- Pechino mette una gabella del 34% sui prodotti statunitensi dal 10 aprile e fa ricorso al Wto. Trump: «La Cina è andata nel panico. Se la sono giocata male. Investitori, state calmi e diventerete ricchi». Ora l’Ue rischia di seguire l’esempio e fare la stessa fine.
- L'agricoltura italiana è a prova di panico: pasta, vino e caffè sono già «made in Usa». L’ipotesi Mercosur è solo una trappola.
Pechino mette una gabella del 34% sui prodotti statunitensi dal 10 aprile e fa ricorso al Wto. Trump: «La Cina è andata nel panico. Se la sono giocata male. Investitori, state calmi e diventerete ricchi». Ora l’Ue rischia di seguire l’esempio e fare la stessa fine.L'agricoltura italiana è a prova di panico: pasta, vino e caffè sono già «made in Usa». L’ipotesi Mercosur è solo una trappola.Lo speciale contiene due articoli.Occhio per occhio. La Cina decide un’immediata ritorsione ai dazi imposti il 2 aprile da Donald Trump. Il ministero delle Finanze ha comunicato che adeguerà i dazi sulle merci statunitensi aggiungendo un’aliquota del 34% su tutti i prodotti dal 10 aprile. Il dazio del 34% si aggiunge a quelli del 20%-30% già in essere su alcuni prodotti agricoli Usa e su alcuni macchinari elettrici, decisi da Pechino tra febbraio e marzo in risposta ai primi due round di dazi messi da Trump nelle scorse settimane. «Come dice un vecchio proverbio cinese: “La cortesia esige reciprocità”», ha scritto Guo Jiakun, portavoce del ministero degli Esteri cinese, in un post dopo l’annuncio. Pechino ha parlato di «bullismo» americano, affermando che il nuovo round di dazi «non è conforme alle regole del commercio internazionale e danneggia seriamente i diritti legittimi e gli interessi della Cina».La risposta cinese non si limita ai dazi: c’è il ricorso al Wto e sono stati annunciati controlli sulle esportazioni di terre rare medie e pesanti, altre 16 entità statunitensi sono state aggiunte alla lista di controllo, che proibisce le esportazioni di articoli a duplice uso alle aziende interessate. Altre 11 entità americane sono state aggiunte alla lista delle «entità inaffidabili», che consente a Pechino di adottare misure punitive contro entità straniere. Pechino ha sospeso inoltre l’importazione di sorgo e prodotti avicoli da alcune aziende americane citando la necessità di proteggere la salute dei consumatori cinesi.Gli Stati Uniti hanno esportato in Cina merci per un valore di circa 143 miliardi di dollari nel 2024. Secondo i dati del Census Bureau le principali importazioni della Cina dagli Stati Uniti sono soia, semi oleosi e cereali, per un valore di 13,4 miliardi di dollari nel 2024, poi 14,7 miliardi di dollari di combustibili, 15,3 miliardi di dollari di macchinari elettrici, 12,9 miliardi di apparecchiature meccaniche, 11,5 miliardi di aerei e 11,2 miliardi di apparecchi ottici e di misurazione. Le esportazioni americane in Cina si confrontano pero con un deficit commerciale Usa pari a 295 miliardi di dollari, che è l’origine della reazione di Washington.Dopo che Pechino ha annunciato la ritorsione, il presidente Trump ha scritto su Truth che la Cina «ha sbagliato»: «Sono andati nel panico. L’unica cosa che non possono permettersi di fare! Investitori state calmi e diventerete ricchi». Poi ha aggiunto: «Ho avuto una chiamata produttiva con To Lam, segretario generale del Partito comunista del Vietnam, che mi ha detto che vuole ridurre i suoi dazi a zero se riesce a raggiungere un accordo con gli Stati Uniti. L’ho ringraziato. Spero di incontrarlo presto». La reazione del Vietnam è quindi la proposta di un negoziato, diversamente da quanto deciso da Pechino.La prospettiva di un’aspra guerra commerciale ha fatto precipitare anche ieri le borse, mentre il prezzo del petrolio è scivolato ancora, dopo essere già sceso molto in seguito all’annuncio dell’Opec+ di aumenti della produzione dal prossimo mese. Pechino decide di rispondere alle mosse di Trump con una rappresaglia di pari misura, innescando ciò che molti temevano, ovvero una vera e propria guerra commerciale. Non è però un buon momento per scatenare una guerra commerciale per Xi Jinping, ancora alle prese con gli strascichi della crisi immobiliare e con la deflazione. L’imposizione di dazi altissimi anche sui Paesi Asean, che Pechino poteva utilizzare per aggirare le restrizioni dirette, ora rende il gioco infruttuoso. La Cina reagisce nervosamente perché teme di perdere il motore principale della sua crescita. L’orientamento all’export dell’economia cinese si basa su una compressione della domanda interna, tanto che da tempo si moltiplicano le pressioni perché Pechino sostenga la domanda interna.La Cina avrebbe in realtà due opzioni: arrivare a un negoziato o attuare un grande stimolo fiscale per accendere la domanda interna e riequilibrare la sua economia export-led. Questo contribuirebbe a ridurre lo squilibrio macroeconomico dato dall’enorme surplus commerciale cinese nei confronti del mondo, giunto a 992 miliardi di dollari nel 2024.Una svalutazione robusta dello yuan (almeno il 20%) non è praticabile, non solo perché scatenerebbe una crisi di fiducia dei mercati, cosa che a Pechino nessuno vuole, ma anche perché tenderebbe a mantenere quel surplus che Trump vuole ridurre. Lo stesso ragionamento vale per i controdazi decisi ieri dalla Cina. Se il problema è il deficit americano (cioè il surplus cinese), i dazi sulle merci Usa tengono vivo il problema e possono solo provocare nuovi dazi americani sulle merci cinesi. Questa è infatti la reazione più probabile adesso da parte degli Stati Uniti. La ritorsione cinese rischia di essere un enorme boomerang. È possibile che la dura e poco sensata ritorsione cinese venga ora imitata dall’Unione europea. A Bruxelles c’è chi non vede l’ora di rispondere colpo su colpo agli Stati Uniti e c’è anche chi non vede l’ora di abbracciare con entusiasmo la Cina.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dragone-replica-ai-dazi-2671678939.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lagricoltura-e-a-prova-di-panico-i-nostri-big-producono-in-america" data-post-id="2671678939" data-published-at="1743841612" data-use-pagination="False"> L’agricoltura è a prova di panico. I nostri big producono in America È l’altra faccia della medaglia dazi: le industrie italiane dell’agroalimentare che producono negli Usa. Nel piagnisteo generale ci si dimentica che alcuni - oltre 300 - produttori italiani hanno stabilimento e distribuzione in Usa. Si comincia con Barilla che è leader assoluto di mercato della pasta: ha stabilimenti ad Ames, in Iowa e ad Avon, nello Stato di New York. Anche la linea da forno Mulino Bianco è prodotta negli Usa e di recente ha comprato dal colosso B&G foods Back to nature che produce snack salutari. Rilevantissima poi è la presenza in Usa del gruppo Rana. Due sono gli stabilimenti (è in costruzione un terzo impianto a Chicago) e gli Usa di fatto sono il primo mercato per il gruppo veronese visto che su un fatturato (dati 2023) di 1,3 miliardi la filiale Usa ne ha contabilizzati 602 milioni; Rana negli Usa tra tortellini, lasagne e sughi ha aumentato i ricavi del 17% contro il +12% dell’Europa (386 milioni), Italia esclusa. Ferrero è tra i marchi più amati dagli americani: ha stabilimenti a Brantford in Ontario e ha aggiunto centri di distribuzione in Pennsylvania, Georgia e Arizona, oltre a investire nei coltivatori di nocciole dell’Oregon. Italia Alimentari che riunisce alcuni dei marchi più forti della salumeria, tra questi Ibis, ha uno stabilimento di lavorazione in New Jersey. Sempre tra i salumi decisiva è la presenza di Beretta che ha tre stabilimenti negli Usa, con un fatturato che supera i 200 milioni di euro. Molto forte è la presenza negli Stati Uniti del gruppo Golfiera - produce salumi nel Ravennate - che ha uno stabilimento e una sede nello Stato di New York. Un’importante acquisizione l’ha fatta lo scorso anno Parmacotto con la New England Charcuterie di Boston. Anche nel caffè l’interesse per l’America è molto cresciuto. Lavazza da tempo ha una sua torrefazione a West Chester in Pennsylvania e ora Caffè Borbone, gruppo napoletano in forte espansione, ne segue le orme visto che ha aperto la Caffè Borbone Usa dove il fatturato - quello complessivo sfiora il mezzo miliardo - è aumentato del 50% nell’ultimo anno. Si sono sentiti alti lai per quel che riguarda il vino, ma ci sono alcune aziende italiane che dominano il mercato statunitense. Tra queste senza dubbio la Marchesi Antinori che possiede Col Solare nello Stato di Washington, Stag’s leap wine cellars in Napa Valley e ha concluso da pochi mesi l’acquisto di Arcadia vineyard e Stag’s leap oltre ad avere una propria società di distribuzione americana. Queste sono solo alcune delle presenze italiane dirette negli Usa che sono ormai, con 7,3 miliardi di dollari, un mercato imprescindibile per l’Italia dell’agroalimentare, che è il terzo fornitore degli americani. Domina il fatturato il vino, ma pasta, olio d’oliva, conserve, salumi, sono tutti in crescita esponenziale. Non pare perciò una grande idea quella che è stata affacciata negli ultimi giorni di spingere su accordi alternativi agli Usa come il Mercosur per trovare altri mercati. Il Mercosur ci manda già prodotti agroalimentari (sulla cui qualità è lecito discutere) e non ne compra, atteso che il Brasile - quello che deforesta, usa i pesticidi, paga male i contadini - è già il primo fornitore di prodotti agricoli dell’Ue. Il Mercosur semmai interessa a francesi e tedeschi per vendere prodotti finanziari e automobili in America Latina, ma non è un buon affare per il nostro agroalimentare. Che semmai ha margini di espansione anche produttiva direttamente negli Usa o con accordi in partnership con produttori americani. Molti dei quali sono italiani immigrati o italoamericani di terza generazione. Un esempio? Quello di Cristiano Greminelli, partito da Vigliano, in Piemonte, dove la sua famiglia da oltre un secolo fa salumi, ha aperto la Greminelli fine meats a Salt Lake City (Utah) diventando un orefice del prosciutto americano.
(IStock)
C’è preoccupazione per la presenza di alimenti ultraprocessati nelle mense. Il presidente Prandini: «Il comparto vale 707 miliardi, quanto 20 manovre». Federico Vecchioni (BF): «Una massa di risorse private ha identificato il mondo agricolo come opportunità».
Francesca Albanese (Ansa)
La rappresentante Onu ha umiliato il sindaco di Reggio, solo perché lui aveva rivolto un pensiero anche ai rapiti israeliani. La giunta non ha fatto una piega, mentre è scattata contro il ministro sul caso Auschwitz «rispolverando» anche la Segre.
(Ansa)
Il premier congela la riforma fino alle prossime presidenziali, ma i conti pubblici richiedono altri sacrifici. Possibile tassa sui grandi patrimoni. Il Rassemblement national: «Progetto di bilancio da macelleria fiscale».
Andrea Sempio. Nel riquadro, l'avvocato Massimo Lovati (Ansa)
- Alla base della decisione, la mancata condivisione di alcune strategie difensive ma soprattutto l’esuberanza mediatica del legale, che nelle ultime settimane aveva parlato a ruota libera su Garlasco. Lui: «Sono sorpreso».
- Ieri l’udienza davanti al tribunale del Riesame. Lo sfogo dell’ex procuratore Venditti: «Mai preso soldi». Sarà la Cassazione a decidere sul conflitto tra Pavia e Brescia.