2019-04-17
Sorpresa, il debito pubblico costa meno
Anche ieri gran parte della stampa si è data da fare per darci la nostra cattiva notizia quotidiana. Al momento giornali e tv sono specializzati nel dipingere scenari da tregenda, con un Pil ridotto al lumicino e un debito destinato a esplodere. Clausole di salvaguardia, tassi d'interesse, disoccupazione: le geremiadi sono puntuali come le cambiali in scadenza. Ieri, per esempio, sui siti web il principale titolo dopo il rogo di Notre Dame era dedicato alle previsioni sul deficit, che secondo il capo economista di Banca d'Italia è destinato a salire se il governo non deciderà di alzare l'Iva. (...)(...) In realtà, nella sua audizione in Parlamento, il funzionario di Via Nazionale ha detto varie cose, tra le quali una che va in controtendenza rispetto alla narrazione ufficiale del sistema dell'informazione. Eugenio Gaiotti, questo il nome del collaboratore di Ignazio Visco, in pratica ha spiegato che «la spesa per interessi è diminuita in maniera marginale. L'onere medio sul debito pubblico», infatti, «è sceso di 0,1 punti percentuali, al 2,9%». Chiaro il concetto? Abbiamo pagato meno interessi. Al che uno si interroga: ma come, fino a ieri ci hanno riempito la testa di cifre per spiegarci che a causa dello spread ci saremmo svenati e ora scopriamo che non è vero? Domanda legittima, che però dovrebbe essere girata alle Cassandre, cioè a quegli stessi autorevoli commentatori che nei mesi scorsi spiegavano sulle prime pagine dei quotidiani che le rate sui mutui sarebbero salite, giungendo fino a calcolare l'incremento sull'obolo da versare mensilmente alle banche. In realtà, così come i tassi sui mutui non sono saliti, al punto che le rate paradossalmente sono un po' scese, altrettanto non è salita la spesa del nostro debito e dunque non stiamo pagando più interessi di quelli che pagavamo in precedenza, quando al governo c'era la sinistra. Possibile? Sì e per capirlo basta guardare i numeri.I tassi sui mutui, dice l'Abi, non sono aumentati in quanto il sistema bancario ha ridotto le proprie pretese, in modo tale che il costo del credito è risultato più basso. Così sarebbe stato assorbito l'effetto dello spread, che in realtà non si è tradotto in un rincaro del costo del denaro, il quale è rimasto più o meno stabile anche con il governo sovranista. Quanto invece al debito pubblico, è vero che lo spread può incidere sulle nostre tasche facendo salire gli interessi sulle nuove emissioni, ma è altrettanto vero che grazie all'intervento della Bce, che ha praticamente allungato il quantitative easing, l'impatto sui conti dello Stato non soltanto è stato nullo, ma addirittura lievemente inferiore. Insomma, nonostante fossero state anticipate le più nere previsioni, al momento le cose non stanno come erano state raccontate.Non dico che tutto ciò sia motivo di esultanza e però forse neppure una ragione per piangersi addosso, come invece fanno gran parte dei commentatori, i quali vedono solo nero, forse dopo aver visto - politicamente parlando - solo rosso. Le analisi della grande stampa tendono infatti a minimizzare i segnali - pochi - che mostrano una realtà migliore delle aspettative. La produzione industriale sale più di quanto salga nel resto d'Europa e supera perfino i livelli della Germania? Per le nostre Cassandre non è importante. Il ministro dell'Economia nega il bisogno di una manovra correttiva? Per i giornali la sua parola non è degna di nota e dunque finisce fra le tante chiacchiere che vengono riprodotte in questi giorni. Non hanno migliore fortuna neppure le tiepide speranze del presidente della Confindustria, che per una volta lascia aperta la porta a qualche segnale di ripresa.Per il coro dei commentatori, davanti a noi c'è solo la recessione e dunque con sistematicità quotidiana raccontano il tracollo del Paese, senza rendersi conto che in fondo descrivono un po' anche il loro tracollo, dando un aiuto fondamentale al rallentamento dell'economia. Già, perché a forza di sentir annunciare una crisi e una tassazione imminente (ormai della patrimoniale si parla senza più alcuna reticenza), il consumatore non spende e preferisce mettere da parte i risparmi per i tempi peggiori e l'imprenditore rinuncia a investire, preferendo rinviare le decisioni. Il combinato disposto di chi vede nero è che dà una mano a spingersi ancora un po' più in là nell'oscurità. Non dico di dire che tutto va bene, ma neppure che tutto va male, perché così non è.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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