2018-04-03
Con i dazi il Dragone tende la mano agli Usa
La Cina ha risposto ai dazi posti al suo export dagli Stati Uniti in modo simmetrico, ma più morbido, così segnalando l'intenzione di negoziare con l'amministrazione Trump per contenere un'escalation della guerra commerciale. La strategia di Pechino, infatti, è evitare limitazioni eccessive al suo export fino a che non sarà in grado di incrementare quello in altri mercati diversi dall'America oltre che ridurre la dipendenza dall'export stesso aumentando la crescita trainata dal mercato interno. Ma tale trasformazione del modello economico è sia lunga, per gap di modernità della Cina dove gran parte della nazione resta povera e arretrata, sia incompatibile con il regime di capitalismo autoritario perché implicherebbe liberalizzazioni che il Partito comunista non vorrà concedere, in particolare dopo la svolta data da Xi Jinping.Pertanto la strategia punterà a creare un'area di influenza cinese sufficientemente grande da permetterle di continuare ad aumentare l'export senza limitazioni. In realtà tale strategia è in atto da tempo perché gli Stati Uniti, dopo il tentativo di Bill Clinton (1996) di arrivare ad una cogestione G2 del pianeta con la Cina offrendo carote, già durante l'amministrazione Bush (2001 - 2008), pur questa distratta dalle priorità belliche in Iraq e Afghanistan, ripresero il bastone, anche su pressione del Giappone, per limitare l'espansionismo cinese. Per esempio, George W. Bush concesse all'India di riprendere i test nucleari militari per rafforzarne il ruolo di bastione anticinese nella regione. Ma Bush ebbe anche bisogno della Cina per le priorità dette sopra e non forzò il bastone. Per questo nel 2007 Pechino, che comunque aveva capito che l'America si era messa in postura di contenimento, convocò un gran numero di dittatori africani per offrire loro soldi e armi in cambio, oltre che del voto all'Onu, di apertura alla penetrazione cinese. Tale azione ha predisposto la conquista cinese dell'Africa, giunta a un primo compimento la scorsa settimana come formazione di un'area di libero scambio, con Pechino sponsor sottostante, tra 40 nazioni africane, eccetto Sudafrica e Nigeria. Nel 2013 la burocrazia imperiale dell'amministrazione Obama, dopo averne cambiato la linea politica tenuta nel primo mandato, decise di combinare gli obiettivi di contenimento della Cina con quelli di reciprocità commerciale, passando da una strategia di contenimento a una di condizionamento: creare due aree economiche amerocentriche, nel Pacifico (Ttp) e nell'Atlantico (Ttip), con standard comuni che escludessero la Cina (e la Russia) per costringerla a rinegoziare il suo accesso al mercato globale. Pechino rispose asimmetricamente cercando di sabotare questi trattati, ma anche simmetricamente lanciando una propria area di influenza economica con l'intento di renderla più grande di quella americana (Via della seta). Nel 2017 l'amministrazione Trump si è trovata in un momento di confusione -difficoltà di conciliare obiettivi di riequilibrio commerciale con quelli geopolitici - che ha favorito la strategia cinese. Nel 2018 sta correndo ai ripari riattivando la strategia di Barack Obama, pur in modi più duri: attacco diretto alla Cina e modo ricattatorio - via minaccia di dazi - per costringere gli alleati a convergere. Ma si sta ammorbidendo: la scorsa settimana ha proposto all'Ue di riaprire i negoziati Ttip. Trump ha bisogno degli europei per contendere l'Africa e l'America latina ai cinesi nonché evitare che formino con Russia e Cina un blocco euroasiatico. L'Ue dovrebbe cogliere l'opportunità e accettare l'invito statunitense alla riconvergenza, includendo in un nuovo trattato economico a tre anche Londra, perché la ricompattazione atlantica manterrebbe la superiorità dell'Occidente e del capitalismo democratico nel globo contro l'Oriente e il capitalismo autoritario. Ma la Germania tentenna perché teme di perdere il mercato cinese ed è ricattabile dalla Russia. La Francia di meno perché si è resa conto che senza l'America perderebbe l'Africa francofona, ma ha paura che un accordo economico con l'America confligga con il suo protezionismo interno. Quindi la posizione dell'Italia, tanto sensibile all'export quanto lo è la Germania, dovrebbe essere di spinta verso l'accordo euroamericano di libero scambio, ma in modi evolutivi - che implicano una modifica delle procedure Ue in materia - a partire dai settori socialmente meno impattanti, lasciando una finestra di inclusione condizionata per la Russia e chiedendo all'America collaborazione per trattati economici dell'Ue con nazioni asiatiche e del Pacifico per bilanciare il «costo opportunità» del contenimento della Cina. In generale, l'Italia dovrebbe sostenere la strategia di creazione di un mercato globale delle democrazie (Free community guidata da un G7 allargato) a partire da un nucleo euroamericano, che diventerebbe più grande dell'area d'influenza cinese e sarebbe conveniente per tutti i partecipanti, per l'Italia più di tutti.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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