2018-06-09
Di Maio zittisce Beppe Grillo: «Sull’Ilva decido io, lui parla a titolo personale»
Strappo sull'acciaieria di Taranto tra il fondatore del M5s e il vicepremier, che apre un altro fronte con l'Europa sui fondi: «Versiamo 20 miliardi, ma torna troppo poco».Si consuma sul fronte Ilva il primo vero banco di prova di Luigi Di Maio, che ieri, sul futuro del sito industriale tarantino, ha preso pubblicamente una posizione distante da quella di Beppe Grillo, fondatore e anima del Movimento 5 stelle. Per il vicepremier, ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, il futuro dell'Ilva di Taranto - che attualmente impiega 14.000 dipendenti ed è in amministrazione straordinaria - sarà definito «con responsabilità» assieme alle parti in causa. Di Maio è stato netto: sull'Ilva «Grillo, o chiunque altro, esprime delle opinioni personali. Su tutti i dossier io non prenderò decisioni finché non avrò ascoltato le parti», quindi «la proprietà (il consorzio Am Investco, guidato dal gigante dell'acciaio Arcelormittal, che ha vinto la gara per rilevarla, ndr), i sindacati, il sindaco di Taranto».Bisognerà capire se, e in che misura, le decisioni del ministro si ispireranno a quanto si legge nel contratto di governo tra Lega e M5s, che alla voce Ilva prevede l'impegno a «concretizzare i criteri di salvaguardia ambientale, secondo i migliori standard mondiali a tutela della salute dei cittadini del comprensorio di Taranto, proteggendo i livelli occupazionali e promuovendo lo sviluppo industriale del Sud, attraverso un programma di riconversione economica basato sulla progressiva chiusura delle fonti inquinanti, per le quali è necessario provvedere alla bonifica, sullo sviluppo della green economy e delle energie rinnovabili e sull'economia circolare». Concetti simili a quelli espressi giovedì da Grillo, secondo cui «nessuno ha mai pensato di chiudere l'Ilva. Si pensa a una riconversione, mantenendo l'occupazione nell'attività di bonifica del sito». Per fare questo, suggerisce Grillo, si potrebbero usare i 2,2 miliardi di euro di fondi europei «dimenticati», perché «immessi in un fondo quando l'Europa si chiamava Ceca, dalle imprese di carbone e acciaio, proprio per i pensionamenti dei lavori usuranti e per le bonifiche». E, «dato che l'Ilva è la più grande centrale dell'acciaio d'Europa, potremmo cercare di accedere direttamente a questo fondo che attualmente è gestito dal Consiglio europeo e messo, credo, all'ingrasso in qualche fondo tripla A tedesco». Parole che hanno suscitato non poche reazioni, tra le quali spicca quella del predecessore di Di Maio allo Sviluppo economico, Carlo Calenda: «L'Ilva vale un punto di Pil. Grillo non sa di cosa parla», ha detto Calenda, precisando: «Le dichiarazioni di Di Maio mi sembrano intelligenti. Gli dico solo che al 30 giugno le casse di Ilva saranno vuote. Bisogna chiudere un accordo con i sindacati, che con lui saranno più disponibili che con me, perché volevano chiudere con il nuovo governo. Di Maio ha di fronte un gol a porta vuota».Vicenda Ilva a parte, l'utilizzo dei fondi Ue è una delle chiavi su cui punta la politica economica del governo. Lo ha spiegato lo stesso Di Maio il 3 giugno: «Vogliamo fare tante cose, dal reddito di cittadinanza all'abolizione della legge Fornero e i soldi per far questi provvedimenti li prenderemo andando ai tavoli europei». E ieri il vicepremier ha confermato l'impegno di aumentare la quota di fondi Ue destinati all'Italia: «Noi diamo all'Europa 20 miliardi l'anno e di questi ce ne ritornano indietro poco più della metà». Ovviamente, gli europeisti nostrani si sono affrettati a ricordare a Di Maio che i fondi strutturali non possono essere usati per finanziare la spesa corrente dello Stato e tappare buchi di bilancio. Né ci stupiremmo se saltassero fuori i soliti soloni a catechizzarci sull'italica attitudine allo sperpero, che porta il nostro Paese, secondo maggior beneficiario in base ai dati dell'ultimo rapporto della Commissione Ue sul periodo di programmazione 2014-2020, a usare il 37% dei fondi comunitari che percepisce (di cui solo il 3% è stato già speso), mentre la media europea è del 44% di stanziamenti impegnati e del 6% di fondi spesi. Ora, paragonata a nazioni tipo la Polonia, l'Italia non brilla per l'efficienza nell'allocazione delle risorse erogate da Bruxelles. Ed è vero che i finanziamenti europei devono essere utilizzati per investimenti produttivi, non per coprire le uscite dovute all'attuazione di un'agenda di governo. Ma bisogna ricordare che il nostro Paese è un contributore netto: la Corte dei conti ha certificato come, nel 2016, Roma abbia sborsato a favore dell'Europa, al netto dei contributi ricevuti, ben 4,4 miliardi di euro. E con la Brexit, l'Italia è destinata a rafforzare la propria posizione tra gli Stati che incidono in modo più cospicuo sul bilancio dell'Ue. Non sarebbe assurdo immaginare che, nell'interesse di una ripresa più stabile, l'Europa inizi a darci più di quello che prende. In verità, come spiega in un articolo Linkiesta.it, il nostro Paese non si discosta molto dagli altri rispetto alla quantità di fondi Ue impiegati: semplicemente, l'Italia «mostra un avvio più lento nel dispiegamento dei finanziamenti», ma all'iniziale inerzia «seguono in genere forti accelerazioni di spesa verso il termine del ciclo di programmazione». Rapportando la percentuale di progetti già finanziati al valore assoluto dei fondi ottenuti, «con 27 miliardi di progetti già selezionati l'Italia è dopo la Polonia, il Paese che ha impiegato più risorse». C'è poi da considerare che l'erogazione dei finanziamenti, specialmente nel periodo 2014-2020, è stata vincolata a una serie di nuovi parametri normativi che hanno rallentato le autorità di gestione dei fondi in tutta Europa. Altro che sprechi all'italiana, dunque: quella di produrre quintali di regolamenti è una specialità dell'eurocrazia.
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