2020-01-04
«Dopo lo schiaffo di Donald a Teheran l’Italia rischia l’isolamento in Libia»
L'esperto di Limes Dario Fabbri: «La mossa di Trump ha un valore simbolico, ma non strategico. Gli Usa hanno colto un'occasione sperando che non si scateni una guerra. Ora russi e turchi possono procedere alla spartizione».L'uccisione di Qasem Soleimani da parte di un raid americano sta alimentando forti tensioni tra Stati Uniti e Iran. Per capire meglio che cosa sta accadendo, La Verità ha intervistato Dario Fabbri, giornalista, consigliere scientifico e coordinatore America di Limes.Qual è il senso strategico per gli Usa dell'uccisione di Soleimani?«Non è molto chiaro. Mi spiego. Soleimani è un signore che negli anni ha dimostrato notevoli capacità di colpire non solo gli asset statunitensi ma anche i cittadini americani. Quindi è mediamente e legittimamente odiato dagli apparati Usa quanto dalla politica statunitense. Dunque l'occasione di eliminarlo non solo per Trump ma per il sistema americano era troppo ghiotta per poter dire di no. Siamo in un ambito emozionale, ancorché più che legittimo. Perché sul piano strategico è molto difficile stabilire che valore abbia questo evento. Questa uccisione elimina un soggetto molto capace sul piano tecnico ma il raggruppamento che guidava, cioè la Forza al Quds (che è l'élite delle Guardie rivoluzionarie) non smetterà di esistere con la sua morte. Non sarà la sua morte a fiaccarne l'entusiasmo, l'ambizione o l'abilità».Ritiene possibile possano esserci giovamenti per Trump sul piano elettorale?«Sul piano strettamente elettorale, spendersi l'uccisione di Soleimani è molto difficile: già l'opinione pubblica americana non sa benissimo chi sia. In più, a dieci mesi dalle elezioni presidenziali, è pressoché impossibile: in termini elettorali dieci mesi è un'era geologica. È quindi pura fantasia credere che qualcuno a novembre si ricorderà dell'uccisione di Soleimani e voterà in base a questo se rieleggere o meno Trump. Per questo, credo si sia trattato di un'occasione ghiotta per eliminare Soleimani: un'occasione che è stata colta, su scelta definitiva di Trump ma con l'accordo del Pentagono. Il Pentagono con il suo comunicato scarica di fatto ogni colpa o merito su Trump. Adesso però gli americani, che hanno agito sul piano emozionale, confidano sulla razionalità degli iraniani. Gli americani non vogliono in nessun modo una guerra mediorientale, dopo averle pagate molto care negli anni passati. Vogliono evitare di compiere errori di quel tipo e sperano quindi che la rappresaglia iraniana non sia troppo massiccia da costringerli poi a un'ulteriore rappresaglia che conduca ad una guerra: ciò che Washington proprio non vuole».Trump non ha quindi intenzione di avviare un conflitto con l'Iran?«No. Oserei dire che, a parte alcune sezioni degli apparati americani (soprattutto quelle legate a reminiscenze neoconservatrici), non c'è nessuno in concreto che voglia la guerra all'Iran. Significherebbe fare la guerra a un attore secondario dello scenario internazionale. Non è l'Iran che può insidiare la supremazia americana: in assoluto meno che mai, ma anche a livello mediorientale l'Iran non ha le potenzialità per essere l'egemone regionale. Fargli la guerra vorrebbe dire impantanarsi in un contesto secondario dagli esiti molto incerti. In Medio Oriente non hai la capacità demografica di rimanere in loco e di assorbire le perdite che questo richiede. L'opinione pubblica americana non lo consente. Quindi nessuno vuole la guerra all'Iran. La speranza americana è che gli iraniani si dimostrino più razionali di quanto non lo sono stati gli americani. Ma anche gli iraniani sono esseri umani. E, nel momento in cui realizzassero una rappresaglia che necessiti di un'ulteriore risposta americana, ciò che può succedere non lo sa nessuno».Quali ricadute possono esserci per il contesto iracheno e, più specificamente, per il contingente italiano in loco?«Molto dipenderà dagli iraniani. Dipenderà da che tipo di reazione ci sarà da parte iraniana. Se si tratterà di una reazione indiscriminata contro qualsiasi contingente occidentale sul territorio, è chiaro che potrebbero finirci dentro anche gli italiani. Ma anche se si trattasse di una rappresaglia soltanto contro personale o installazioni americane e questo conducesse poi a una guerra ulteriore, è chiaro che lì anche gli italiani ci finirebbero in mezzo. Dovrebbero decidere semplicemente se rimanere o andarsene. Non credo che l'Italia parteciperebbe alle ostilità, tutt'altro».L'uccisione di Soleimani può avere delle ripercussioni sullo scenario libico?«Gli Usa negli ultimi anni non si sono disimpegnati dal Medio Oriente ma hanno aumentato il numero dei militari nella regione. Provano a fare la manutenzione dell'equilibrio di potenza. Si dilettano a vedere gli altri scannarsi tra di loro, possibilmente senza che nessuno riesca a dominare realmente l'intera regione. Ma poi la manutenzione consiste nel sostenere l'attore che si ritiene in maggiore difficoltà e colpire quelli che si pensano più forti. Negli ultimi mesi, anche la Turchia, sebbene membro della Nato, era finita nel mirino di Washington su molti dossier. Se gli americani si trovassero in guerra con l'Iran, non potrebbero mantenere un fronte anche con la Turchia. Che cosa c'entra la Libia? In una condizione come questa, gli americani chiuderanno più di un occhio nel caso in cui la Turchia, dopo l'autorizzazione del Parlamento, stanziasse un proprio contingente in Libia. È quindi possibile che gli americani lascino campo libero ai turchi in Libia, perché hanno un altro problema da affrontare e non possono aprire un contenzioso anche con la Turchia. Se turchi e russi si spartissero le sfere di influenza in Libia, l'Italia sarebbe tagliata fuori, senza che gli americani muovano un dito».