2021-07-13
Persino i cubani si sono rotti dei comunisti
L'isola è percorsa dalle manifestazioni contro il regime post castrista. Migliaia di persone in strada, piegate dalla crisi economica, chiedono medicine e cibo. Il presidente incolpa gli Usa e incassa l'endorsement della Russia. Biden ora ha una gatta da pelare.Qualcosa sta cambiando a Cuba. L'altro ieri, sono esplose delle proteste in varie città dell'isola: proteste che hanno visto la partecipazione di migliaia di persone, che inneggiavano alla libertà e chiedevano cibo, medicinali (la sanità fiore all'occhiello è in difficoltà estrema, nonostante la propaganda sul vaccino home made) e soprattutto le dimissioni del presidente Miguel Díaz-Canel. Un Díaz-Canel che ha replicato, esortando i suoi fedelissimi a scendere in piazza. «Chiediamo a tutti i rivoluzionari del Paese, a tutti i comunisti, di scendere in piazza e andare nei luoghi in cui si svolgeranno queste provocazioni», ha dichiarato durante un discorso televisivo. Nel frattempo, sono avvenuti degli scontri, con le forze dell'ordine che hanno lanciato lacrimogeni, arrestando svariati dimostranti. Inoltre, nel pomeriggio di domenica, le autorità hanno bloccato Internet. Eventi di una tale portata non si verificavano sull'isola addirittura dall'agosto del 1994, quando centinaia di persone scesero nelle strade dell'Avana al grido di «libertà»: in quel periodo, Cuba si trovava ad affrontare dei seri problemi di natura economica, principalmente sorti a seguito del collasso dell'Unione Sovietica (collasso che aveva prodotto impatti disastrosi sul piano dell'approvvigionamento energetico e alimentare). Una situazione drammatica, che presenta alcune affinità con quella odierna. L'isola si trova infatti attualmente in condizioni critiche sotto svariati punti di vista. Nel 2020, la sua economia - soprattutto a causa della pandemia - ha registrato un crollo dell'11% (il peggior calo dal 1993): un crollo a cui si è accompagnata una preoccupante scarsità delle scorte di cibo, mentre i prezzi hanno visto un aumento vertiginoso. La situazione risulta poi problematica anche a livello sanitario. Proprio l'altro ieri, l'isola ha registrato un record di contagi da Covid-19, mentre ormai da tempo è emerso un ulteriore nodo: quello di una crescente difficoltà nell'approvvigionamento di medicinali. Un quadro complessivamente fosco insomma, dovuto - oltre che alla pandemia - all'assenza di riforme interne e a una situazione internazionale sfavorevole. Da una parte, l'amministrazione Trump aveva comminato dure sanzioni a Cuba, reinserendola inoltre tra i Paesi sponsor del terrorismo. Dall'altra, va ricordato il progressivo indebolimento del Venezuela che, a partire più o meno dal 2000, si era rivelato - con il chavismo - uno dei principali partner commerciali dell'Avana. In tutto questo, Human rights watch ha riferito che il regime castrista è ancora oggi responsabile di condotte discutibili: detenzioni arbitrarie, strette alla libertà di espressione e sindacati sottoposti al controllo statale. È chiaro che tale situazione costituisce una spada di Damocle sulla leadership di Díaz-Canel che, al potere dal 2018, è diventato segretario generale del Partito comunista di Cuba lo scorso aprile, succedendo alla dinastia dei fratelli Castro. Una leadership traballante che, anziché ai problemi strutturali interni, attribuisce la causa delle manifestazioni a interferenze straniere (fondamentalmente statunitensi). Una tesi, questa, condivisa anche da Mosca. «Riteniamo inaccettabile che vi siano interferenze esterne negli affari interni di uno Stato sovrano», ha dichiarato ieri la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova. Sulla questione è frattanto intervenuto anche il presidente americano, Joe Biden, che ha dichiarato: «Il popolo cubano sta coraggiosamente chiedendo il riconoscimento di diritti fondamentali e universali dopo decenni di repressione e di sofferenze economiche dovute a un regime autoritario. Questi diritti comprendono quello di protestare pacificamente e quello di determinare liberamente il proprio futuro». Eppure, oltre agli attriti tra Washington e Mosca, la questione rischia di avere effetti significativi anche per la politica interna statunitense. Nelle scorse ore, sono andati all'attacco del regime castrista non solo noti esponenti repubblicani (come i senatori Marco Rubio e Ted Cruz), ma anche alcune importanti figure dem, come il presidente della Commissione esteri del Senato, Bob Menendez. Il punto è che, nel Partito democratico, non tutti la pensano come quest'ultimo: alcuni influenti rappresentanti della sua ala sinistra non hanno infatti mai nascosto le proprie simpatie castriste (si pensi alle deputate Ilhan Omar e Karen Bass o allo stesso Bernie Sanders). In tal senso, esattamente come ai tempi della crisi di Gaza, Biden - sulla questione cubana - rischia di ritrovarsi a dover gestire un partito spaccato in due. A complicare la situazione sta inoltre il fatto che, in campagna elettorale, l'attuale presidente aveva criticato la linea dura di Trump nei confronti del regime castrista. Una posizione, questa, dettata dal fatto che Biden sia stato vicepresidente di Barack Obama: il regista, cioè, della (contestata) distensione statunitense nei confronti dell'Avana tra il 2014 e il 2016. Il dilemma, per l'inquilino della Casa Bianca, è quindi evidente. Se alle sue parole di ieri non farà seguire provvedimenti energici, scontenterà i dem centristi, esponendosi inoltre al fuoco repubblicano. Se - di contro - imboccherà concretamente la linea dura, la sinistra lo accuserà di imitare la strategia di Trump. Ed è proprio quest'ultimo scenario che - c'è da giurarci - l'affaticato regime castrista teme di più.
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)