2018-05-28
Uno tsunami fa tremare i centri commerciali
Fallimenti a catena, licenziamenti, proteste. In America 200 ipermercati su 1.200 sono vicini alla chiusura. Il crollo dei consumi e l'e-commerce hanno creato la grande crisi. Ora l'onda arriva anche in Italia: c'è un migliaio di esuberi tra Auchan e Carrefour.I centri commerciali sono in declino? E se sì, lo stesso fenomeno avverrà fra non molto anche per gli iper e i semplici supermercati? Per la verità non è ancora scoccata l'ora X per la Gdo (grande distribuzione organizzata), come gli addetti ai lavori chiamano i maxicentri di vendita. Quello della chiusura, del ridimensionamento o della riconversione di questi complessi commerciali è un fenomeno molto diffuso, per ora, negli Stati Uniti. In alcuni Stati ha raggiunto proporzioni preoccupanti, con chiusure, smantellamenti di negozi e perdite di molte migliaia di posti di lavoro (100.000, secondo alcune fonti). In Italia la situazione non è ancora così grave, ma potrebbe diventarlo nel giro di qualche anno.Secondo un'inchiesta recente del New York Times, molte di queste «cattedrali nel deserto» sono megastrutture vuote e agonizzanti. Sembrano immagini da fantascienza , e non a caso diversi film sulle catastrofi o sull'arrivo misterioso di alieni sono stati girati proprio in alcune di queste aree abbandonate. Su 1.200 centri commerciali censiti, almeno il 15% (180-200) rischia la chiusura perché i consumatori si indirizzano altrove. Altre inchieste dei media Usa segnalano che la crisi potrebbe essere ancora più grave. Nei prossimi sei mesi, infatti, si prevede che a chiudere saranno almeno 3.500 tra supermercati, ipermercati e grandi negozi, a cominciare dai punti vendita Jc Penney, Macy's, Sears e Kmart, così come le catene situate nei centri commerciali come Croes, Bcbg, Abercrombie & Fitch e Guess (lo conferma anche Bloomberg).Le motivazioni? Ci sono aziende che si concentrano ormai solo sull'e-commerce; altre, come The Limited (che ha chiuso i suoi 250 punti vendita), sono vittime di fallimenti a catena. Altri ancora, come Sear e Jc Penney, cercano di contenere i costi riducendo il numero dei negozi (Sears ne ha chiusi 150 e Jc Penney 138). È un fenomeno che era da tempo nell'aria, dicono gli esperti. L'apocalisse del retail era prevista, anche perché negli Usa il numero dei negozi è più alto che in ogni altro Paese. Da che cosa viene provocata questa catastrofe? Gli esperti non hanno dubbi. La prima causa è il calo dei consumi, che si è accentuato negli ultimi tre-cinque anni (un fenomeno simile si è manifestato anche in Italia per effetto della crisi). Poi la saturazione del territorio, con troppi centri commerciali che offrono la stessa gamma di prodotti a prezzi quasi identici. Infine, in quasi tutti i centri si è ridimensionato il fenomeno dello shoptainment, cioè dello shopping mescolato con il divertimento (una volta rappresentato dalle sale cinematografiche, spettacoli di musica leggera, eccetera). Il declino dei centri commerciali va spiegato però con le continue trasformazioni della grande distribuzione.In Italia, come si è detto, la situazione non sembra ancora catastrofica, anche se certi segnali sono già molto preoccupanti. Secondo i dati di Ancc-Coop, nella settimana dal 30 aprile al 6 maggio di quest'anno la percentuale delle vendite nei punti vendite della Gdo è aumentata del 3,47%, ma - è questa la sorpresa poco piacevole - complessivamente le vendite negli iper e nei supermercati, dal primo gennaio al 6 maggio 2018, sono diminuite del 2,05% rispetto al 2017. Un incremento, anche se modesto (1,47%) si è registrato solo nel settore dei discount. Questi dati coincidono largamente con le rilevazioni della Confcommercio, che segnala appena un incremento dell'1% annuo delle vendite (in aprile), che conferma come l'andamento dei consumi sia costantemente in calo. È proprio per queste ragioni che il rischio di un aumento dell'Iva dal gennaio 2019 viene valutato dagli esercenti e dagli altri operatori del settore come un nuovo macigno che peserebbe sul livello dei consumi. L'evoluzione delle strutture di vendita (iper, supermercati, piccoli centri vendita nei quartieri, discount) è mirata a ridurre sensibilmente i costi per tenere fermi i prezzi, soprattutto quelli dei prodotti di più largo consumo, dove è forte la concorrenza delle troppe marche esistenti sul mercato. Alcune sono state create dallo stesso gruppo, non solo per confondere il consumatore, ma anche per non creare nuova concorrenza nello stesso territorio. Ciononostante la crisi non si è fatta attendere. È apparsa evidente nelle reti francesi di Auchan e Carrefour, ma segnali negativi sono apparsi anche altrove. Gli stessi centri commerciali (quasi 1.000 in tutta Italia) e i 4.253 tra iper e supermercati non navigano più in buone acque. Qualche incauto imprenditore osa sfidare il mercato investendo in nuovi progetti, prediligendo quelli delle archistar.Il centro commerciale è stato definito dal sociologo Marc Augè «un non luogo», in contrapposizione ai centri storici e altri classici luoghi delle città. In realtà sono spazi, anche poco identitari, ma sino a pochi anni preferiti soprattutto dai giovani come punti di ritrovo o di svago. Il dibattito sul declino di questi centri sembra però oggi prevalere su ogni discorso sociologico e snobistico. Auchan (58 ipermercati, 1.842 supermercati,13.000 dipendenti) sembra aver avvertito per prima la crisi. Nell'aprile scorso i lavoratori hanno cominciato a presidiare l'ipermercato di Catania, protestando contro la decisione di licenziare una parte degli addetti. Anche a Napoli, un altro iper della stessa rete si trova in una situazione analoga: 200 licenziamenti. L'azienda non fa mistero che la chiusura nasce «dalla gravissima situazione economica di questi punti vendita». Segnali di crisi della stessa catena nell'ipermercato di Mestre (65 licenziati su 323), mentre nelle gallerie commerciali dei centri sono molte decine le commesse lasciate a casa.Cassa integrazione, contratti di solidarietà e licenziamenti si riscontrano anche in altri gruppi. Carrefour (1.071 punti vendita) sta subendo crisi in diversi supermercati: vi è una procedura in corso per 620 licenziamenti. Di questi, 270 sono distribuiti fra Burolo (Torino), Vercelli, Massa Carrara, San Giuliano (Milano), Portogruaro, Marcon (Venezia), Camerano (Ancona), Frosinone e Lucca. Altri 239 si ritrovano con la lettera di licenziamento ad Assago, Paderno Dugnano (Milano), Limbiate, Giussano (Monza Brianza), Grugliasco, Pinerolo, Collegno (Torino), Gallarate (Varese), Thiene (Vicenza), Tavagnacco (Udine), Quartu Sant'Elena, San Sperate (Cagliari), Marcianise (Caserta), Novara, Roma, Gavirate (Varese). Ci sono altri due ipermercati che l'azienda francese vorrebbe chiudere, licenziando 111 lavoratori, a Trofanello (Torino) e Borgomanero (Novara). Sembra che molte vertenze negli ultimi mesi abbiano trovato una conclusione, ma altre sono ancora «calde», e destinate a chiudersi con licenziamenti. I sindacati di categoria, però, ogni giorno denunciano segnali di altri esuberi in arrivo «anche dalla catena Simply e da Mediaworld.Da un giro di opinioni raccolte tra imprenditori, esercenti di centri commerciali, iper e supermercati, esce la conferma che il sistema della grande distribuzione si sta profondamente trasformando. È in corso un processo di mutazione, evoluzione, integrazione commerciale tra le diverse catene e gruppi (Coop, Conad, Auchan, Carrefour, Eurospin, Lidl, Esselunga, Selex, eccetera) per ridurre i costi complessivi, a cominciare da quelli del lavoro (dove imperversano contratti anomali e trattamenti a volte al limite della legge), nel tentativo di incrementare la scarsa redditività. Per esempio, nel 2017 l'Esselunga degli eredi Caprotti ha chiuso con ricavi di 7,7 miliardi (+3%). Ma sono pochi i marchi che possono vantare risultati simili. Secondo l'ultima ricerca di Mediobanca, nel 2015 e 2016 Esselunga ha ottenuto il risultato migliore, con 535 milioni di utili, ma ad altri non è andata così bene. Gli utili delle Coop sono stati invece di 137 milioni (grazie anche a forti agevolazioni fiscali che il governo leghista-grillino vorrebbe tagliare). Risultati positivi anche per Eurospin e Lidl (600 punti vendita) con profitti di 325 milioni (+60%) e 190 (+36%) nei due anni. Bilanci in rosso, invece, per Auchan (371 milioni di perdite) e per Carrefour (-261 milioni).Oggi il futuro dei centri commerciali non appare più, come in passato, un investimento promettente. Non si può parlare di una fine del modello americano, ma i rischi sono aumentati negli ultimi tempi. E allora tanto vale prevedere in tempo utile la possibile crisi, cominciando, ad esempio, col non costruire più nuovi complessi megagalattici (oltretutto costosissimi). Altri interventi riguardano gli ipermercati, ormai ritenuti dagli esperti, superati e dai costi di gestione troppo elevati. Reggono meglio i piccoli supermercati di quartiere, che peraltro hanno sostituito centinaia di negozi chiusi. Questi nuovi punti vendita cittadini oggi si stanno organizzando per la consegna a domicilio, con modesti costi aggiuntivi, e dispongono di piatti pronti. È, questo, un business in crescita che sta aiutando numerosi supermercati a sopravvivere, tenendo conto che ogni anno gli italiani spendono almeno 80 miliardi per mangiare fuori casa (100 euro al mese a persona).C'è un altro dato che non va sottovalutato e che ha contribuito notevolmente alla crisi sia dei centri commerciali che dei supermercati: le vendite online, con cui bisognerà fare i conti. Le grandi aziende si vanno già attrezzando. Anche Amazon è entrata in questo mercato. In ballo ci sono almeno 900 milioni di euro, che diventeranno, nel giro di due o tre anni, oltre 2 miliardi. Infatti la spesa online è aumentata dai 502 milioni del 2015 ai 892 del 2017. Ma le prospettive sono ancora più promettenti se si pensa che il valore dell'ecommerce in Europa è stimato sui 510 miliardi ed è concentrato, per il 60%, nel Regno Unito, in Francia e in Germania.
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