2025-06-04
Firmato l’ordine: oggi i dazi sull’acciaio schizzano al 50%
La Casa Bianca tira dritto. Venerdì possibile la telefonata fra Xi Jinping e Donald Trump. Bruxelles: «La trattativa accelera».Strumentalizzati i costi delle polizze anti default per evocare il rischio bancarotta negli Usa.Lo speciale contiene due articoliSembrerebbe registrarsi qualche spiraglio di disgelo commerciale tra Washington e Bruxelles. Il portavoce della Commissione europea, Olof Gill, ha reso noto che le due parti hanno «concordato di accelerare i negoziati» a seguito della recente telefonata tra Donald Trump e Ursula von der Leyen. «Il primo giorno di colloqui tecnici a Washington è stato molto costruttivo e domani il commissario Sefcovic incontrerà il rappresentante statunitense Jamieson Greer», ha proseguito. Dall’altra parte, Gill ha anche affermato, lunedì, che Bruxelles «si rammarica» per la decisione dell’amministrazione americana di alzare i dazi all’import di acciaio dal 25% al 50%: un incremento che scatterà oggi, visto che ieri Trump ha firmato l’ordine esecutivo per farli entrare in vigore. «L’aumento dei dazi indebolisce anche gli sforzi in corso per raggiungere una soluzione negoziata», ha dichiarato Gill, per poi aggiungere: «Se non si raggiungerà una soluzione reciprocamente accettabile, sia le misure Ue esistenti sia quelle aggiuntive entreranno automaticamente in vigore il 14 luglio o prima, se le circostanze lo richiederanno». Ieri, le azioni delle aziende siderurgiche europee erano scese, mentre lunedì erano salite quelle delle società Usa.Resta frattanto alta la tensione tra Washington e Pechino. L’altro ieri, il ministero del Commercio cinese ha accusato l’amministrazione americana di aver violato l’accordo commerciale provvisorio, raggiunto il 12 maggio a Ginevra. In particolare, la Repubblica popolare ha lamentato le restrizioni degli Stati Uniti all’export di materiale tecnologico. Venerdì scorso, era stato Trump a tacciare Pechino di non aver ottemperato all’accordo svizzero: la sua amministrazione aveva infatti sostenuto che la Cina non ha riavviato le esportazioni dei minerali strategici. In questo quadro, ieri il segretario al Tesoro, Scott Bessent, ha esortato Pechino a essere un «partner affidabile», mentre il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, durante un incontro con l’ambasciatore statunitense in Cina David Perdue, ha chiesto che Washington crei le condizioni necessarie affinché le relazioni sino-americane «tornino nella giusta direzione». Fonti della Casa Bianca hanno fatto sapere che Trump dovrebbe avere una telefonata con Xi Jinping venerdì. Il Dragone ha di che essere preoccupato: a causa dei dazi, l’attività manifatturiera cinese, a maggio, si è contratta al ritmo più rapido da settembre 2022.Gli Stati Uniti stanno nel frattempo cercando di raggiungere un accordo commerciale con l’India: una mossa finalizzata a colpire indirettamente Pechino. «Credo che l’India stia cercando con tutte le sue forze di essere uno dei primi Paesi a raggiungere un accordo commerciale con gli Stati Uniti», ha affermato lunedì il segretario al Commercio, Howard Lutnick. «Ma ciò che spero di ottenere è l’accesso al mercato. Vorremmo che le nostre aziende avessero un accesso ragionevole ai mercati indiani. Vogliamo ridurre il deficit commerciale», ha aggiunto. Lutnick ha anche detto di attendersi che l’India riduca l’acquisto di armamenti da Mosca per aumentare quello da Washington. Agli occhi della Casa Bianca, la sponda con Nuova Delhi rappresenta un fattore fondamentale per contenere la Cina sia da un punto di vista commerciale che di sicurezza nell’Indo-pacifico.Tornando alle tensioni tariffarie più in generale, l’Ocse ha valutato negativamente l’impatto dei dazi, sostenendo che la crescita globale sarà inferiore alle aspettative. «Si prevede che la crescita del Pil globale rallenterà dal 3,3% nel 2024 al 2,9% quest’anno e nel 2026», mentre precedentemente era prevista una crescita del 3,1% quest’anno e del 3% nel 2026. A essere riviste al ribasso sono state anche le previsioni di crescita degli Stati Uniti (passate, per il 2025, dal 2,2% all’1,6%). Dal canto suo, Trump, su Truth, ha ribadito la convinzione che, grazie alle tariffe, si registrerà un boom economico per l’America. Non solo. Il presidente si sta anche preparando alla battaglia legale sui dazi: un tribunale federale aveva bloccato quelli imposti sulla base dell’International emergency economic powers act ma una Corte d’appello ha provvisoriamente sospeso questo stop in attesa che il contenzioso vada avanti. «Se ad altri Paesi è consentito usare tariffe contro di noi e a noi non è consentito contrastarli rapidamente e agilmente, il nostro Paese non ha nemmeno una piccola possibilità di sopravvivenza economica», ha dichiarato Trump. Per il presidente americano, gli squilibri commerciali rappresentano un problema di sicurezza nazionale e i dazi vengono concepiti come uno strumento volto sia a rafforzare le catene di approvvigionamento che ad affrontare le problematiche connesse al debito pubblico. Senza dimenticare che il contenzioso legale in essere non riguarda le tariffe sull’acciaio né quelle sulle automobili. La portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ieri ha detto: «Abbiamo inviato una lettera a tutti i nostri partner per ricordare loro, in modo amichevole, che le scadenze sui dazi stanno arrivando», precisando di «non poter commentare» il contenuto del messaggio.Frattanto buone notizie sono arrivate, ieri, dal Bureau of labor statistics: ad aprile, il numero di posizioni di lavoro aperte negli Stati Uniti è aumentato più del previsto (è arrivato infatti a quasi 7,4 milioni contro i 7,1 milioni attesi). ). Si registrano intanto forti tensioni tra Trump ed Elon Musk, che ieri ha bollato il disegno di legge fiscale sostenuto dal presidente come un «abominio disgustoso».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dazi-acciaio-50-per-cento-2672307063.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sparata-del-sole-contro-trump-bond-usa-come-quelli-greci" data-post-id="2672307063" data-published-at="1749033424" data-use-pagination="False"> Sparata del «Sole» contro Trump: «Bond Usa come quelli greci» Corriamo subito in soccorso delle coronarie dei risparmiatori che ieri hanno letto sulla prima pagina del Sole 24 Ore il titolo «Rischio crack, bond Usa come quelli greci». Non c’è alcun rischio. Paragonare i bond Usa a quelli greci equivale al confronto tra un calabrone e un moscerino. In comune hanno solo le ali, ma le regole di volo sono completamente diverse. «Non è un allarme, ma un segnale», è stata l’affrettata precisazione alla fine dell’articolo. Tuttavia non è nemmeno un segnale, ammesso e non concesso che, dopo un titolo del genere, sia possibile non parlare di allarme. Infatti per dimostrare la tesi del rischio crescente sui titoli pubblici Usa ci si basa sull’andamento del costo della polizza anti default, il cosiddetto Cds. Esso riflette il costo per assicurarsi contro un eventuale default del governo statunitense e un suo aumento indica una percezione di rischio maggiore da parte del mercato. Il fatto che il Cds per il debito Usa sia su livelli vicini a quello di Grecia e Italia non ha alcun significato per tre essenziali e decisivi motivi: il mercato dei Cds sul debito Usa è meno liquido rispetto a quello di altri emittenti, il che rende quei prezzi poco significativi. Insomma si tratta di un mercato poco frequentato e, di conseguenza, i prezzi sono scarsamente segnaletici. Inoltre, gli Usa hanno una posizione unica grazie al dollaro come valuta di riserva globale. Ci perdoneranno i puristi, ma è come se fallisse il banco del casinò, che fornisce le fiches. Infine, il rischio è legato a una forma di default tecnico legato al tetto al debito (debt ceiling) che non c’entra nulla con il default propriamente detto, cioè il mancato pagamento alla scadenza di interessi o capitale di un titolo. Ed è esattamente questo il contesto all’interno del quale si inquadrano le parole di Scott Bessent, segretario al Tesoro Usa, pronunciate alla Cbs e che hanno ispirato il titolo in prima pagina del Financial Times di lunedì («Gli Usa non saranno mai insolventi sul loro debito») che equivale a dire che il sole sorge a Est e tramonta a Ovest. «Siamo in una situazione di allerta, ma non andremo a sbattere» ha aggiunto, sempre riferendosi all’ostacolo del tetto al debito. Ogni anno in questi mesi (nel 2023, anche con l’amministrazione Biden ci fu una crisi molto seria, risoltasi sul filo di lana) c’è una disputa tra il Congresso e il governo federale sull’ammontare totale del debito che il governo federale può emettere. Se il tetto non viene alzato o sospeso e il Tesoro esaurisce i fondi, il governo non può onorare tutti i suoi impegni finanziari (peraltro già approvati dal Congresso), portando a un potenziale default sui pagamenti del debito o su altre spese. Non è mai accaduto nulla di tutto ciò, perché alla ventiquattresima ora il Congresso regolarmente, dopo qualche giorno di rissa politica, sistema tutto. Quello che non viene detto è che il tema del bilancio Usa e del previsto conseguente aumento del debito di circa 3.000 miliardi in dieci anni, su uno stock preesistente di circa 36.000 miliardi, è già stato archiviato dagli investitori. È tutto già nei prezzi attuali di bond e dollaro, come si usa dire. Il decennale Usa stenta a rientrare sotto il 4% e il dollaro si è leggermente svalutato rispetto a una situazione di estrema forza. Finita là. Perché si tratta di poca cosa al cospetto dell’aumento da 27.800 a 36.200 miliardi sotto l’amministrazione Biden, ben 8.400 miliardi in più in quattro anni. A chi afferma che il «debito americano è percepito come qualcosa che scotta sempre più», rispondiamo che non c’è nulla che scotta. È il termometro che è rotto o sbagliato.