È entrato in vigore il Cbam, che impone dei dazi sulle emissioni prodotte all’estero. L’ennesimo balzello per le imprese occidentali. Intanto Cina e Pakistan puntano sulle miniere per smarcarsi dal gas.
È entrato in vigore il Cbam, che impone dei dazi sulle emissioni prodotte all’estero. L’ennesimo balzello per le imprese occidentali. Intanto Cina e Pakistan puntano sulle miniere per smarcarsi dal gas.Nel week end è entrata in vigore la carbon tax. In sostanza una tassa per le aziende europee sull’inquinamento prodotto da altre imprese e da Paesi terzi. Ne abbiamo scritto molto volte con l’obiettivo chiaramente di denunciarne le storture. Le infinite critiche hanno portato soltanto a un piano di introduzione della carbon tax un po’ più lento. Fino al 2026, gli operatori dovranno dichiarare le emissioni dei prodotti importati nei settori del cemento, acciaio, alluminio, fertilizzanti, elettricità e idrogeno. Da subito sono previste sanzioni comprese tra 10 e 50 euro per tonnellata per coloro che non rispettano le novità di legge. Il Meccanismo di adeguamento del prezzo della CO2 alle frontiere, detto in inglese «Carbon border adjustment mechanism» o Cbam, è ovviamente unico nel mondo: implica che l’Unione europea applichi il prezzo del carbonio del suo mercato interno (l’Ets, Emission trade system) a determinate categorie di prodotti. Questo meccanismo è stato introdotto dall’Ue formalmente per proteggere le imprese europee che devono conformarsi alle regolamentazioni del Green deal rispetto alla concorrenza di industrie di Paesi terzi che non seguono gli stessi rigidi standard di emissioni, al fine di scoraggiare pratiche commerciali sleali. È stato anche concepito per dissuadere le delocalizzazioni industriali.La pratica è però difforme dalla teoria. È vero che l’equiparazione (level playing field) di una parte dei costi di produzione evita che Paesi terzi si avvantaggino facendo dumping climatico sulle emissioni, ed è vero quindi che in questo modo le imprese europee saranno meno svantaggiate rispetto a quelle, ad esempio, cinesi. Ma è vero soprattutto che un dazio alzerà immediatamente i costi di acquisto. L’effetto di questo nuovo dazio sarà quello di alzare i prezzi e di conseguenza di mantenere alta l’inflazione. Trattandosi di materiali di base come acciaio, alluminio, fertilizzanti, l’aumento dei prezzi si rovescerebbe poi a valle su lavorati e semilavorati. Non accadrà subito, ma a breve. Esattamente quando l’attuale picco inflattivo comincerà a scendere. Assurdo, ma le prospettive sembrano proprio queste. Nel frattempo si appesantiscono le nostre aziende con ulteriore burocrazia e la concorrenza estera si prepara a essere più competitiva. A maggio del 2022, la European steel association - Eurofer (l’associazione che raggruppa i produttori di acciaio dell’Unione europea) aveva scritto una lettera preoccupata ai vertici dell’Ue, temendo che il Cbam fosse aggirabile ed esponesse l’export di acciaio europeo a ritorsioni. Eurofer - scriveva Sergio Giraldo sulla Verità - era preoccupata soprattutto perché l’avvio del Cbam comporta la fine delle allocazioni gratuite di quote di CO2, che in parte esistono ancora ma che tendenzialmente dovrebbero ridursi a zero, portando il sistema Ets europeo a essere totalmente oneroso. Vero, soltanto che a quel problema oggi se ne aggiunge uno ulteriore. Ieri mattina il Sole 24 Ore ha pubblicato un interessante articolo sull’economia del Pakistan. Islamabad, di fronte ai picchi di inflazione, ha deciso di importare più petrolio russo (a buon prezzo) e ha accelerato sulle centrali elettriche a carbone. ll Paese, che conta 231,4 milioni di abitanti e oltre 110 Twh annui di domanda elettrica, aumenterà la potenza carbone a 10 Gw nel medio termine, dai 2,3 Gw attuali. A spingere la decisione, la carenza di gas naturale e i prezzi alle stelle del Gnl. Il Pakistan è l’undicesimo produttore di acciaio al mondo. Le mosse sono simboliche dal punto di vista politico, non così sensibili da quello economico. L’impatto sul nostro export sarà contenibile. Il problema è ovviamente la Cina. Il Dragone a breve avrà sviluppato una capacità da centrali a carbone pari a 1.250 Gw. E ne prevede ulteriori da qui al 2026. L’Europa intera oggi non arriva a produrre, con centrali a carbone, più di 950 Gw. La parte del leone la fa la Germania che con l’addio al nucleare ha vincolato gli altri Stati membri e ha condannato la propria economia. Il fatto però è che mentre noi abbiamo fatto scattare la carbon tax, i grandi Paesi produttori dell’industria pesante hanno compreso che per calmierare l’inflazione e sostenere le proprie economie devono appoggiarsi a fonti di energia sostenibili. Sostenibili nel senso che devono essere a basso prezzo. Le strade sono poche. Ci sono il petrolio, il carbone e il nucleare. Per sviluppare l’atomo servono tempo e adeguati investimenti. Il petrolio sappiamo che arriva da nazioni nemiche del blocco atlantico, mentre il carbone è reperibile senza innescare frizioni geopolitiche. È chiaro che il suo utilizzo crescerà ulteriormente. Eppure Bruxelles come sempre insiste a tirare dritto indipendentemente dagli effetti nefasti che ricadono sui propri cittadini. Più inflazione, più costi e più povertà. La stessa logica dietro le normative sulle case green che si apprestano a fare ulteriori passi in occasione del trilogo del 12 ottobre.
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L’Ue non sia un sistema chiuso, semmai un tassello dell’alleanza tra democrazie.
L’Ue ha certamente bisogno di più compattezza per facilitare una reazione positiva e competitiva delle sue nazioni al cambio di mondo generato da molteplici discontinuità sul piano geopolitico, (geo)economico, tecnologico/industriale, ambientale, demografico e della ricchezza diffusa socialmente. Ma accelerare la creazione di una Confederazione europea - come più voci di sinistra stanno invocando - che annulli le sovranità nazionali sarebbe un errore perché ne renderebbe più probabile la frammentazione.
Ansa
Il triste primato nello stabilimento dove doveva sorgere la gigafactory per le elettriche.






