2019-11-05
Dopo l’auto, tocca all’acciaio. Il disastro demo-grillino crea un deserto industriale
Con la fusione, gli Agnelli incassano e Emmanuel Macron gode. Chi ci rimette sarà l'indotto italiano. Copione già visto con Whirlpool e Auchan, tutte crisi in cui lo Stato si è fatto da parte.Il ministro Stefano Patuanelli: «La mancata tutela? Foglia di fico per lasciare l'Ilva». Oggi Giuseppe Conte convoca l'azienda. Matteo Renzi: «Colpa di 5 stelle e Lega». Però i suoi hanno votato due volte lo stop alla responsabilità dei manager.Lo speciale contiene due articoliDiamo ai francesi quel che è dei francesi: sanno fare i loro interessi. Hanno una scuola di guerra economica, e una struttura statale salda che mette in fila le proprie eccellenze e spesso si muove per distruggere quelle altrui. L'efficienza francese è quasi sempre un danno per l'Italia. Con ciò, non smetteremo mai di criticare le mosse di Parigi e le posizioni geopolitiche che assume. Purtroppo le Alpi non esistono più, e qui in Italia non si vede una classe politica in grado di fare strategia e coordinare lo sviluppo del Paese. Lo si vede chiaramente aprendo uno degli ultimi dossier, quello di Fca e Peugeot. A giugno la casa automobilistica presieduta da John Elkann avanzò offerta formale per fondersi con Renault. Il management della controparte francese si dimostrò da subito aperto al matrimonio, e anche i partner e alleati giapponesi di Nissan avrebbero dato semaforo verde all'operazione. Sono stati gli interventi a gamba tesa del ministro macroniano di ferro, Bruno Le Maire, a far saltare la trattativa. I vertici di Fca fecero capire che non c'erano le condizioni politiche per procedere. Poi all'improvviso Fca fa sapere di aver chiuso una nuovo matrimonio, stavolta con Psa. Così, a posteriori, emerge che la volontà del governo francese, in un mondo soggetto a consolidamenti, salvare era quella di entrambe le aziende parigine. Se Fca si fosse sposata con Renault, Psa sarebbe scomparsa nel medio termine. Invece, unire Psa con la famiglia Agnelli significa avviare un processo di crescita negli Usa e un processo di forte consolidamento e di tagli (più di 3 miliardi) in Europa.Da qui il timore che le sovrapposizioni possano penalizzare gli stabilimenti italiani. D'altra parte, adesso a Renault dovrebbe toccare un futuro cinese. Dongfeng, società automobilistica del Dragone, è attualmente azionista di Psa. Uscirà da questa compagine e lavorerà assieme a Nissan e Renault per produrre nuovi motori elettrici. Il tutto in un progetto si partnership molto simile a quello che lega Airbus e le compagnie dell'aerospazio cinesi. Lo scorso 7 dicembre a Wuhan si è tenuto un importante meeting per avviare lavori congiunti tra il China automotive technology and research centre e il Bureau de normalisation de l'automobile. In sintesi, il gabinetto di Emmauel Macron ha deciso che Renault si svilupperà in Asia e che Psa crescerà negli Usa e in Europa. Il governo giallorosso ha affrontato il tema? Non ci risulta alcuna telefonata né alcun vertice tra il governo e gli Elkann. Solo dopo l'annuncio della fusione, un colpo di telefono da parte del ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri. Più una chiacchierata di cortesia che altro. Se prendiamo i dati di occupazione di Fiat nel 2009 vediamo che a fronte di un fatturato di 50 miliardi c'erano 190.000 dipendenti. Oggi Fca, Ferrari e Cnh valgono 138 miliardi e 267.000 dipendenti. Ferrari e Cnh sono cresciute molto e hanno portato anche più occupazione in Italia. Segno che un'azienda deve occuparsi della propria crescita, ma spetta a uno Stato fare in modo che quella crescita tocchi il proprio territorio. Accusare adesso Fca di aver venduto (e incassato dividendi) ai francesi, da parte della politica è fin troppo comodo. Se l'Italia si avvia verso la deindustrializzazione è per colpa degli Elkann o per il deserto che si è formato? In una recente intervista al Foglio Mario Turco, sottosegretario grillino con delega alla programmazione economica e allo sviluppo, ha detto che «immagina una Taranto senza Ilva». In pratica la riconversione economica e sociale della città può passare dalle cozze o da altre attività turistiche. Frasi che gridano vendetta, perché una nazione senza industria militare o civile non conta nulla. Chi pensa che quella di Turco sia un'uscita su cui ridere, da ieri deve ricredersi. L'aver tolto lo scudo legale ad Arcelor Mittal ha dato avvio al percorso di uscita dell'azienda angloindiana dall'Italia. Arcelor non vedeva l'ora di rompere il contratto. L'ex Ilva perde 50 milioni al mese e la neo ad Lucia Morselli non sarebbe mai stata in grado di riportare il pareggio. Adesso non solo potrà trattare da una posizione di superiorità, ma se anche dovesse abbandonare del tutto Taranto non ne avrà nessuna colpa.Se invece ci rimarrà, lo farà a discapito dei contribuenti. Questa è follia politica e incompetenza. Le aziende in Francia chiedono e semmai ottengono, le imprese in Italia o scappano o scaricano i costi sulla collettività. Ciascuno di noi farebbe lo stesso se avesse la controparte giallorossa. Perdere la produzione di acciaio significa nei prossimi anni rischiare di non essere più nel G7. Anche Piombino è in forte crisi e la eventuale chiusura di Taranto trascina Genova e tutto l'indotto. La politica grillina è palesemente devastante. L'accordo su Whirlpool è una finta per rimandare il problema, la Ex Embraco non ha mai avuto una soluzione. Mercatone Uno è in un limbo e pure l'acquisizione di Auchan da parte di Conad sta portando 4.000 esuberi. Purtroppo il Sud sta diventando un deserto e il Nord è sotto schiaffo francese. Solo che una volta Parigi doveva faticare per creare nella classe dirigente italiana delle quinte colonne, adesso non deve fare nulla. Basta aspettare il fallimento tricolore. Claudio Antonelli<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dopo-lauto-tocca-allacciaio-il-disastro-demo-grillino-crea-un-deserto-industriale-2641217206.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="laddio-di-arcelor-rimasta-senza-scudo-e-firmato-pd-m5s-e-iv-anche-se-nega" data-post-id="2641217206" data-published-at="1758062883" data-use-pagination="False"> L’addio di Arcelor rimasta senza scudo è firmato Pd, M5s e Iv (anche se nega) Pd, Movimento 5 stelle e Italia viva hanno fatto saltare lo scudo penale e ora il governo si trova in difficoltà, con Arcelor Mittal che è intenzionata a ritirarsi dall'acquisizione dell'Ilva. Da un lato, ieri, diverse fonti governative presenti al tavolo che si è riunito d'urgenza al Mise con Stefano Patuanelli, Beppe Provenzano, Nunzia Catalfo e Roberto Speranza, oltre ad alcuni rappresentanti del Mef, hanno fatto sapere che l'esecutivo non consentirà «la chiusura» dell'azienda. «Non esistono presupposti giuridici per il recesso del contratto, lo scudo penale è una foglia di fico», ha detto Patuanelli. Lo stesso concetto è arrivato dalla ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti, la dem Paola De Micheli, durante la registrazione di Povera patria, andata in onda ieri sera su Rai2: «No, Ilva non chiude», ha detto. Inoltre il premier Giuseppe Conte ha convocato per oggi pomeriggio a Palazzo Chigi i vertici di Arcelor Mittal per un incontro. Fatto sta che ieri il colosso angloindiano dell'acciaio ha reso noto di aver intenzione di ritirarsi dall'acquisizione dell'Ilva. «Alla base della decisione, la cancellazione dell'immunità penale per l'attuazione del piano ambientale, i provvedimenti emessi dal Tribunale di Taranto» e una complessiva «situazione di incertezza giuridica e operativa». La questione ha aperto un grande dibattito politico, con un botta e risposta che ha visto protagonisti anche il numero uno della Lega, Matteo Salvini, e Matteo Renzi, leader di Italia viva. «L'emendamento per la soppressione dello scudo penale ad Arcelor Mittal è a firma M5s ma è stato votato da Pd, Italia viva e Leu. Chi ha votato la fiducia dovrebbe andare a Taranto stasera a spiegarlo», ha detto ieri l'ex vicepremier nel corso di una conferenza stampa puntando il dito contro la sinistra. «Un Paese senza acciaio è morto», ha continuato ieri Salvini. «È folle l'ipocrisia di quelli che vanno a dormire con la foto di Greta sul comodino e poi rinunciano a miliardi di un'azienda che vuole investire a Taranto. Se si blocca l'Ilva si blocca tutta Italia», ha concluso. «La decisione di Mittal di disimpegnarsi da Taranto è inaccettabile», ha invece ribattuto ieri su Facebook Renzi, aggiungendo che «il governo deve da subito togliere alla proprietà ogni alibi eliminando gli autogol come quello sulla immunità voluto dal vecchio governo e sul quale avevamo messo in guardia il ministro Patuanelli. Per chi in queste ore fa una polemica meschina e mediocre: lo scudo penale è stato cancellato dall'esecutivo Lega-5 stelle», ha ribadito Renzi rispondendo a Salvini. «Taranto ha bisogno di un futuro e il futuro passa anche dall'acciaio. Taranto non può fare a meno dell'Ilva. Quello dell'immunità è un alibi che va tolto dal tavolo subito», ha sottolineato. Insomma, il Rottamatore ( e la sinistra tutta) vuol negare di essere coinvolto nel pastrocchio che rischia di far perdere il posto a 15.000 persone. Ma le cronache parlamentari dicono il contrario: le impronte di Renzi e dei suoi ci sono eccome. Vale la pena fare chiarezza: il premier Conte a giugno, pochi mesi prima che cadesse il governo gialloblù, spiegava che l'immunità penale garantita ai commissari di Ilva è «un privilegio» e come tale «il Parlamento, che è sovrano, lo ha eliminato». Poco prima che il governo Conte bis diventasse operativo, però, ecco che, con il decreto Crescita, a seguito del malumore montante di Arcelor, arriva un primo stop parziale alla cancellazione dell'immunità: è il 6 settembre 2019. Ma questo provoca le ire delle frange più dure dei grillini. Così 17 senatori del M5s chiedono la linea dura e così, attraverso un emendamento interno al decreto sulle crisi aziendali firmato dalla pentastellata Barbara Lezzi (e votato da Pd, Italia viva e Leu) e approvato dalle commissioni Industria e Lavoro del Senato, la cancellazione dello scudo passa. A questo punto si tratta di attendere che il decreto venga convertito in legge. Fatto che avviene il 3 novembre, in Senato, con il voto di Pd, M5s e Iv, con tanto di dichiarazione favorevole all'approvazione da parte del renzianissimo Davide Faraone. Da ieri l'immunità penale salta e Arcelor Mittal decide di tirarsi indietro. Sul tema, ovviamente, sono subito intervenuti i sindacati. «L'Ugl è preoccupata dalla scelta dei vertici di ArcelorMittal di recedere dal contratto. È a rischio la tenuta sociale di un intero territorio», ha dichiarato ieri in una nota Paolo Capone, segretario generale dell'Ugl. «Il governo deve intervenire urgentemente chiedendo di fare chiarezza sul futuro dell'azienda a tutela dei livelli occupazionali». Dello stesso avviso Confindustria che ha fatto sapere ieri che «l'annunciato ritiro di Arcelor Mittal dallo stabilimento ex Ilva avrà effetti negativi sulla città di Taranto e sull'economia dell'intero Paese con particolare impatto sull'occupazione». Intanto la Borsa sembra apprezzare la scelta di abbandonare le trattative. Il titolo Arcelor Mittal ieri ad Amsterdam ha chiuso in crescita del 3,92% a 14,58 euro. Gianluca Baldini