2019-03-02
Cucina ebraica, la Bibbia imparata nel piatto
Regole ben precise indicano ciò che è «kosher», cioè permesso. Vietati equini, maiali, lepri e conigli. Esaltata l'oca, che divenne anche oggetto di posta nelle partite d'azzardo nel ghetto. Il pane azzimo simboleggia la Pasqua, ricordando l'esodo dall'Egitto.Forse nessuna cucina come quella ebraica è così poco conosciuta, nei suoi fondamentali, quanto è presente nella tradizione delle nostre tavole, con declinazioni diverse frutto di contaminazioni e osmosi. Vi è un carattere unificante che risiede nelle regole alimentari del Kosherut, il quale indica tutto ciò che è lecito, kosher, o non permesso, taref. Regole non del tutto semplici da applicare nella realtà quotidiana, ma che «rinviano a un atto del cibarsi inteso come un momento della quotidianità che aiuta a percorrere la via della perfezione». Lo stesso Marcel Proust, la cui mamma era ebrea, riconosceva come, nella cucina ebraica, palato, olfatto e conoscenza erano intrecciati in un processo di sinestesia. Non solo, ma «le mamme insegnavano l'alfabeto ebraico ai propri figli disegnando le lettere con il miele, in maniera tale da associare studio e dolcezza».Una realtà affascinante che ci porterà a scoprire piatti dimenticati; piatti che hanno resistito allo scorrere dei secoli; piatti modificati dalla tradizione locale secondo quanto rabbino comanda e viceversa. È l'utilizzo della carne uno dei capisaldi del kosherut. Devono essere animali non carnivori, ruminanti e dallo zoccolo bifido. Quindi esclusa la carne equina, che ruminante non è, e quella suina perché il maiale, pur dallo zoccolo bifido, è carnivoro. Fuori dal menù anche lepri e conigli. Ampia tolleranza verso i pennuti. Passando al pescato, superano l'esame creature armate di pinne e dalle squame facilmente rimovibili. Dispense aperte quindi per aringhe, sardine, tonno. Paletta scomunicante per crostacei, molluschi, frutti di mare. Sui formaggi la questione era complessa in quanto, come documentato da Leon Da Modena, la sorveglianza di personale ebreo avrebbe dovuto riguardare tutta la produzione, a partire dall'uso del caglio vegetale, anche se poi, molte volte, essendo guardiani donne e bambini, i casari dell'epoca osservavano le regole con molta elasticità. Ai commercianti ebrei era sconsigliato vendere alcuni prodotti ai cristiani che, nelle grandi città, spesso entravano nel ghetto per intriganti peccati di gola. «Mangiare alla giudia» era un po' come farsi ebreo nel piacere di un momento, come ha ricordato Ariel Toaff. L'oca era regina delle tavole, ma anche motivo di contrasto tra le diverse religioni. La sua presenza a Nord della dorsale appenninica, dal Piemonte fino alle Marche, viene fatta risalire agli ebrei askenaziti, provenienti dalle terre germaniche. Nei territori austroungarici era prassi donare oche grasse alla famiglia imperiale, ma un cronista triestino, Nicolas Lernery, faceva risalire le presupposte asperità caratteriali ebraiche proprio all'ingordigia verso queste carni, responsabili delle tonalità più scure di certi volti e anche l'«odore da ebreo» veniva fatto risalire all'oca tentatrice. Negli anni dell'inquisizione se un cattolico si dimostrava troppo goloso di carne d'oca veniva sospettato di apostasia. In Piemonte, in molti paesi, si teneva il palio dell'oca, detto anche palio dell'ebreo, dove le oche grasse divenivano oggetto di cruente pratiche equestri, che terminavano con la loro crudele decapitazione. Verso metà Ottocento, nel ghetto veneziano, si tenne un censimento dei pennuti, arrivando a contarne 1.580, quasi quanto gli abitanti veri. A Reggio Emilia gli «ocaroli del ghetto» rappresentavano un problema di igiene pubblica, Gli allevamenti erano limitati alle cantine o alle soffitte, non essendoci spazi verdi a sufficienza e periodicamente, quindi, il letame veniva scaricato sulla pubblica via. Una realtà double face, comunque, posto che la lavorazione del fegato grasso attirava una vasta clientela cristiana, spuntando prezzi elevati. L'oca veniva impiattata nelle occasioni ufficiali che vedevano ospiti nobili ed ecclesiastici. Oca aristocratica, posto che si era conquistata l'immagine sul labaro dei nobili Gonzaga, una famiglia trasferitasi da Mantova a Roma. Come del maiale, anche dell'oca non si buttava via niente, e le sue piume si potevano ben trasformare in caldi piumini come ben scoprirono le massaie del tempo. Con il suo grasso si ungeva il petto dei bimbi febbricitanti per i malanni invernali ed era talmente apprezzato da diventare oggetto di posta nelle partite d'azzardo nel ghetto. Il culto dell'oca riguardava anche il norcino, tanto che, i migliori, venivano premiati con il cuore dell'animale, dal forte valore simbolico. Se l'oca è la presenza forte in molti piatti del versante Nord appenninico, a maggioranza askenazita, tolta Roma che è sempre stata un melting pot di contaminazioni diverse, sul versante tirrenico vi era l'influenza sefardita, ovvero l'area mediterranea dalle coste africane alla penisola iberica. La presenza dei dolci, delle preparazioni di pesce e del fritto ha segnato preparazioni importanti, con un'ulteriore variante legata all'utilizzo di materie prime povere, sia per la carne che per il pesce, soprattutto in seguito alle pressioni della chiesa, con papa Paolo IV che, nel 1555, istituì il ghetto romano. Ma, al di là delle varianti geografiche, il calendario ebraico aveva delle prescrizioni comuni. Ecco allora il pane azzimo, realizzato solo con farina e acqua. Simbolo della Pasqua ebraica, ricordo dell'esodo dall'Egitto, visto come il pane dei fuggitivi, proprio perché preparato in fretta. In teoria non lo si poteva vendere ai cristiani, ma leggenda racconta che proprio i cardinali ne fossero ghiotti per inzupparlo poi nel latte zuccherato o nel cioccolato. Azzime protagoniste degli scacchi, ritagli bagnati nel brodo di cappone, rosolati nel grasso d'oca e passati al forno alternati a strati di verdure cotte e ritagli di galline mentre a Venezia la farina d'azzime si abbinava a una frittata di spinaci e cipolle. Rito e tradizione anche per il pranzo di Capodanno, nel calendario ebraico a metà settembre. Tra le pietanze era buona tradizione inserire una testa di montone (ma andava bene anche di agnello o di pesce) intonando una formula di buon augurio «che si possa funger da testa e non da coda alle nazioni». Un' espressione che assumeva valenze di compensazione, considerato lo stato degli ebrei rinchiusi nei ghetti. Divertente l'aneddoto delle carote. Tagliate a fette sottili, cotte nel grasso d'oca e miele e poi coperte da zucchero e cannella. Assumevano l'aspetto dal colore dorato e brunito delle monete e, consumate all'entrata del nuovo anno, erano simbolo di augurio e prosperità negli affari. Non poteva mancare il carnevale, Purim, in cui tutto (o molto) era permesso. Simbolo di quelle giornate le orecchie di Aman, strisce di pasta sfoglia a forma triangolare, fritte nell'olio d'oliva e spolverate di zucchero, con infinite varianti locali, ma chiaro sberleffo al perfido ministro persiano che tramò per sterminarli a suo tempo. Infine lo shabbat, il sabato giorno del riposo, in cui era proibito lavorare. Ecco allora svilupparsi la tecnica delle cotture a fuoco lento, degli stracotti, con un piatto dal forte valore simbolico: la ruota del faraone (o frinzisal). Rimanda alla fuga dall'Egitto con l'apertura delle acque del Mar Rosso che poi si richiusero ad inghiottire gli Egizi. La preparazione ricorda la forma di una ruota, quella dei carri della fuga. Le tagliatelle increspate dai vari sughi le acque del Mar Rosso. I pezzi di fegato grasso e lo zibibbo, le teste degli egiziani mentre affogavano. Una storia, quella della cucina ebraica, arricchita da mille altre storie, in un viaggio che ci porterà a scoprirne le varietà lungo la penisola.