
Non condivido una riga del quotidiano comunista, ma oggi lo firmo perché sopravviva. Sono contrario all'eutanasia, ma pubblico lo spot dei radicali. Così combatto la polizia del pensiero che, come ha fatto l'Agcom, punisce i giornalisti che fanno il loro mestiere.Forse qualcuno ha pensato che con l'editoriale di ieri io abbia esagerato, descrivendo un futuro di parole in libertà vigilata, con una specie di polizia linguistica pronta a intervenire contro chiunque sgarri e non scriva le cose che piacciono a un'astratta Autorità del pensiero unico. No, io non ho esagerato né ho sbagliato a scrivere un articolo sul regolamento recentemente approvato dal Garante delle comunicazioni. Perché già da ora è vietato scrivere di immigrati, rom, islamici e trans, a meno di non parlarne bene. La dimostrazione la dà ciò che è avvenuto proprio in questi ultimi giorni di campagna elettorale. Mercoledì abbiamo scritto delle contestazioni notificate al direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, reo di aver commentato le affermazioni dell'ex presidente del Consiglio, Mario Monti. L'Authority guidata da Angelo Marcello Cardani, un bocconiano nominato dallo stesso Monti (di cui è stato anche capo di gabinetto ai tempi della Commissione europea), ha diffidato il Tg2 e il suo direttore, contestando «la natura incompleta e parziale e non obiettiva delle informazioni». Già appare singolare e preoccupante che un ente di garanzia presieduto da un ex collaboratore di un ex presidente del Consiglio contesti l'opinione di un giornalista su ciò che ha detto il medesimo ex presidente del Consiglio. Ma ancor più inquietante è ciò che è accaduto a Nicola Porro, conduttore di Quarta Repubblica, il quale nei giorni scorsi si è visto recapitare una richiesta in cui si segnalano «elementi di criticità» nella conduzione del programma. Secondo l'Autorità, in alcune puntate della trasmissione in onda su Rete 4, sarebbero state fatte passare in sovrimpressione delle frasi giudicate inopportune. Ma soprattutto, agli occhiuti funzionari al servizio di Cardani, non sarebbe piaciuto il «tipo di domande rivolte dal conduttore agli ospiti in studio».Sì, avete letto bene. A Porro sono contestate le didascalie sui servizi e le domande che ha formulato durante la trasmissione, oltre che la scelta degli argomenti, «troppo in sovrapposizione con quelli dell'agenda politica del ministro dell'Interno». Cioè, in pratica, al collega viene imputato di aver parlato di immigrazione, del caso Siri, di tensione fra fascisti e antifascisti e della difficoltà dei rimpatri, aggiungendo in sovrappiù - come hanno fatto tutte le testate del mondo e tutti i social network - la foto di Matteo Salvini con il mitra. In pratica, all'Agcom non garba che nei programmi di informazione si faccia informazione e si parli di ciò che è successo quel giorno. Infatti vengono contestate perfino le frasi che accompagnano i servizi mandati in onda, come per esempio «Sparatoria a Napoli, la sinistra dà la colpa a Salvini» o «Le polemiche su Salvini con il mitra» o, ancora, «L'intercettazione contro Siri esiste?». Ma vi pare possibile? Un talk show che si mette a trattare i temi di giornata? E il giornalista, accidenti, si azzarda perfino a fare domande?Certo, se al posto di Nicola Porro ci fossero stati Lilli Gruber o Corrado Formigli, due conduttori che ormai fanno a corpo a corpo con gli ospiti, travolgendo il ruolo imparziale dell'intervistatore (ma ovviamente solo quando in studio gli ospiti sono Matteo Salvini, Silvio Berlusconi o Giorgia Meloni), allora sarebbe stata un'altra musica e nessuno avrebbe chiesto conto delle domande. Tanto meno avrebbe accusato i giornalisti di parzialità o, addirittura, di fomentare l'odio e l'intolleranza, come si intende fare con il nuovo regolamento. Beh, io non ho bisogno di un decalogo che mi imponga che cosa pubblicare e che cosa nascondere. Non odio nessuno, neanche gli stupidi. E non sono intollerante nei confronti di chicchessia, neanche di Gad Lerner che pure mi vorrebbe proscrivere. La prova ve la do oggi, pubblicando un'intera pagina dell'Associazione Luca Coscioni pro eutanasia. Non condivido nulla di ciò che vi è scritto e so benissimo che la scelta del gruppo radicale è provocatoria. Non hanno chiesto a Repubblica o al Manifesto di stampare un inno alla morte: l'hanno chiesto alla Verità, ossia a un giornale che fin dal suo primo giorno inneggia alla vita. Noi non vogliamo il suicidio di Stato, l'iniezione letale passata dalla mutua come un normale analgesico. La Verità è il quotidiano che si è battuto in difesa di Charlie, un bambino condannato a morte dalla giustizia inglese, contro il parere dei propri genitori, perché giudicato incapace di vivere. E sempre noi ci battiamo per la vita di Vincent Lambert, il paraplegico che in Francia i dottori vorrebbero far morire perché stanchi di curarlo. Logico dunque che chiedere a noi di pubblicare una pagina pubblicitaria pro eutanasia serva solo a provocare o, molto più probabilmente, a farsi dire di no. Ma io non ho detto di no. Spesso pubblico opinioni che non condivido, ma come ho più volte spiegato, visto che non voglio essere imbavagliato non imbavaglio gli altri. A differenza degli intolleranti, che impediscono all'associazione Pro vita di affiggere un manifesto contro l'aborto fuori dalla propria sede, io non ho intenzione di impedire a nessuno di esprimere le proprie opinioni, anche quando queste sono da me ritenute aberranti, come nel caso dell'eutanasia. Il confronto delle idee a me non fa paura, e neppure il dibattito.Altro che xenofobo, come mi dipinge qualcuno, perché sostengo che i clandestini vadano rimandati a casa. Io non sono né razzista né fascista. Sono uno spirito libero. Tanto libero da decidere di firmare L'Unità per un giorno. Il quotidiano fondato da Antonio Gramsci è fuori dalle edicole da parecchio tempo a causa di una crisi che ha portato più volte alla chiusura e la testata rischia di sparire. L'editore mi ha chiesto di consentire il suo ritorno in edicola almeno per un giorno, per mantenere accesa la fiammella del quotidiano comunista. Come per la pubblicità a favore dell'eutanasia, non condivido praticamente nulla di ciò che vi è scritto, ma a differenza dell'Autorità per la garanzia nelle telecomunicazioni, io non sono un censore. Non minaccio la libertà di stampa con multe pari al 2 o al 5 per cento del fatturato. Nel nostro settore esiste già la magistratura, che spesso punisce i giornalisti con condanne penali e pecuniarie. Poi c'è l'Ordine dei giornalisti, che vigila sulla deontologia e interviene distribuendo sanzioni e sospensioni a coloro che non rigano diritto. Di un altro censore la libertà di opinione garantita dall'articolo 21 della Costituzione non ha bisogno. Semmai c'è bisogno di lettori ai quali raccontare i fatti senza censure e senza pregiudizi.
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Da tempo sentiamo parlare di «abbracciare» l’ambiente, con tutto il corollario di imposizioni green. Eppure chi lo fa sul serio viene sanzionato con l’allontanamento della prole. Benché volesse solo fuggire dalle ipocrisie.
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Accordi Usa-Arabia Saudita su nucleare e terre rare. Data center e domanda elettrica, Germania già in difficoltà. Nucleare e shale oil, Usa pragmatici.
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Col pretesto della partita di basket Virtus-Maccabi, attivisti e centri sociali si scontrano con le forze dell’ordine. Il sindaco Lepore condanna il Viminale, ma la questura replica: tra i violenti sigle ospitate nei locali comunali.
«Durante la manifestazione contro la partita Virtus-Maccabi sono state lanciate numerose bombe carta imbottite di chiodi: un poliziotto è stato colpito ai genitali, un altro è rimasto gravemente ferito a un piede. Questo non è più dissenso, ma una strategia del terrore messa in atto con la volontà di causare lesioni anche gravi alle Forze dell’Ordine». Racconta così, Domenico Pianese, segretario del Sindacato di Polizia Coisp, quanto accaduto venerdì sera a Bologna, dove per l’ennesima volta negli ultimi mesi, è esplosa la violenza antagonista. Stavolta la scusa era una partita di basket che vedeva sul campo la squadra israeliana sfidare la Virtus in Eurolega e che, secondo i Pro Pal, non si doveva giocare.
Francesco Saverio Garofani (Imagoeconomica)
Il consigliere di Mattarella può tramare contro Meloni e conservare il suo incarico. Invece il portavoce del ministro lascia per il sostegno al centrodestra in Campania.
Piero Tatafiore si è dimesso. Il portavoce del ministro della Cultura ha lasciato per aver inviato, dal suo account ufficiale, un link riguardante la partecipazione di Alessandro Giuli a un’iniziativa politica per le elezioni in Campania. Appena la mail è arrivata ai giornalisti, il Pd ha sollevato la questione, accusando Tatafiore e di conseguenza il suo capo di fare campagna elettorale per il candidato di centrodestra a spese della collettività. Nonostante l’accusa fosse evidentemente falsa, il portavoce credo non abbia impiegato nemmeno un minuto a decidere di fare un passo indietro. E infatti, già nella serata di ieri, sul tavolo del ministro c’era la sua lettera di dimissioni. Credo che una qualsiasi persona onesta colga la differenza fra il comportamento di Tatafiore e quella di Francesco Saverio Garofani.






