivendica.Il fatto è che in questo piagnisteo collettivo, dove è malvista qualsiasi particolarità, dal genere alla cultura, all'appartenenza religiosa, al dialetto, è ormai proibito porsi nel mondo con verità e convinzione, come la persona unica e irripetibile che ognuno è. Il mondo occidentale rifiuta sempre di più la risorsa «data dall'essere contro» un conformismo obbligatorio, «e il digitale accentua questo fenomeno», spiega il filosofo della politica Byung-Chul Han, docente a Berlino, nel suo L'espulsione dell'Altro (Nottetempo). Il guaio (o la fortuna) è però che molti sentono invece di essere persone e vogliono difendere quest'identità, che alla fine è l'unica cosa cui tengono, perché è quella che tiene insieme e dà senso a tutte le altre. Malgrado questo svaporamento delle identità e delle posizioni politiche, infatti, «sulla terra - a differenza del digitale - regnano il poggiare sulla realtà e l'essere contro». Non possiamo dunque smettere il naturale e umano fronteggiarci con le nostre rispettive diversità. Il rischio diventa altrimenti quello di assumere delle identità neutre, manierate, generatrici di gravi insicurezze personali, che possono sfociare in improvvise ribellioni e violenze, come le cronache non fanno che raccontare, e le esperienze cliniche confermano. Far fuori la diversità dell'altro, per far posto all'egualitarismo obbligatorio e non confrontarti con qualcuno che ti fronteggi, svuota di vita e di significato l'esistenza, «rende il mondo privo di voce e privo di sguardo», come racconta Han. Dimenticare la bellezza e il significato delle differenze sopprime la libertà e suscita gli attuali conflitti. Come ricorda Stefano Tomelleri nella sua introduzione a Il risentimento di Girard: nell'«idea di uguaglianza tipica delle modernità... la perdita delle differenze rischia di esporci sempre più all'odio reciproco» e «alle delusioni di un desiderio preso nella rincorsa di mete sempre più irraggiungibili dove ogni minima differenza è vissuta con delusione, come un'ingiustizia». Tutto ciò si è aggravato però in quella particolare fase della modernità che è la globalizzazione, con la sua specifica e particolare violenza. «La violenza del Globale che diventa violenza dell'Uguale», racconta Han, «vuole annullare l'Altro, il Singolare, l'Incomparabile, che nuoce alla circolazione dell'informazione, della comunicazione e del capitale». È proprio questa «violenza del Globale», che finge che tutto sia uguale «a generare una forza distruttiva di senso contrario, rendendo l'eguaglianza un inferno. Già Jean Baudrillard ha fatto notare che la follia della globalizzazione genera la follia dei terroristi». Anche il tentativo globalista di costringere le persone a separarsi dalle loro diverse identità per ridursi a imprenditori di se stessi e promuoversi secondo i codici politicamente corretti è violento. Perché separa l'individuo dal mondo, sostituendo alla ricca relazione con l'altro la vuota fissazione narcisistica su se stesso, generando angoscia e perdita di senso. Nei decenni di globalizzazione sono molte ormai le persone che hanno avuto modo di rendersi conto di cosa accade lasciando proseguire questo processo senza intervenire. La perdita di senso, di motivazione, il progressivo svuotamento nei sistemi educativi, l'infelicità diffusa, la diffusione di droghe anche come strumenti di suicidio soft, la dissoluzione sociale sono gli esiti ricorrenti in questa separazione dagli aspetti forti delle identità personali, messi al bando dalle regole e stili operativi e comportamentali della globalizzazione. Non tutti, però, accondiscendono. Non è che odiano: semplicemente vogliono vivere. È un'arroganza, un'odiosa pretesa, una manifestazione di inciviltà? La risposta alla prossima puntata.