2023-12-14
De Benedetti ingrato demolisce i compagni dopo averli usati per fare i suoi affari
Carlo De Benedetti (Imagoeconomica)
L’ex patron di «Repubblica» smonta Maurizio Landini, alleato di John Elkann, Enrico Letta ed Elly Schlein. Leader che appoggiava quando gli servivano.Non sono quasi mai stato d’accordo con Carlo De Benedetti, però quello che ha detto ieri in un’intervista al Foglio mi ha sorpreso. Fatta eccezione per alcuni giudizi che rivelano la sua antipatia per il presidente del Consiglio e un’avversione dura a morire confronti di Silvio Berlusconi, che non gli è passata neppure dopo la scomparsa di quest’ultimo, sul resto è difficile non dargli ragione. O meglio: è l’Ingegnere a dare ragione a me, perché a esclusione delle opinioni su Giorgia Meloni e sul Cavaliere, tutto ciò che egli ha sostenuto è già stato scritto da me su queste pagine, a cominciare dalla valutazione su Maurizio Landini. De Benedetti dice che, pur avendo rilasciato molte interviste a Repubblica, il segretario della Cgil non parla mai della Fiat. Ciò che resta dell’industria automobilistica italiana è comunque una realtà importante, che, oltre a dare lavoro a migliaia di persone, alimenta con l’indotto un settore vitale per il nostro Paese. Tuttavia, in questi anni il colosso di proprietà degli Agnelli non solo ha cambiato nome, ma ha pure trasferito la sede all’estero, delocalizzando molte produzioni (e altre lo saranno in futuro). Un fenomeno avvenuto nel silenzio del sindacato. In occasione dello sciopero generale e della polemica con il ministro dei Trasporti Matteo Salvini mi ero preso la briga di fare una piccola ricerca allo scopo di rintracciare le ultime dichiarazioni di Landini sulla nostra industria automobilistica: beh, ho dovuto andare indietro negli anni. Eppure, come nota De Benedetti, il leader della più importante confederazione parla spesso. In particolare, a Repubblica, ma sul caso del gruppo torinese glissa. L’annotazione dell’Ingegnere sugli articoli del quotidiano diretto da Maurizio Molinari è perfida. Infatti, il giornale fondato da Eugenio Scalfari e dal principe Caracciolo, dopo essere stato a lungo nelle sue mani, oggi è di proprietà degli Agnelli ed è in questa ferita aperta che l’Ingegnere infila il dito, sottolineando i silenzi di Landini e le manovre di chi gli offre una tribuna. All’ex patron della Olivetti (uno dei suoi molti insuccessi), la vendita del gruppo Espresso, decisa dai figli contro il suo parere, brucia a distanza di anni. Perché i suoi eredi hanno passato la mano? chiede l’intervistatore. Perché era giusto così, replica il quasi novantenne De Benedetti. E perché gli Agnelli hanno comprato, incalza quell’altro. Perché volevano coprirsi le spalle mentre stavano cedendo la Fiat. Ecco, nell’intervista a uno dei capitani d’industria degli anni Novanta, c’è un pezzo di storia della politica e dell’economia nazionale. O per lo meno quel pezzo di storia attuale che vede sia il sistema imprenditoriale che quello istituzionale in svendita.L’Ingegnere ne ha per tutti, non soltanto per la famiglia che avrebbe voluto scalare e scippare (negli anni Ottanta, nominato amministratore delegato del gruppo automobilistico, ci provò), ma anche per Elly Schlein e Giuseppe Conte, e soprattutto per capi e capetti della sinistra. Della segretaria del Pd dice le cose che su questo giornale vado dicendo fin dal principio e cioè che le sta sbagliando tutte. Non è una leader ed è stata usata da Dario Franceschini per restare al potere. Il capo grillino (ma forse i 5 Stelle non si chiamano neppure più così, visto che fanno di tutto per dimenticare l’Elevato, ignorandone perfino il ricovero in ospedale) è definito un camaleonte, e avendo io dedicato all’ex presidente del Consiglio un libro dal titolo Il trasformista, rivendico di averne raccontato i voltafaccia e l’inconsistenza politica quando ancora era a Palazzo Chigi. Ora De Benedetti sposa le mie tesi, al punto da dire che se dovesse scegliere tra Meloni e l’ex collaboratore dell’avvocato Alpa, salverebbe la prima: meglio tardi che mai. Identici giudizi, anche questi fuori tempo massimo, sul resto della nomenclatura rossa, a cominciare da Paolo Gentiloni, che qualcuno vorrebbe riciclare come segretario del partito al posto di Schlein, per finire a Enrico Letta, che l’Ingegnere liquida dicendo che pur essendo una brava persona «si è fatto macerare nel rancore». E poi via con ciò che si agita a sinistra, da Bersani a Rosy Bindi, senza tralasciare Matteo Renzi, per dire che tutti sembrano delle palline da ping-pong impazzite, una maionese sfuggita di mano. Avendo più o meno scritto le stesse cose in epoche passate, mi è difficile dunque non condividere questi giudizi. Resta da parte mia una sola domanda. Perché, a distanza di anni, De Benedetti demolisce gran parte di coloro che sono stati suoi compagni di viaggio? Chi andava la mattina a far colazione a Palazzo Chigi, ricevendo dal premier dell’epoca le anticipazioni sulla riforma delle banche popolari? Chi ha sponsorizzato Elly Schlein? Non era forse proprio l’Ingegnere? E perché da tutti questi bei personaggi, di cui lui è stato amico e compagno di giochi, solo adesso prende le distanze? Forse perché i giochi - e soprattutto gli affari - sono finiti? Dopo aver strizzato l’occhio per una vita alla sinistra, De Benedetti si accorge alla soglia dei novant’anni che la sinistra è morta? Per lungo tempo lui ha fatto ciò che ora rimprovera agli Agnelli: ha acquistato Repubblica e ha usato quel quotidiano per coprirsi le spalle mentre distruggeva tutto ciò che comprava. Ha fatto bene ieri Marina Berlusconi a ricordargli che il padre ai figli ha lasciato un impero. Mentre l’Ingegnere che cosa lascia? Un pentimento tardivo su tutto e tutti. In pratica, un’altra sentenza di fallimento.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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