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La fashion week di Milano riabilita il cibo. Anzi lo rende trendy

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  • Elisabetta Franchi: «Da bambina avevo una sola bambola. Adesso la mia azienda si quota in Borsa». La stilista, protagonista di un docufilm, ha presentato la nuova collezione: «Mi amano perché mi mostro come sono».
  • Durante le sfilate milanesi alcuni brand hanno organizzato eventi ad hoc in tema food. Dolce & Gabbana ha festeggiato il Natale in anticipo con Fiasconaro, Stecco Lecco ha firmato i ghiaccioli per Fendi aprendo un popup store in Stazione Centrale, Versace ha creato tre nuovi gusti di gelato.
  • Equilibrio, femminilità, bellezza e confort: sono queste le parole chiave per la collezione donna della prossima estate di Bottega Veneta.

Lo speciale comprende due articoli e gallery fotografiche.


«Ha visto il mio docufilm su Real Time?». Inizia così l'intervista a Elisabetta Franchi, uno dei personaggi più simpatici del pianeta moda, stilista da 1,8 milioni di followers su Instagram. Lei, senza alcun tipo di problema, si fa vedere al mattino appena in piedi con qualche imperfezione, così come si sveglia. E pare essere questo il segreto con cui ha conquistato i tanti affezionati che la seguono nella sua quotidianità. «Non sono nata stilista», racconta, «Si nasce sotto una stella e poi si finisce sotto un'altra. Nessuno mi ha assegnato un destino, i miei genitori non erano imprenditori, non lavoravano nel commercio né nella moda. Vengo da una famiglia di estrazione molto umile, si sbarcava faticosamente il lunario, una famiglia meno che normale. Ma fin da piccola ho sempre avuto la passione di vestire l'unica bambola che avevo che non era una Barbie, che siamo tutte stiliste con la Barbie. Avevo una bambola, una e basta».

Una bambola che ha un ruolo importante anche oggi. «Betty la porto con me quando vado a parlare all'università o quando ho incontri di un certo tipo perché tutto è nato da lei. L'ho ricreata bella perché, in effetti, la Betty originale era bruttina. Tagliavo in casa quel che capitava, il cordone dell'arrosto, un pezzo di tenda, lo strofinaccio nel cassetto e da lì, alla mia maniera, la vestivo. Una passione andata avanti, tanto che mi iscrissi a una scuola a Bologna dove insegnavano stilismo, figurismo e modellismo».

La strada era imboccata.

«Già in quel periodo cercavo di assemblare più cose che stessero bene su di me, c'erano pochi soldi ma ero molto attenta ai particolari, riuscire ad accostare i capi con semplicità, essere fini è un dono di pochi. Alle medie, con i miei abiti usati, riuscivo sempre a vestirmi bene. Ma in casa mancavano i soldi e dopo sei mesi, con grande dispiacere, dovetti rinunciare alla scuola, l'esigenza di un lavoro era più forte della mia vocazione. Arrivai a fare i mercati, sveglia alle 4, vendevo intimo. Lì c'è stato un primo approccio commerciale, 16 anni, vendevo alle donne e iniziavo a capire cosa volevano. La vena commerciale che non mi ha più lasciato».

Un salto non da poco, dal mercato a un'azienda.

«La vocazione della bambina che vestiva la bambola c'era sempre, ma allora non avevo modo di svilupparla. Dopo il mercato ho fatto la commessa per poi passare a una grande azienda di fast fashion dove iniziai a dire la mia. Prima sottotono, poi i miei consigli piano piano si trasformarono in capi che stravendevano. Lì nasce un grande amore con un uomo che lavorava con me. Era molto più grande e mi ha dato quella forza - non avevo avuto un padre - che mi è servita per aprire il mio primo atelier. Mi ha offerto i pochi soldi che aveva e nel 1998 ho fondato Betty blue spa partendo con tre persone amiche e con i miei primi disegni, fino a diventare quello che sono oggi. Sto ancora correndo».

Lei è tra le poche stilste imprenditrici.

«È vero, l'azienda me la sono fatta da me. Sono partita dal commerciale e, da sempre, controllo tutto, dalla parte organizzativa allo stile, non passa un bottone se non lo vedo e non lo approvo. Per questo c'è un Dna così forte. Non ci sono menti che si mischiano alla mia, sono io e basta. Anche se ci sono persone delle quali mi fido ciecamente. Ho un solo segreto: fatica, dedizione, sudore e non lasciarsi ingannare dal luccichio della moda perché dietro c'è tanto lavoro 24 ore su 24, sembra un mondo superficiale e invece è faticosissimo».

I numeri?

«Fatturato 2018 117 milioni, 310 dipendenti, 84 negozi nel mondo e 1.100 multimarca. Il 55% fatturato in Italia, il resto in Europa, molto Medio Oriente e Russia. Quartier generale a Bologna e distretto importante Milano».

E ora la quotazione in Borsa.

«Ho sempre creduto in strumenti innovativi di comunicazione diretta che mi hanno permesso di avvicinarmi alle persone. Oggi il brand Elisabetta Franchi merita di andare lontano e di guardare al futuro con un'ottica di espansione sempre più internazionale. La nostra business combination con Spactiv è come un abito perfetto, cucito addosso. Nel 2013 avevo fatto entrare un fondo di minoranza per avere una visione diversa, da imprenditore rischi di raccontartela sempre da solo. Volevo aprirmi per avere un valore aggiunto. Siamo stati insieme tre anni e poi mi sono ricomprata la mia quota ritornando ad avere il 100% . Lì ho iniziato a pensare a cosa poteva essere meglio per la mia azienda. Ci sono i numeri per fare questo passo, una grande opportunità coerente con il messaggio che ho sempre trasmesso, che non è solo abiti ma anche valori e stile di vita».

Quali sono i suoi segreti fuori dall'azienda?

«Mi descrivo come il Vasco Rossi della moda perché mi ferma la gente per strada: ragazzine, mamme, nonne, sono trasversale. In me vedono una donna che non se la tira. Sono l'anticomunicazione dell'imprenditore irraggiungibile, con la puzza sotto il naso. Ballo perché mi piace ballare, ridere e scherzare e mi mostro così. Per questo tanti mi seguono. Ho rotto un sistema che diceva che l'imprenditore non deve far vedere certe cose. Se non hai la faccia e non hai la forza non puoi farlo».

Essere Elisabetta è il docufilm dove apre il suo cuore.

«Non amo lodarmi ma sono contenta della critica che non mi ha attaccata. C'è chi spera ci sia una seconda puntata. A novembre, su Rete 4, arriverà Pensa in grande, un format dove vengono raccontate sei eccellenze italiane e una sono io. E anche quello dicono sia venuto un capolavoro. A dicembre il libro Cenerentola ti ho fottuto, editore Mondadori. Da non perdere».

Paola Bulbarelli

Dai panettoni fuori stagione di Dolce & Gabbana ai gelati di Fendi e Versace: la moda si fa mangereccia

«E così qui le ragazze non mangiano niente?» «Non più, da quando la trentotto è diventata la nuova quaranta e la trentasei è diventata la nuova trentotto». Tredici anni fa, il Diavolo veste Prada si prendeva gioco dell'universo moda dove non sono solo le modelle a essere ossessionate dalla magrezza, ma anche chi vi lavora dietro le quinte. Negli ultimi anni appare però evidente come i maggiori marchi del lusso abbiano trovato nel mercato del food un alleato. Miuccia Prada ha acquisito la pasticceria Marchesi, dandole un nuovo volto. Il gruppo LVMH ha invece rilevato Cova, storico locale nel centro di Milano. Dolce&Gabbana hanno dato vita al Martini bistrot, dove poter assaporare le migliori ricette siciliane e milanesi, e Luisa Beccaria ha invece aperto il LùBar. Sembra nessuno sia immune dal fascino del buon cibo e c'è anche chi sostiene che il connubio tra food e moda non sia recente come si pensa. San Pellegrino - in occasione della sua campagna intitolata «Itinerari di gusto» - aveva sottolineato come «l'universo naturale e stilistico del cibo con i suoi elementi di design, la precisione manuale e la gamma di colori» sia un'intramontabile fonte d'ispirazione per il design di moda. Esempio principe di questa teoria è la stilista Elsa Schiaparelli che nella sua collezione per l'estate del 1937 aveva presentato un «abito aragosta» dipinto da Salvador Dalì.

È così che durante la settimana della moda, Milano apre le porte non solo ai vestiti ma anche al gusto, con una serie di eventi creati ad hoc per esplorare il mondo del buon cibo tra una sfilata e l'altra. Fino al 14 ottobre, in Stazione Centrale è possibile visitare un inedito pop up, nato dalla collaborazione tra Fendi e il brand Steccolecco. Il piccolo negozio, caratterizzato dal tipico giallo senape e il motivo a righe Pequin, offre una serie di ghiaccioli e gelati su stecco con il logo Fendi, in tante declinazioni di gusto e colore.

E se Fendi punta tutto sui sapori classici, Versace crea tre nuovi gusti, tutti giocati su nuance del giallo. Gusto 17, che ha una delle sue tre sedi milanesi all'interno delle Gallerie D'Italia in Piazza della Scala, ha così dato vita alla «crema allo zafferano» arricchita dalle note dolci del Saba di Mosto Cotto romagnolo; la «mousse di ricotta stregata» a base di ricotta di Bufala campana, curcuma e pois di cioccolato bianco; eia «fico d'india siciliano» con popi di noci peccar ricoperti di cioccolato fondente extra dark. Il tutto con un topino d'oro, per rendere il gelato un cibo «deluxe». Se i tre gusti non vi bastano, all'ultimo piano della Rinascente sarà possibile assaporare lo stecco «big&gold» con un cuore di stracciatella, copertura di cioccolato bianco alla curcuma e topping color oro.

Dopo la sfilata di ieri nel cortile del Conservatorio, Etro continua il rilancio del brand. Alla presentazione del nuovo e-commerce e del progetto #EtroByYourName - nato per celebrare i capisaldi dello stile della maison - è seguito l'annuncio del restyling dello storico ristorante milanese Bice. Per otto giorni, il locale di via Borgospesso sarà infatti decorato con tessuti di arredamento e complementi d'arredo della linea Etro Home. Nel corso della settimana si alterneranno tovaglie in due storiche stampe: la celebre Jais del 1981 che riproduce su cotone il motivo paisley decorato da rose e il patchwork in lino multicolore parte della collezione Etro dal 1993. Vasi in vetro e argento, centrotavola d'archivio e quadri dell'Ottocento della collezione privata della famiglia Etro completano l' arredamento. «La famiglia Etro è da sempre amica fedele del nostro ristorante: le nostre storie sono cresciute insieme, accomunate dalla stessa concretezza». Così i proprietari di Bice hanno commentato questa collaborazione fuori dagli schemi.

Lo stilista Alessandro Enriquez «abbiglia» le tre pizzerie Lievità con tovagliette decorate da immagini grintose e technicolor e frasi irriverenti e ironiche che mirano a raccontare «l'amore ai tempi della moda», tra una fetta di margherita e l'altra.

Infine, Dolce & Gabbana ha portato il Natale nel suo negozio in Corso Venezia presentando le golose novità per il prossimo dicembre. La loro collaborazione con Fiasconaro continua con un nuovo panettone reinterpretati secondo la migliore tradizione. Un impasto a lievitazione naturale, arricchito da castagne glassate e gianduia e ricoperto di crema alle castagne e glassa al cioccolato. Quest'ultima ricetta si affianca al panettone al pistacchio di Sicilia e al panettone agli agrumi e allo zafferano presentati lo scorso anno.

Mariella Baroli


Fs aumenta gli investimenti e la puntualità
Stefano Donnarumma, ad di Fs
L’ad Stefano Donnarumma presenta le nuove strategie: pronti 18 miliardi per il 2025 e progetti per 177 miliardi fino al 2034. La flotta verrà rinnovata e si punterà su digitalizzazione della rete e apertura ai privati. Matteo Salvini rilancia i cantieri e il Ponte di Messina.

Investimenti per 18 miliardi nel 2025, 7 di questi solo per il Pnrr. Cifre senza precedenti per il gruppo Fs come spiegato dall’amministratore delegato Stefano Donnarumma ieri in occasione della presentazione del Piano strategico 2025-2029. «Questi risultati rappresentano le fondamenta della traiettoria di lungo periodo delineata nell’aggiornamento del Piano strategico, che prevede ulteriori investimenti per 177 miliardi di euro nel periodo 2026-2034. Il prossimo anno puntiamo a superare il target dei 18 miliardi», mentre per quanto riguarda gli obiettivi al 2029, nonostante una perdita iniziale pari a 200 milioni di euro nel 2024, restano gli stessi: «20 miliardi di euro di ricavi, 3,5 miliardi di euro di Ebitda e un risultato netto pari a 500 milioni di euro, coerenti con la traiettoria di crescita prevista per i prossimi anni», ha commentato presentandosi sul palco vestito da ferroviere per «trasmettere l’orgoglio e l’emozione di essere ferrovieri e italiani».

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Lista d’attesa lunga per avere le cure: chiede l’eutanasia. E il Canada gliela dà
Iniezione letale (iStock)
Donna affetta da una patologia rara, ma non grave, si deprime per le tempistiche dell’operazione e ottiene l’ok al fine vita.

Una donna affetta da una malattia rara, ma tutt’altro che in fin di vita bensì semplicemente stanca di aspettare l’intervento chirurgico di cui avrebbe bisogno, arriva a chiedere - e ottiene - la morte assistita. Sembra assurdo che un caso simile possa esistere e, probabilmente, lo è. Peccato sia una storia vera: quella che vede suo malgrado protagonista Jolene Van Alstine, 37 anni, residente nella provincia canadese del Saskatchewan. La donna soffre da otto anni di iperparatiroidismo primario normocalcemico, una malattia paratiroidea molto rara ma curabile. Il punto è che nel Saskatchewan pare non ci siano chirurghi in grado di eseguire l’operazione di cui ha bisogno. Per questo, la trentasettenne deve essere indirizzata fuori provincia, ma non può ottenere un’indicazione senza prima essere visitata da un endocrinologo e - di quelli della sua zona, alcune decine - nessuno accetta nuovi pazienti.

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Marco Scatarzi e Lorenzo Cafarchio raccontano boicottaggi, accuse grottesche e tentativi di censura tra fiere del libro e festival. Perché il pluralismo diventa un problema solo quando non è di sinistra?

La strage silente delle miocarditi da vaccini
Vaccini (iStock)
È provato che il farmaco usato per il Covid, specie nei soggetti giovani, possa causare microlesioni rilevabili solo con esami mirati. Spesso la sintomatologia è nulla: arriva solo un’aritmia improvvisa e fatale. Eppure la «scienza» dà dei cialtroni alle tante vittime.

Il malore improvviso ha un nome. La mio/pericardite associata ai vaccini a mRna contro Sars-CoV-2, è un fenomeno epidemiologicamente ben documentato, in particolare nei maschi tra 12 e 29 anni. Studi pubblicati su The Lancet, Nature, Jama hanno confermato infatti un aumento dell’incidenza rispetto ai tassi di background pre-Covid, soprattutto nella settimana successiva alla seconda dose.

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