2025-11-22
Da lavapiatti a «rivale» di Marchesi. La stella di Moroni è la materia prima
Aimo Moroni e Massimiliano Alajmo
Ultima puntata sulla vita del grande chef, toscano di nascita ma milanese d’adozione. Frequentando i mercati generali impara a distinguere a occhio e tatto gli ingredienti di qualità. E trova l’amore con una partita a carte.Riprendiamo con la seconda e conclusiva puntata sulla vita di Aimo Moroni. Cesare era un cuoco di origine napoletana che aveva vissuto per alcuni anni all’estero. Si era presentato alla cucina del Carminati con una valigia che, all’interno, aveva ben allineati i ferri del mestiere, coltelli e lame.Davanti agli occhi curiosi dei due ragazzini l’esordio senza discussioni: «Guai a voi se me li toccate». In realtà una ruvidezza solo di apparenza, in breve capì che Aimo e Gialindo avevano solo il desiderio di apprendere da lui la professione con cui volevano realizzare i propri sogni. Casa sua divenne il laboratorio dove insegnò loro i piccoli segreti di una vita, mettendoli poi alla prova nel realizzare i piatti con la promozione o bocciatura conseguente. Di quegli anni Aimo fece proprio un insegnamento fondamentale: «Se sapete cucinare ma non conoscete la materia prima, il vostro talento sarà sempre sprecato». Da qui l’importanza del prodotto, del saper fare la spesa, di come trovare l’eccellenza dell’ingrediente e di chi lo produceva, allevatori e coltivatori. «Lo accompagnai più volte a fare la spesa, al mattino, ai mercati generali. Ero un ragazzino “insospettabile” e, mentre lui discuteva con il macellaio i tagli da acquistare, io ne testavo in diretta la qualità». Sfiorava con le dita i tagli di cosce e carré «e se l’impressione era come di un velluto d’olio, dovevo dargli un cenno che andava bene». Se, invece, il ragazzino-scout sentiva la carne ruvida, grazie e arrivederci.E la stessa cosa all’ortomercato: all’alba per le verdure «mi fece scoprire come alcuni rinfrescavano l’insalata che avevano sul banco da qualche giorno con l’acqua fresca per farla apparire brillante», ma in realtà la qualità, dopo tre giorni al massimo, era destinata a decadere, indipendentemente dalla doccia rigenerante. Tra le madeleine che Aimo conserverà per sempre nel cuore c’è un altro episodio che si divertiva a raccontare, in realtà specchio di quella Milano del dopoguerra dove si viveva di sudore, fatica, ma anche tanta generosità. Siamo alla notte di San Silvestro del 1946, la prima lontano dalla famiglia. Con l’amico Gialindo e qualche soldino in tasca, vedono sulla vetrina di una trattoria l’insegna del menù della serata, da leccarsi i baffi tra cotechino e lenticchie, cappelletti in brodo, cappone e agnello. Si accorgono che, in piccolo, c’era anche scritto che si poteva consumare il menù del giorno, quello a prezzo popolare: busecca (trippa alla milanese), fagioli borlotti e poco altro, ma entro le 22.30. Sfidano la sorte e trovano un tavolino libero.Incontrano la sciura Maria, bella donna dalle forme generose e il tratto materno. «Ma voi siete quelli del salumiere?». Evidentemente si era sparsa la voce su questi due imberbi toscanelli che giravano raccomandati. Offre loro il pane (che allora si pagava a parte) e i due si pappano la busecca «fino a leccare il piatto». Al momento di pagare il conto versano sul tavolo i loro soldini appena sufficienti. La sciura Maria li blocca «Un mument». Loro diventano «color barbera dalla vergogna» temendo di aver fatto male i conti. Nel frattempo iniziano ad arrivare i primi clienti, quelli che il conto della serata se lo potevano permettere davvero. Loro si guardano intorno cercando di sparire alla vista. Dopo qualche minuto, la padrona di casa arriva al tavolo «con due piatti faraonici», cappone con mostarda per Aimo e agnello con patate per Gialindo. Non era ancora il tempo di Scherzi a parte, loro balbettano: «Ma non sono nostri». La sciura manco li ascolta: «Poggiò le mani sulle nostre spalle, attirò l’attenzione battendo una posata contro un bicchiere e, parlando a tutta la sala, fu molto diretta “Signori, chi è che paga questi due piatti?”, “Noi”, risposero tutti». Anche questa era la Milano del miracolo economico prossimo a venire.Oramai Aimo comincia a marciare di suo. Passa dal Carminati a Gioacchino; da lavapiatti a progressivo aiuto del cuoco di turno, non prima di essere arrivato all’alba per accendere il fuoco «con le cassette di legno della verdura, unte con un po’ d’olio perché bruciassero prima». Fu lì che imparò a fare quel brodo ricco di aromi e sostanza divenuto poi (anche) l’arma segreta per i suoi risotti.Il 1955 è l’anno della svolta. I genitori erano amici di famiglia di Giovanna e Lorenzo Giuntoli, anche lei cuoca e lui carabiniere come loro. Avevano una figlia, Nadia, che Aimo aveva intravisto ancora in fasce, ma nel 1955 era diventata una bella ragazza, nel pieno di una adolescenza ricca di fascino e promesse. Mentre i genitori discutono del più e del meno, loro giocano a carte per ingannare il tempo. «Lei vinse a carte scoperte e io persi, ma pure la testa», per lei. Dopo poche settimane si presenta l’occasione che aveva sempre sognato. Un bar tabaccheria, nei pressi della stazione Centrale, in via Copernico, aveva la proprietaria poco motivata a preparare i quattro piatti per l’angolo cucina e il nostro Aimo esordisce come titolare. Chiama mamma Nunzia a dargli una mano e, ovviamente, dopo un poco, lei chiama la giovane Nadia ad affiancarla.La scintilla della briscola di famiglia, per quei due giovani toscani in terra meneghina, diventa un legame indissolubile che li unirà poi per tutta la vita, non solo a livello familiare, ma pure professionale. «Ricordo ancora quando scrissi il mio primo menù», rivela a Carlo Spinelli, «mi sentivo una specie di Montanelli». «Avevo una Olivetti, carta carbone e battei così lentamente i tasti per l’emozione che impiegai un’ora per dodici copie». Nel 1962 il primo traguardo. In via Montecuccoli, allora periferia di una Milano in pieno sviluppo, con la strada ancora sterrata circondata da cantieri edili, rileva una vecchia osteria con gioco di bocce e pergolato. Aimo e la sua Nadia preparano le colazioni al mattino per gli operai, a pranzo si viaggia di schietta e semplice toscanità, come si usava allora anche tra le vie del centro e, in breve, da semplice bar trattoria diventa Trattoria di Aimo e Nadia sino al battesimo della maturità, «Il Luogo di Aimo e Nadia», messaggio neanche tanto subliminale a testimonianza che i palati sempre più fidelizzati andavano da questa bella coppia per gustarsi la loro cucina, con un estendersi della miglior materia prima a tutta la penisola, dalla calabrese cipolla di Tropea ai capperi di Pantelleria, il piemontese bue di Carrù, in una antologia tricolore per cui, già negli anni Ottanta, Aimo e Nadia hanno narrato, con i loro piatti, «la prima forma di territorialità consapevole della moderna ristorazione italiana».La prima stella gommata (Michelin) nel 1981, la seconda nel 1984. Premiato dal sindaco Gabriele Albertini con l’Ambrogino d’Oro nel 2005. Erano anni in cui le «tifoserie golose» della Milano un po’ ghiottona e curiosa si dividevano tra i seguaci del «divin» Gualtiero Marchesi e il nostro Aimo. La miglior sintesi, probabilmente, è quella di Massimiliano Alajmo, da molti considerato l’erede naturale dello «zio» Aimo, come erano uso chiamarlo i suoi fedelissimi (copyright del sottoscritto). Tanto che gli dedicò un piatto «Al-Aimo» ideale gemellaggio reciproco. «Aimo celebrava la gastronomia come nutrimento essenziale», da qui la sua ricerca quasi maniacale della materia prima a tutto stivale, «Gualtiero come nutrimento mentale», con quei gemellaggi di «architettura edibile» sorta di rimandi alle creazioni artistiche di Jackson Pollock, con il «Dripping di pesce» o il riso oro e zafferano.Con il nostro Aimo, invece, che ha fatto sognare generazioni con la sua zuppa etrusca o gli spaghetti al cipollotto. La stima è reciproca. Ad un evento Aimo cucinò per Gualtiero un risotto ai fiori di zucca e tartufo. Dopo l’inevitabile bis, Gualtiero chiamò Aimo e gli sussurrò in un orecchio: «Se ne mangio ancora non ne rimane più per gli altri».
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