È l’anno del serpente in Cina e l’economia piuttosto che mordere striscia. Così Pechino ha fatto di tutto per arrivare a un accordo evitando la guerra dei dazi e come raccomanda lo zodiaco a Pechino ha cercato un piano b. Ieri al termine della seconda giornata d’incontri il segretario al Tesoro americano Scott Bessent ha parlato di «sostanziali progressi» e un’intesa di massima sarebbe già stata raggiunta. Pechino ha avuto segnali forti: le esportazioni verso gli Usa sono crollate del 21%; si sono rifatti spedendo l’8,1% in più in Europa e nel resto del mondo e comprando decisamente meno (il calo dell’import dagli Usa è di 14 punti dall’Ue dello 0,2%), ma Xi Jinping, mentre stava a fianco di Vladimir Putin sulla piazza rossa, si è trovato tra le mani un rapporto che parla di ulteriori 3,4 milioni di disoccupati, di un Renminbi ai minimi storici e di una stagflazione profonda (prezzi su di mezzo punto e consumi giù di quasi due punti) che rendono ostica la previsione di crescita del 5% del Pil. Sul piano del rapporto bilaterale con Washington i cinesi hanno giocato la carta Fentanyl dichiarando di mettere in campo ogni sforzo contro il traffico di stupefacenti. In queste condizioni sono iniziate sabato e sono proseguite ieri a Ginevra le trattative con gli Usa sui dazi. Le due delegazioni sono guidate dal segretario al Tesoro statunitense Scott Bessent e dal rappresentante per il Commercio statunitense Jamieson Greer, mentre la Cina ha inviato il vice premier, He Lifeng. Donald Trump ha fissato all’80% la quota di incremento dei dazi che ritiene soddisfacente. La sua strategia è quella che fu già di Ronald Regan e sta nero su bianco nella sua autobiografia «The art of deal». Sono queste le mosse: sfrutta al massimo le tue opzioni, usa la tua leva finanziaria, combatti e consegna la merce che vuol dire: fai l’intesa. Ieri via Truth - il suo social network - il presidente americano ha commentato: «Molte cose discusse, molto concordato. Un reset totale negoziato in modo amichevole, ma costruttivo. Vogliamo vedere, per il bene sia della Cina che degli Stati Uniti, un’apertura della Cina alle imprese americane». Il punto di caduta fissato dai cinesi è di tornare indietro dalla tariffa posta da Trump (al 145%) a cui Pechino ha risposto con un dazio del 125% e puntare a evitare il blocco di fornitura dei chip di Nvidia arrivando a una moratoria di 90 giorni per poi approdare a una revisione complessiva degli scambi commerciali con gli Usa che - dati 2024 - comunque lamentano un forte squilibrio: importano da Pechino per 439 miliardi di dollari e vendono per appena 143,5 miliardi. I colloqui di Ginevra però sono ben avviati. Howard Lutnick, il segretario al commercio Usa – in una intervista alla Cnn - ha così commentato le prime due giornate di vertice: «Siamo ottimisti. Questo è davvero importante per gli Stati Uniti. È importante anche per la Cina. La nostra delegazione», ha affermato Lutnick, «sta lavorando sodo per giungere a un accordo, le condizioni si stanno determinando con la necessaria cautela». Non ha però voluto dire quali siano i termini possibili di un’intesa. Che evidentemente è a portata di mano visto che anche dal Wto – l’organizzazione mondiale del commercio – sono circolate impressioni positive. Rafforzate dal rappresentante per il Commercio statunitense Jamieson Greer che ha fatto sapere: «I cinesi sono molto, molto desiderosi di migliorare le relazioni commerciali e la velocità con cui si è arrivati a un’intesa dimostrano che forse le distanze tra noi e loro non erano poi così grandi. E con loro altri Paesi ci chiedono di trattare in fretta». La guerra dei dazi potrebbe essere disinnescata. A dimostrarlo sta una dichiarazione di parte cinese che dissimulando una certa rigidità conferma che Pechino vuole trattare. L’agenzia di stampa ufficiale Xinuha da Ginevra ha scritto: «La Cina respingerà fermamente qualsiasi proposta che comprometta i principi fondamentali o mini la causa più ampia dell'equità globale». Tradotto: non facciamoci del male.
Continuano le prove di dialogo tra Stati Uniti e Cina. Dopo un lungo braccio di ferro fatto di dazi e controdazi, potrebbe essere arrivato il momento del cambio di rotta. Ieri si è aperto a Ginevra il primo round di colloqui (oggi il giorno conclusivo); presenti per gli States, il segretario al Tesoro Scott Bessent e il rappresentante per il Commercio, Jamieson Greer mentre per la Cina, il vicepremier He Lifeng. Alla vigilia dell’incontro, il presidente statunitense Donald Trump ha fatto capire che potrebbe abbassare le altissime tariffe ora imposte sulle merci cinesi, affermando che «all’80% sembra la scelta giusta» mentre resterebbero blindate le tasse doganali al 10%. Una decisione che però non potrebbe essere unilaterale ma condizionata da precise concessioni da parte della Cina, come si è affrettata a precisare la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, smorzando gli entusiasmi di chi già aveva parlato di apertura significativa.
L’incontro comunque rappresenta un passo in avanti, un’occasione per ammorbidire il clima teso di questi mesi. Il vicepresidente svizzero Guy Parmelin, mediatore dei colloqui, ha definito il dialogo «già una vittoria».
Sun Yun, direttore del programma Cina del Centro Stimson, dubita che l’incontro di Ginevra possa produrre risultati sostanziali.
«Lo scenario migliore è che le due parti accettino di ridurre le tariffe allo stesso tempo», ha detto, aggiungendo che anche un piccolo ridimensionamento invierebbe un segnale positivo.
Bocche cucite sull’esito del primo round di incontri. L’agenzia di stampa statale Xinhua si è limitata a dire che il contatto in Svizzera è un «passo importante per promuovere la risoluzione della questione».
Attualmente i dazi imposti a Pechino, dall’inizio dell’anno, ammontano al 145%, con picchi cumulativi su alcune merci che raggiungono un impressionante 245%. Le tariffe includono una tassa del 20% volta a spingere Pechino a fare di più per arginare il flusso dell’oppioide sintetico fentanyl negli Stati Uniti.
Il restante 125% si riferisce a una controversia che risale al primo mandato di Trump e si sovrappone alle tariffe imposte alla Cina all’epoca. Gli Usa sostengono che la Cina utilizza tattiche sleali per ottenere vantaggi in tecnologie avanzate come l’informatica quantistica e le auto senza conducente. Queste tattiche comprendono l’obbligo per le aziende statunitensi e straniere di consegnare segreti commerciali in cambio dell’accesso al mercato cinese. Trump è anche preoccupato per l’enorme deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina, che lo scorso anno ha raggiunto i 263 miliardi di dollari.
Per rappresaglia ai dazi americani, Pechino ha colpito le merci statunitensi con un’aliquota al 125%. Una sorta di boicottaggio reciproco dei rispettivi prodotti, interrompendo un commercio che l’anno scorso ha totalizzato oltre 660 miliardi di dollari.
Intanto gli effetti della guerra commerciale cominciano a farsi sentire. Ad aprile 2025, secondo i dati elaborati dalla Cnbc, le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti sono crollate di oltre il 21% su base annua mentre le importazioni dalla stessa area si sono ridotte di quasi il 14%. Negli Stati Uniti sono arrivati i primi prodotti cinesi spediti dopo l’introduzione dei dazi. La Cnbc riferisce che sette navi con 12.000 container, hanno attraccato nei porti di Los Angeles e Long Beach e altre cinque dovrebbero arrivare a breve. Al loro interno merci per aziende statunitensi tra le quali Amazon, Home Depot, Ikea, Ralph Lauren and Tractor Supply.
Intanto la trattativa con la Svizzera è a un punto di svolta. Bessent, che ieri ha incontrato la presidente svizzera Karin Keller-Sutter, ha detto che si attende una proposta d’intesa da parte della Confederazione la settimana prossima. Le aziende svizzere vogliono investire negli States 150-200 miliardi di franchi. «Siamo ottimisti in merito alla velocità dei negoziati», ha scritto Bessent nel suo post, lasciando intendere che gli Usa vogliono stringere i tempi.
È ancora presto per parlare di disgelo tra Washington e Pechino, ma i toni muscolari dei giorni scorsi, le prove di forza con annunci di dazi al rialzo e moniti ai Paesi terzi a non schierarsi con l’una o l’altra potenza, pena ritorsioni, ieri hanno lasciato il posto a parole più concilianti. Tant’è che anche i mercati, tutti in positivo, hanno mostrato fiducia nel nuovo clima. Già martedì sera il presidente americano Donald Trump aveva ammorbidito i toni annunciando l’intenzione di ridurre le tariffe sui beni cinesi, ora al 145% anche se questo non vorrà dire portarle a zero. Ieri parlando con i giornalisti alla Casa Bianca ha ammesso che gli effetti negativi dei dazi si sentiranno per un po’ negli Stati Uniti e ha ribadito che «ci sarà un accordo equo con la Cina».
Allo stesso tempo, il Wall Street Journal ha confermato che la Casa Bianca sta valutando questa ipotesi, nel tentativo di allentare le tensioni con Pechino. Le tariffe alla Cina potrebbe scendere fra il 50 e il 65%, ma è anche allo studio un approccio diversificato, con dazi al 35% sui beni non ritenuti una minaccia alla sicurezza e al 100% per i prodotti invece considerati strategici per gli interessi americani. È una soluzione simile a quella presentata nel 2024 dalla commissione della Camera sull’intelligence economica.
«Il presidente Trump è stato chiaro: è la Cina che deve raggiungere un accordo con gli Stati Uniti», ha affermato il portavoce Kush Desai. Il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Scott Bessent, che ha finora svolto un po’ il ruolo di pontiere e cercato di costruire i presupposti per un dialogo tra le due potenze, intervenendo all’Institute of International Finance a Washington, si è sbilanciato: «Esiste l’opportunità per un grande accordo tra i due Paesi ma la Cina deve cambiare. Trump ha fatto il primo passo, ora tocca a Pechino. Se Pechino agirà davvero per riequilibrare l’economia, anche gli Stati Uniti potranno farlo».
Bloomberg ha riportato le preoccupazioni espresse da Bessent sulla tenuta del dollaro. Nell’evento dell’Institute of International Finance, avrebbe affermato che lo stallo tariffario tra Stati Uniti e Cina è «insostenibile» poiché, con questi livelli di dazi, esiste di fatto un embargo commerciale tra le due maggiori economie mondiali. Egli prevede dunque una de-escalation e l’avvio di negoziati. Bessent non ha risparmiato Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale, accusandoli di essersi smarriti in una «missione deviata», troppo concentrata su temi come il cambiamento climatico e le questioni di genere, a scapito del loro mandato economico. Ha inoltre chiesto un atteggiamento più deciso nei confronti delle «politiche distorsive» della Cina e ha messo in guardia contro una gestione «inefficiente» e «basata su slogan» all’interno della Banca Mondiale.
Secondo un’analisi della Giappone Mufg Bank, «è sempre difficile prevedere le mosse di Trump ma Bessent ha ragione nel ritenere che la situazione non è sostenibile. Le dimensioni del movimento del dollaro lasciano spazio a un’eventuale estensione del rimbalzo qualora queste voci di distensione si rafforzassero».
Segnali di apertura anche da Pechino. Durante la visita ufficiale del presidente azero Ilham Aliyev a Pechino, Xi Jinping ha ribadito con forza la contrarietà cinese alle politiche protezionistiche, denunciando l’impatto negativo delle guerre tariffarie sull’equilibrio economico globale. Il leader cinese ha affermato che i dazi doganali minano il sistema commerciale multilaterale e destabilizzano l’ordine economico internazionale. Nel corso di una conferenza stampa, poi, il portavoce del ministero degli Esteri Guo Jiakun ha evidenziato che «la porta per i colloqui con gli Stati Uniti è spalancata» ma ha esortato Washington a «smettere di minacciare e ricattare» e ad aprire un dialogo «basato sull’uguaglianza e sul reciproco rispetto». Nei prossimi 90 giorni l’amministrazione Trump dovrà convincere anche partner come Unione Europea, Giappone, Canada e Messico, dimostrando che non si tratta solo di parole.
Il commissario Ue per l’Economia, Valdis Dombrovskis, ai microfoni della Cnbc, ha sottolineato che la politica dell’Ue nei confronti di Pechino si fonda sulla riduzione del rischio, non sul disaccoppiamento economico: «Condividiamo tuttavia con gli Stati Uniti una serie di preoccupazioni, in particolare riguardo alla sovracapacità industriale cinese e alle pratiche non di mercato, e siamo pronti a collaborare con Washington per affrontare questi problemi. Ma imporre dazi contro di noi non è il modo migliore per mantenere alleati». Mentre il presidente della Bce Christine Lagarde non ha escluso una revisione al ribasso delle previsioni di crescita della Bce in occasione della prossima proiezione a giugno, alla luce dei dazi di Trump.
Comunque, i toni rassicuranti tra Washington e Pechino hanno portato una ventata di ottimismo sui mercati. A Milano l’indice Ftse-Mib ha chiuso in rialzo dell’1,42%. Positive anche Francoforte +3,17%, Londra + 0,96% e Parigi + 2,13%. Così come Wall Street a un paio di ore dalla chiusura.
La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina è diventata ormai una gara al rialzo. Un «occhio per occhio, dente per dente» che sta tenendo in apprensione le Borse di tutto il mondo e l’economia globale, preoccupata dal rischio recessione, dal crollo del dollaro rispetto alle principale valute e dalla crescente instabilità nei rapporti commerciali internazionali.
Dopo la mossa a sorpresa di mercoledì con cui Donald Trump aveva sospeso per 90 giorni i dazi reciproci nei confronti di tutti i Paesi meno che della Cina, a cui invece è stato rifilato un +145%, ieri è arrivata la tanto attesa vendetta di Pechino. La commissione per le tariffe del Consiglio di Stato cinese ha infatti annunciato che a partire da oggi la barriera doganale su tutte le merci in arrivo dagli Stati Uniti sarà portata dall’84% al 125% e che si tratterà dell’ultimo rialzo. «Ignoreremo ulteriori aumenti. A questo livello i prodotti americani esportati in Cina non hanno più alcuna possibilità di essere accettati sul mercato», ha spiegato il ministero delle Finanze cinese in una nota. Tuttavia la risposta di Xi Jinping, che ha causato una nuova volatilità sui mercati globali e minaccia così di bloccare del tutto gli scambi commerciali tra quelle che sono le due più importanti economie mondiali, non è contenuta solamente nei controdazi. La ritorsione del Dragone consiste anche in un passaggio per vie legali, con l’avvio di una causa intentata contro Washington presentata presso il meccanismo di risoluzione delle controversie del Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio. A renderlo noto ieri è stato un portavoce del ministero del Commercio cinese, che ha accusato gli Stati Uniti di esercitare «pratiche unilaterali di bullismo e coercizione, che violano gravemente le norme del Wto e minano seriamente il sistema commerciale multilaterale basato su regole e l’ordine economico e commerciale internazionale» e ribadito che Pechino «difenderà con fermezza i suoi legittimi diritti e interessi», esortando gli Usa «a correggere immediatamente le loro pratiche sbagliate e ad annullare tutte le misure tariffarie unilaterali contro la Cina». Nel reclamo presentato all’organismo con sede a Ginevra, in Svizzera, il ministero del Commercio cinese ha inoltre dichiarato che «gli esorbitanti dazi doganali degli Stati Uniti nei confronti della Cina non sono altro che un gioco di numeri privo di significato economico e una farsa».
Nella serata di ieri era attesa la risposta ufficiale di Trump, che già si era espresso sul suo social Truth scrivendo: «Stiamo andando davvero bene con la nostra politica sui dazi. Molto entusiasmante per l’America e per il mondo!». Dalla Cnn era anche filtrata l’indiscrezione secondo cui poche ore prima della contromossa cinese l’amministrazione americana aveva avvertito Pechino, attraverso discussioni private, di non ricorrere ai controdazi. Sempre secondo l’emittente televisiva americana, il tycoon avrebbe fatto sapere ai funzionari cinesi di aspettarsi un primo passo distensivo da parte di Pechino e di gradire una telefonata di Xi Jinping, dal momento che è stata la Cina a reagire inasprendo ulteriormente l’escalation della guerra commerciale. La portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha comunque dichiarato che il presidente americano resta ottimista sulla possibilità di raggiungere un accordo con Pechino sui dazi.
La tensione tra le due potenze è dunque palpabile e ha riguardato in queste ultime ore anche e soprattutto la sfera della comunicazione via social. Dopo i video creati con l’Intelligenza artificiale diventati virali negli ultimi giorni, tra cui quello che ritrae Trump, il suo vice J.D. Vance ed Elon Musk nei panni di tre operai che confezionano scarpe Nike in una fabbrica, oppure lavoratori americani tristi e impacciati mentre tentano di eseguire quelle mansioni che le multinazionali fanno svolgere alla manodopera cinese, come l’assemblaggio di uno smartphone o la cucitura di un vestito, l’ultima provocazione made in China è arrivata direttamente dal ministero degli Esteri e dal capo dell’ufficio comunicazione, Mao Ning, che ha postato sui social cinesi un video contenente una massima coniata dall’ex presidente Mao Zedong: «Gli Stati Uniti cercano di intimidire alcuni Paesi, vietando loro di fare affari con noi, ma l’America è solo una tigre di carta. Non cadete nel suo bluff, basta una puntura e scoppierà». Un invito che pare esser già stato raccolto da Bruxelles, per esempio, visto che la Commissione Ue ha appena annunciato che a luglio ci sarà un incontro a Pechino tra Xi e i 27 leader europei.
Nel frattempo, negli Stati Uniti la grande finanza comincia a manifestare grande preoccupazione nei confronti della via intrapresa da The Donald sulla politica dei dazi. Ieri il ceo di Blackrock, Larry Fink, in un’intervista alla Cnbc ha lanciato l’allarme: «Siamo molto vicini o addirittura già dentro alla recessione», ha detto l’amministratore delegato del più grande gestore di patrimoni al mondo che da solo controlla asset per 11,6 trilioni di dollari, «questa non è Wall Street contro Main Street. Il calo dei mercati colpisce i risparmi di milioni di persone ordinarie. Questi dazi sono andati al di là di qualsiasi cosa avrei mai potuto immaginare nei miei 49 anni in finanza». Anche Jamie Dimon, ceo di JP Morgan, ha criticato ieri le tariffe imposte da Trump: «L’economia statunitense sta affrontando notevoli turbolenze, anche a causa dei dazi che fanno salire i prezzi e scendere il Pil, rallentando la crescita».
Si alzano ancora i toni tra Cina e Stati Uniti, dopo che Pechino ha riposto con dazi del 34% ai dazi «reciproci» imposti da Donald Trump il 2 aprile scorso. Il presidente americano ha minacciato di imporre ulteriori dazi del 50% a partire da oggi se la Cina non ritirerà i contro-dazi. La Cina ha risposto ieri attraverso il ministero del Commercio: «La minaccia degli Stati Uniti di aumentare i dazi sulla Cina è un errore su un altro errore, che espone ancora una volta la natura ricattatoria degli Stati Uniti. Se gli Stati Uniti insistono a modo loro, la Cina combatterà fino alla fine». La nota cinese conclude che se Trump dovesse aumentare i dazi, «la Cina prenderà risolutamente delle contromisure per salvaguardare i propri diritti e interessi».
L’annuncio della Casa Bianca arriva nel pomeriggio di ieri: da oggi i dazi contro la Cina saliranno al 104%. Si tratta certamente di qualcosa di inaudito e rispetto a cui non ci sono precedenti. La decisione del presidente cinese, Xi Jinping, di reagire ai dazi americani e di non ritirare la reazione porta il mondo in una guerra commerciale aperta. Dalle parole ai fatti, la Cina non solo non ritira i suoi controdazi sulle merci Usa, ma sembra intenzionata ad andare fino in fondo davvero. Ieri, un primo segnale: la moneta cinese si è deprezzata in maniera sostanziale. Dopo un primo indebolimento dello yuan lunedì, nella seduta di martedì la Banca centrale della Repubblica popolare cinese deve aver mollato i freni, lasciando che il dollaro arrivasse ai massimi degli ultimi 15 anni a 7,3982. Inoltre, un gruppo di fondi statali è intervenuto sul mercato azionario per sostenere i listini in caduta libera nella giornata di lunedì, contribuendo ad alleggerire il calo. Diverse aziende cinesi quotate hanno approfittato del calo in Borsa per procedere a massicci acquisti di azioni proprie. Si sono registrati anche movimenti importanti sui mercati delle materie prime, dove diversi fondi cinesi hanno aumentato l’esposizione al rialzo su diverse materie prime come argento, rame, nichel e zinco. Mentre si segnala che nei primi due mesi di quest’anno la Banca popolare cinese ha acquistato altre 10 tonnellate di oro, arrivando a 2.290 tonnellate di oro a riserva, cifra che ne fa il quinto detentore al mondo dopo la Francia (l’Italia è la terza).
Il premier cinese Li Qiang ha affermato ieri, durante una telefonata con Ursula von der Leyen, che la Cina dispone di ampi strumenti politici per «compensare completamente» qualsiasi impatto esterno negativo. Un’affermazione sibillina, mentre il ministro del Commercio di Pechino parlava di resistenza a oltranza. Ieri, nella capitale, il capo dell’agenzia di pianificazione economica cinese ha incontrato i rappresentanti di alcune aziende private per raccogliere reazioni e problemi rispetto ai dazi americani.
Sono segnali di una battaglia lunga, nell’idea di Pechino. Trump e Xi si trovano nella situazione più delicata possibile, poiché a questo punto il primo che cede ha perso politicamente. Le dichiarazioni di Li Qiang fanno però pensare a un aggiramento dell’ostacolo, più che a uno scontro. L’espressione «compensare completamente» usata dal primo ministro cinese fa pensare che la Cina potrebbe riversare altrove il proprio export. Una reazione diretta ulteriore sarebbe ardua, anche perché le due economie sono comunque strettamente legate. La Banca centrale cinese ha riserve valutarie in dollari per 3.200 miliardi di dollari americani (dato di gennaio 2025). Una cifra enorme accumulatasi anche per i cospicui deficit commerciali che gli Usa hanno accatastato negli anni verso la Cina. Circa l’8,8% del totale del debito pubblico americano detenuto all’estero è nelle mani della Cina, pari a 760 su 8.634 miliardi di dollari (il maggior detentore estero di titoli Usa è il Giappone). Una cifra che è anche calata molto dai massimi di 1.300 miliardi raggiunti nel 2016. Alcuni analisti hanno ipotizzato ieri che una contromossa di Pechino potrebbe essere quella di disfarsi di questa montagna di debito americano per colpire la fiducia nel dollaro. Ma sarebbe una mossa suicida, perché costerebbe moltissimo anche alla Cina, mentre avrebbe un effetto stimato di un aumento dei tassi americani attorno ai 60 punti base, se la banca centrale americana non intervenisse.
Il Segretario americano del Tesoro, Scott Bessent, ha detto ieri che il Giappone avrà la priorità nei negoziati commerciali perché è stato il primo Paese a farsi avanti. Bessent ha detto altresì che l’amministrazione Trump è aperta al negoziato, affermando che gli Stati Uniti potrebbero «finire con il fare alcuni buoni affari». La portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha poi precisato che i dazi continueranno a restare in vigore durante i negoziati per gli accordi.
Poco dopo, Trump, con un post su Truth, ha scritto di aver parlato con il presidente ad interim della Corea del Sud, Han Duck-soo: «Abbiamo parlato del loro enorme e insostenibile surplus, delle tariffe, della costruzione navale, dell’acquisto su larga scala di Gnl statunitense, della loro joint venture in un oleodotto in Alaska e del pagamento per la grande protezione militare che forniamo alla Corea del Sud», ha affermato Trump. Aggiungendo poi che il governo coreano sta inviando una delegazione a Washington per negoziare un accordo. Trump appare ansioso di passare all’incasso politico sventolando il primo accordo, che sia con il Giappone o con la Corea. Ha pure colto l’occasioneper lanciare un messaggio a Pechino: «Anche la Cina vuole fare un accordo, con tutte le sue forze, ma non sa come farlo partire. Stiamo aspettando la loro chiamata».







