2019-08-31
Di Maio impone altri 20 punti ai dem: «Senza, si può pure tornare al voto»
Il leader del M5s blinda i decreti Sicurezza e le autonomie regionali: «Altrimenti elezioni, meglio se subito». Maria Elena Boschi stizzita: «Ultimatum irricevibile». E i pentastellati che vogliono tenersi la poltrona supplicano Beppe Grillo. Muoia Sansone con tutti i Filistei. È questa la linea adottata ieri da Luigi Di Maio, con la - non lieve - differenza, rispetto all'episodio biblico, che i Filistei erano gli avversari, i nemici di Sansone, mentre Di Maio si è scagliato anche contro gli abitanti della sua stessa casa politica, non solo contro il Pd. Ma procediamo con ordine. Ieri nel primissimo pomeriggio, al termine del suo incontro con Giuseppe Conte, il capo politico del M5s ha sganciato la bomba: «Il presidente incaricato potrebbe dar vita a un Conte bis: uso il condizionale perché o siamo d'accordo a realizzare i nostri punti o non si va avanti. Se verranno accolti, bene; altrimenti, meglio andare al voto, e, aggiungo, anche subito». E, per rendere tutto più rovente, Di Maio ha scelto una serie di temi (altri 20) uno più urticante dell'altro per il Pd: no a modifiche dei decreti Sicurezza (quasi una provocazione per il partito che aveva mandato i suoi deputati sul bacone della capitana Carola Rackete), dare seguito alle richieste di autonomia delle Regioni (battaglia della Lega finora frenata proprio dai grillini), revoca delle concessioni autostradali, conflitto d'interessi. Una mina dopo l'altra, insomma. Da quel momento è iniziato un pandemonio, con lo stato maggiore del Pd preso dal panico. Andrea Orlando ha bollato l'atteggiamento di Di Maio come «incomprensibile» («Ha cambiato idea? Lo dica con chiarezza»); Matteo Orfini (uno dei deputati crocieristi) ha invocato l'abrogazione secca dei decreti salviniani; Paola De Micheli è andata all'attacco parlando di «problemi interni al M5s», quasi chiamando l'intervento del preside Beppe Grillo contro il capoclasse ribelle; Maria Elena Boschi ha gridato contro «ultimatum e minacce irricevibili»; e «ultimatum» è stata anche l'espressione usata da Nicola Zingaretti. Ma come stanno davvero le cose? Fonti autorevolissime pentastellate (ovviamente sotto la protezione dell'anonimato) descrivono alla Verità un quadro per loro drammatico: Di Maio non ha solo deciso di alzare il prezzo nel negoziato, ma ha posto un vero e proprio aut aut, puntando a prendere tutto o - se le cose andranno diversamente dalla sua volontà - a far saltare tutto. Con chi ce l'ha dunque Di Maio? Per un verso con Giuseppe Conte, che vuole sfilargli il partito, e per altro verso con il corpaccione dei gruppi parlamentari grillini, a lui ormai ostili perché animati dal solo obiettivo di prolungare la legislatura. All'uno e agli altri - ragiona la nostra fonte - è come se Di Maio avesse detto: «Ricordatevi che qui comando io». Il messaggio diretto a Conte è ancora più perfido, anche quando Di Maio è sembrato omaggiarlo: «Abbiamo sempre considerato Conte super partes». Altro che omaggio, la traduzione più chiara sarebbe: «Conte non è dei nostri, è un'altra cosa rispetto al M5s». Dal punto di vista di Di Maio, una ragione di più, sempre ammesso che il governo nasca, per rivendicare per sé la posizione di vicepremier, e per difendere con le unghie e con i denti il ruolo di capo politico. Tra l'altro Di Maio - ieri mattina - ha vissuto come una provocazione, negli articoli di alcuni quirinalisti, il fatto che le sue richieste fossero bollate come «smanie»: e quindi la sua stilettata di ieri era anche rivolta al Colle. In questa battaglia campale, Di Maio pensa di poter contare su due fattori. Il primo è il popolo grillino, incazzatissimo per l'intesa con il Pd. Di Maio punta a rivolgersi a loro: a mostrare di non aver rinunciato alle posizioni dure e pure. Il secondo fattore è Davide Casaleggio e la famigerata piattaforma Rousseau. Casaleggio è il primo, esaminando minuto per minuto i social grillini, a sapere quale sia la rabbia della base. Da questo punto di vista, contrariamente alle veline fin troppo rassicuranti veicolate nei giorni scorsi da manine Pd (o da parlamentari grillini favorevoli al matrimonio con il Nazareno), il voto su Rousseau diventa l'arma finale che Di Maio agita (come La Verità spiega in dettaglio in questa pagina). Cambiamo fronte, e cerchiamo di capire cosa abbiano fatto ieri i nemici interni di Di Maio, dopo la sua piazzata in conferenza stampa. Elementare, Watson: si sono attaccati al telefono tempestando Beppe Grillo, e denunciando Di Maio come un sabotatore, come un kamikaze pronto a far saltare un'intesa ormai in dirittura d'arrivo. Sta qui il finale (ancora apertissimo) del giallo. Cosa vorrà fare - e cosa sarà in grado di fare - Grillo contro Di Maio, dopo aver così evidentemente investito nei giorni scorsi su Conte? Comunque la si guardi, questa vicenda è una specie di tragicomica Libia, con una guerra tribale multipla: tra Di Maio e Conte per il controllo del M5s, tra Renzi e Zingaretti per il controllo del Pd, e tra Pd e M5s per i posti. Più che mai, è stato poco saggio consentire che questo spettacolo andasse in scena, e sarebbe stato opportuno (lo è ogni minuto di più) ridare la parola agli elettori. A questo punto, o salta tutto, oppure, quand'anche le pressioni fortissime (interne e internazionali) che spingono per l'intesa riuscissero a far partire il governo dell'inciucio, saremmo davanti a una creatura gracile, fragilissima, figlia di nessuno, disconosciuta da quasi tutti. Ne è convinto Francesco Galietti (Policy Sonar), che è lapidario: «Il giallorosso non decolla. Le fondamenta sono marce, e girano troppi Pietro Micca con i cerini accesi».
Lo stabilimento Stellantis di Melfi (Imagoeconomica)
Ecco #DimmiLaVerità del 12 settembre 2025. Il capogruppo del M5s in commissione Difesa, Marco Pellegrini, ci parla degli ultimi sviluppi delle guerre in corso a Gaza e in Ucraina.