Il cliente «gold» della Equalize, l’agenzia investigativa milanese che impiegava tecniche invasive e, per gli inquirenti, «illegali», per raccogliere informazioni, era Lorenzo Sbraccia, presidente del Cda della Fenice Srl, azienda che tra i suoi business annovera il settore dei bonus per le ristrutturazioni, e con ruoli e partecipazioni quasi esclusivamente in società attive nel settore immobiliare e della costruzione di edifici. A leggere gli atti dell’inchiesta della Procura di Milano Sbraccia appare come un uomo ossessionato dall’idea di acquisire informazioni riservate da sfruttare per proteggere i propri affari, ma anche per soddisfare qualche morbosa curiosità personale. A conti fatti avrebbe investito nei servizi offerti dalla Equalize poco più di 1 milione di euro. Per l’imprenditore, che è indagato, i pm avevano chiesto la custodia cautelare in carcere, ma il gip l’ha rigettata. Questo, però, non sminuisce la rilevanza del suo ruolo all’interno dell’intrigo con al centro la Equalize. Soprattutto perché dimostra i vari campi in cui la società operava. E, per le cifre sborsate, anche l’importanza che i clienti attribuivano ai servizi d’intelligence che poteva fornire. Le attività di Equalize, infatti, non si sarebbero limitate alle ricerche informative nelle segretissime banche dati delle Forze dell’ordine e dell’anagrafe tributaria, ma hanno incluso pedinamenti e registrazioni clandestine, come quella che ha riguardato, per conto di Sbraccia, il capo italiano della finanza strutturata di Jp Morgan Alessandro Gatto. Una conversazione intercettata sembra dimostrare quanto erano disposti a spingersi oltre quelli della Equalize. Gli operatori sul campo, incaricati di monitorare Gatto, a un certo punto hanno paura di essere notati durante una delle attività di pedinamento in un ristorante: «Carmine, vogliamo sputtanarci? Vuoi che vado a dirgli anche “buongiorno, sono qua che ti devo registrare?”». Quel Carmine è Gallo, l’ex superpoliziotto passato all’intelligence privata e finito ai domiciliari. Le registrazioni raccolte, sempre secondo quanto emerge dalle indagini, avrebbero rivelato conversazioni riservate su investimenti e manovre finanziarie. A Sbraccia, però, interessa particolarmente la donna che dovrà incontrare Gatto e che a suo dire rappresenterebbe un’opportunità per risolvere un suo problema legato alla concorrenza: «Se arriva lei è bingo», dice indicando che la presenza della donna eliminerà una minaccia competitiva. In realtà, però, come vedremo in seguito, quella donna gli interesserebbe per ragioni strettamente private. Ma il banchiere di Jp Morgan non è l’unico inseguito dagli sgherri di Gallo. Dall’anagrafe nazionale della popolazione residente, per esempio, viene ricercata la famiglia Motterlini. Le ricerche, però, poi si sarebbero estese alla loro azienda e ai fornitori. Come per la Elpida Srl. E dopo una intercettazione nella quale Sbraccia appare incattivito con Enrico Pazzali, il socio di maggioranza della Equalize, per un presunto rapporto tra questi e Guido Stefanelli, l’ex amministratore delegato della società che editava il quotidiano l’Unità («No, è una merda Finmeccanica… però capito… poi c’ha rapporti con Stefanelli… Siccome Stefanelli conosce anche Legnini e sinceramente, io non so perché, ma questo Pazzali fa un po’ paura, cioè nel senso, deve essere uno abbastanza agganciato!»), nei sistemi informatici della Equalize compare una ricerca con quel nome. Coincidenza: tra le cartelle che gli inquirenti definiscono «di grande interesse investigativo» ce n’è una su Stefanelli. Ma per Sbraccia la Equalize avrebbe eseguito anche attività d’intercettazione telefonica mediante il «positiong», nonché attività di monitoraggio e protezione da eventuali investigazioni dell’autorità giudiziaria tramite l’individuazione di Segnalazioni di operazioni sospette e la loro «neutralizzazione». Proprio delle Sos parla Sbraccia durante una conversazione intercettata: «Tu mi dici che Fucino continuava a fare Sos, io c’ho un atteggiamento che mi danneggia lavorativamente... capisci? Perché magari non lavoro con lui, mi devo andare a raccomandare e aprire un conto in Montepaschi... e mi crea problemi... sì ti ho detto delle inesattezze, ho provato a difendermi dicendo che era una Sos, non era una Sos, a Brindisi sono andato per i cazzi miei, non sono andato per parlare di Jacobini». E qui si innesca una faccenda che sembra sfociare nel personale. Jacobini, si è scoperto, è Gianluca Jacobini, l’ex condirettore generale della Banca popolare di Bari, a processo con l’accusa di aver contribuito a mandarla a gambe all’aria. A telefono con Gallo, Sbraccia chiede espressamente di controllare la moglie dell’ex manager della Popolare barese: «Provi a localizzarmi lei per favore?». Gli investigatori l’hanno identificata in Amalia Alicino, ingegnere, ex dipendente della Popolare di Bari finita poi alle dipendenze della Fenice Srl di Sbraccia. E richiede le localizzazioni a orari precisi: «Ciao, senti se ci riesce, poi mi dici pure se c’ha un... o quello che è, riesci a farne una di adesso e una delle 21.45?». Gallo risponde: «Va bene, va bene, te le faccio fare!». Le richieste di Sbraccia diventano sempre più insistenti. E Gallo a un certo punto esprime le sue difficoltà, definendo quelle captazioni come «molto, molto, molto invasive». Poi, però, proprio su Amalia soddisfa le richieste del cliente. «Gli abbiamo fatto un Bingo! Gli ho mandato io la localizzazione di quella lì, di Amalia». Gallo conferma che Sbraccia è rimasto soddisfatto del servizio, essendo riuscito a sapere che «lei è a Bari». Le richieste però sarebbero diventate davvero «ossessive». E Gallo si lamenta con un collaboratore, perché Sbraccia gli avrebbe chiesto di monitorare la donna «ogni ora». La risposta è sarcastica: «C’è qualcosa che non gli funziona in testa...». E tra gli incontri monitorati c’è proprio quello tra Amalia e il banchiere Gatto: «C’ho tutta la registrazione audio dei discorsi... e si sente molto bene», riferisce un collaboratore della Equalize. E alla fine l’imprenditore dalla torre di ossessioni per la sua dipendente può finalmente esultare per il «Bingo!».
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto da Solo la verità lo giuro (Piemme, 192 pagine, 18,90 euro) di Antonio Padellaro, giornalista e fondatore del Fatto Quotidiano.
La mia prima cacciata fu anche la più bizzarra. Siamo al Corriere della Sera, verso la fine del millennio: il giornalone versa in crisi di vendite e la nuova proprietà degli Agnelli chiama alla direzione di via Solferino Ugo Stille che, a sua volta, mi nomina capo dell’ufficio romano di corrispondenza. Stille, storica voce dall’America è un personaggio a suo modo geniale, dalla simpatia contagiosa. [...] Non apre mai la corrispondenza se avverte odore di grane. Decido di lasciare il Corriere per L’Espresso e in una lettera gli spiego, con il cuore spezzato, che mi sento costretto a questo passo soprattutto a causa degli attacchi craxiani da cui non mi sento abbastanza tutelato. Quando, trascorse un paio di settimane, mi reco a Milano per congedarmi, Stille cade, o fa finta di cadere, dalle nuvole giurando di non avere mai ricevuto alcuna missiva a mia firma. Resto convinto che subodorando qualcosa di spiacevole, quella busta se la sia prudentemente tenuta in tasca. E che, in un modo o nell’altro, mi abbia detto la verità. Senza dirmela.
All’Unità, i miei contrasti con la dirigenza dei Ds, o meglio, con Piero Fassino, che era il segretario del tempo, nascevano inevitabilmente dalla rubrica quotidiana di Marco Travaglio, Bananas, dedicata alle gesta dell’arrembante Silvio Berlusconi. Ogni qualvolta Travaglio scriveva qualcosa contro Berlusconi, non in linea con qualche inciucio della sinistra, il mattino successivo, cascasse il mondo, squillava il telefono e un’apprensiva voce femminile scandiva il mio incombente destino: «Ti passo Fassino». All’inizio, non conoscendo il metabolismo fassiniano, mi sottoponevo a penose conversazioni nel corso delle quali il leader della sinistra italiana diceva le cose più sgradevoli sulla mia direzione. Schiacciato dal peso della colpa che mi ero assunto nei confronti delle masse lavoratrici e dei ceti più deboli, non proferivo parola. Poi, appresi che Fassino soffriva di pressione bassa. Quindi, appena risvegliatosi dal sonno del giusto, egli univa all’umor nero da ipotensione mattutina l’incazzatura per le ribalderie di Marco. Miscela esplosiva di cui facevo io le spese.
Escogitai un banale stratagemma. Ogniqualvolta il Fassino furioso si appalesava, comunicavo che al momento non potevo rispondere e che lo avrei richiamato. Infatti, era ciò che facevo nel pomeriggio inoltrato quando ero sicuro che la pressione si fosse ristabilita su valori accettabili. In genere, Piero rispondeva dimentico del motivo che lo aveva scatenato di buon mattino. Manifestava, anzi, una certa cordialità e alle volte si informava perfino sul mio stato di salute. Ricordava il milionario di Luci della città che di notte, ubriaco, abbracciava il vagabondo Charlot e di giorno, ritornato sobrio, lo maltrattava.
Dai e dai, però, il giochino non ha retto più finché un Fassino con la pressione regolare mi ordinò senza tanti preamboli: «Devi cacciare Travaglio». Replicai con una delle poche frasi di cui vado orgoglioso: «Fai una cosa più semplice, caccia me, così nomini un altro direttore che poi caccia Travaglio». E nel mentre lo dicevo sogghignavo: col cavolo che ti faccio ’sto favore. Infatti, consapevole del casino che ne sarebbe nato non ci provò più. Sono stato allevato, come papa Bergoglio e Mario Draghi, da quei figli di buona donna dei padri gesuiti. Che in materia battono tre a zero i salesiani da cui Fassino era stato allevato (ma pure Travaglio). Del resto, non sono pochi quelli di sinistra che sono andati a scuola dai preti. La sinistra è stata incubata dai preti (ho detto incubata, eh). A eccezione di Massimo D’Alema, cresciuto in qualche gulag siberiano.
Pure lui detestava Travaglio ma non ha mai telefonato per protestare. Forse perché quando Marco era invitato alle feste dell’Unità riscuoteva grande successo e riempiva i tendoni. [...] Come direttore dell’Unità invitarmi alle feste era quasi obbligatorio. Poi, un giorno, in un’intervista confessai che non avevo mai votato per gli eredi del Pci. La cosa creò scompiglio ma per fortuna nessuno approfondì, altrimenti sarebbe uscito fuori che il mio voto lo avevo dato a quel semolino sciapo del fronte laico. Ai repubblicani e, una volta, perfino al Garofano di Bettino Craxi. Questo me lo tenni per me altrimenti mi avrebbero cacciato su due piedi.
Mi cacciarono lo stesso, tempo un annetto. Dopo aver cacciato Furio Colombo che aveva risollevato le sorti di un giornale fallito e senza più lettori. [...] Presi il suo posto ma dopo nemmeno un paio d’anni arrivò un nuovo editore: Renato Soru, il creatore di Tiscali, l’uomo che aveva portato Internet in Italia in una dimensione industriale, colui che aveva sbancato la Borsa. Era stato Walter Veltroni, all’apice del successo come demiurgo del Pd, a chiedergli di mettere un bel po’ di quattrini per sanare i bilanci della testata [...]. Sarà l’ex sindaco di Roma a congedarmi tramite intervista al Corriere: annunciava che avrebbe visto di buon occhio alla direzione dell’Unità una donna (casualmente aveva già scelto Concita De Gregorio). Poiché non avevo intenzione di cambiare sesso, preparai gli scatoloni.
Soru venne a trovarmi perché, così disse, voleva conoscermi di persona. In realtà per cacciarmi meglio. Lui è il classico sardo muto che alterna lunghe pause a profondi silenzi. Voleva accompagnarmi alla porta ma non trovava le parole. Tergiversava illustrando faraonici progetti di rilancio nei quali, giurava, avrei avuto un ruolo strategico. Andammo a prendere un caffè, seduti a un tavolino tutto diventò più semplice. Gli dissi che consideravo concluso il mio tempo all’Unità e che stavo lavorando a un nuovo progetto. Ritrovò miracolosamente la favella e, come sollevato dal nuraghe che gli pesava sullo stomaco, mancò poco che mi stringesse in un abbraccio riconoscente.
Nella mia carriera da direttore mi è capitato di scoprire molti altarini: dal bacio in fronte che Fiorani promise al governatore della Banca d’Italia fino all’«Abbiamo una banca» di Fassino. Però, tra tutte le accuse che mi sono tirato addosso per aver semplicemente fatto il mio mestiere, che è quello di dare le notizie e non di nasconderle per compiacere qualcuno, mai ero stato accusato di essere un eversore.
Per aver raccontato delle telecamere con cui alla Coop qualcuno si era messo a spiare i lavoratori, mi hanno processato per ricettazione. Per i viaggi di Napolitano e gli sprechi del Quirinale mi sono invece beccato un vilipendio al capo dello Stato. L’accusa di essere un sovversivo, anzi un terrorista, finora però mi era stata risparmiata. A colmare la lacuna ha provveduto l’Unità, che ieri se n’è uscita in edicola (quelle poche che ancora reggono e quelle poche che distribuiscono il quotidiano comunista) con il seguente titolo: «Eversione a mezzo stampa. Intercettavano i parlamentari e poi consegnavano tutto a Belpietro per infangare le Ong, Casarini, il Pd e il papa». Il minuscolo per il Papa, a fronte di maiuscole per Ong e compagni, ovviamente non è mio, ma tant’è.
Nell’articolo, il giornale fondato da Antonio Gramsci e che l’attuale direttore Piero Sansonetti sta provando a riaffondare, si sostiene che nell’inchiesta della Procura di Ragusa a carico di Luca Casarini e della sua banda di disobbedienti siano stati intercettati i parlamentari, in spregio «del diritto e delle leggi» (che poi sono la stessa cosa, ma anche su questo sorvoliamo). Il riferimento è alle notizie pubblicate dalla Verità, che svelano i rapporti tra alcuni onorevoli del Pd e Mediterranea, l’Ong nata da esponenti dei centri sociali e finanziata da alcune diocesi con la benedizione della Cei. Secondo l’Unità, gli inquirenti che hanno indagato Casarini e compagni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, hanno «disposto tonnellate di intercettazioni e sequestrato altre tonnellate di messaggi whatsapp e email», consegnando il tutto a noi, che da giorni andiamo «pubblicando messaggi e intercettazioni in prima pagina senza che nessuno intervenga». E tra queste tonnellate di intercettazioni, whatsapp e email - udite, udite - ci sarebbero anche quelle di alcuni onorevoli compagni. Da qui l’accusa di eversione per avere violato le prerogative che proteggono le conversazioni e la posta dei parlamentari della Repubblica.
Peccato che quanto scritto da Sansonetti non sia vero. Già, innanzitutto perché al momento non risulta che allegate all’inchiesta di Ragusa ci siano intercettazioni. E in secondo luogo perché, non esistendo le prime, non possono neppure esistere le seconde, ovvero le chiacchiere tra Casarini e deputati o senatori della Repubblica. Sì, se all’Unità sapessero leggere gli articoli che pretendono di censurare, si sarebbero presto resi conto che le guarentigie parlamentari non sono state violate, perché di nessun onorevole è stata resa pubblica, agli atti o sul nostro giornale, una conversazione captata con qualche microspia. E non sono state sequestrate neppure tonnellate di messaggi o email. Semplicemente, agli indagati sono stati sequestrati i telefoni e i computer, come si usa in qualsiasi inchiesta. E in quei device in uso agli indagati sono state rinvenute le chat che Casarini e compagni si sono scambiate. Attenzione: non gli sms con gli onorevoli, ma quelli fra i componenti della Ong che davano conto delle frasi e delle informazioni ricevute - lo dicono loro - dai parlamentari «amici», i quali spifferavano al gruppo di disobbedienti informazioni riservate della Guardia costiera. Anche in questo caso, sono gli stessi militanti di Mediterranea a riferirlo, non un’intercettazione, che per altro non c’è. Dunque, nessuna eversione, nessuna violazione delle prerogative di deputati e senatori, ma solo un’inchiesta che nel pieno della legalità scoperchia gli altarini della sinistra antagonista e della sinistra di governo, con tanto di preti e vescovi a officiare.
Tuttavia, anche se l’attentato agli organi costituzionali denunciato dall’Unità si rivela un petardo, a commento della reazione isterica del quotidiano comunista sono importanti due annotazioni. La prima è che nell’articolo si sollecita la censura, invitando il ministro della Giustizia, l’Ordine dei giornalisti e forse anche l’esercito a tapparci la bocca, impedendo la prosecuzione di un’inchiesta che sta mettendo a nudo i traffici del Pum, Partito unico dei migranti. La seconda annotazione riguarda la curiosa conversione di Casarini e dei suoi compagni. In passato, quando alcuni governi intendevano regolare la pubblicazione di notizie riguardanti le inchieste, la sinistra scese in piazza al grido di intercettateci tutti e Repubblica lanciò una campagna con le fotografie dei militanti con i post-it sulla bocca. Ma all’epoca c’era Berlusconi da abbattere e dunque valeva tutto, anche le conversazioni delle Olgettine e pure le registrazioni abusive. Spiare la camera da letto del presidente del Consiglio dell’epoca non era eversione, era onore al merito. La realtà è che di questi rivoluzionari imbolsiti che ancora ci vogliono impartire lezioni di democrazia e di deontologia ne abbiamo tutti le tasche piene.
Nella mia carriera da direttore mi è capitato di scoprire molti altarini: dal bacio in fronte che Fiorani promise al governatore della Banca d’Italia fino all’«Abbiamo una banca» di Fassino. Però, tra tutte le accuse che mi sono tirato addosso per aver semplicemente fatto il mio mestiere, che è quello di dare le notizie e non di nasconderle per compiacere qualcuno, mai ero stato accusato di essere un eversore.
Per aver raccontato delle telecamere con cui alla Coop qualcuno si era messo a spiare i lavoratori, mi hanno processato per ricettazione. Per i viaggi di Napolitano e gli sprechi del Quirinale mi sono invece beccato un vilipendio al capo dello Stato. L’accusa di essere un sovversivo, anzi un terrorista, finora però mi era stata risparmiata. A colmare la lacuna ha provveduto l’Unità, che ieri se n’è uscita in edicola (quelle poche che ancora reggono e quelle poche che distribuiscono il quotidiano comunista) con il seguente titolo: «Eversione a mezzo stampa. Intercettavano i parlamentari e poi consegnavano tutto a Belpietro per infangare le Ong, Casarini, il Pd e il papa». Il minuscolo per il Papa, a fronte di maiuscole per Ong e compagni, ovviamente non è mio, ma tant’è.
Nell’articolo, il giornale fondato da Antonio Gramsci e che l’attuale direttore Piero Sansonetti sta provando a riaffondare, si sostiene che nell’inchiesta della Procura di Ragusa a carico di Luca Casarini e della sua banda di disobbedienti siano stati intercettati i parlamentari, in spregio «del diritto e delle leggi» (che poi sono la stessa cosa, ma anche su questo sorvoliamo). Il riferimento è alle notizie pubblicate dalla Verità, che svelano i rapporti tra alcuni onorevoli del Pd e Mediterranea, l’Ong nata da esponenti dei centri sociali e finanziata da alcune diocesi con la benedizione della Cei. Secondo l’Unità, gli inquirenti che hanno indagato Casarini e compagni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, hanno «disposto tonnellate di intercettazioni e sequestrato altre tonnellate di messaggi whatsapp e email», consegnando il tutto a noi, che da giorni andiamo «pubblicando messaggi e intercettazioni in prima pagina senza che nessuno intervenga». E tra queste tonnellate di intercettazioni, whatsapp e email - udite, udite - ci sarebbero anche quelle di alcuni onorevoli compagni. Da qui l’accusa di eversione per avere violato le prerogative che proteggono le conversazioni e la posta dei parlamentari della Repubblica.
Peccato che quanto scritto da Sansonetti non sia vero. Già, innanzitutto perché al momento non risulta che allegate all’inchiesta di Ragusa ci siano intercettazioni. E in secondo luogo perché, non esistendo le prime, non possono neppure esistere le seconde, ovvero le chiacchiere tra Casarini e deputati o senatori della Repubblica. Sì, se all’Unità sapessero leggere gli articoli che pretendono di censurare, si sarebbero presto resi conto che le guarentigie parlamentari non sono state violate, perché di nessun onorevole è stata resa pubblica, agli atti o sul nostro giornale, una conversazione captata con qualche microspia. E non sono state sequestrate neppure tonnellate di messaggi o email. Semplicemente, agli indagati sono stati sequestrati i telefoni e i computer, come si usa in qualsiasi inchiesta. E in quei device in uso agli indagati sono state rinvenute le chat che Casarini e compagni si sono scambiate. Attenzione: non gli sms con gli onorevoli, ma quelli fra i componenti della Ong che davano conto delle frasi e delle informazioni ricevute - lo dicono loro - dai parlamentari «amici», i quali spifferavano al gruppo di disobbedienti informazioni riservate della Guardia costiera. Anche in questo caso, sono gli stessi militanti di Mediterranea a riferirlo, non un’intercettazione, che per altro non c’è. Dunque, nessuna eversione, nessuna violazione delle prerogative di deputati e senatori, ma solo un’inchiesta che nel pieno della legalità scoperchia gli altarini della sinistra antagonista e della sinistra di governo, con tanto di preti e vescovi a officiare.
Tuttavia, anche se l’attentato agli organi costituzionali denunciato dall’Unità si rivela un petardo, a commento della reazione isterica del quotidiano comunista sono importanti due annotazioni. La prima è che nell’articolo si sollecita la censura, invitando il ministro della Giustizia, l’Ordine dei giornalisti e forse anche l’esercito a tapparci la bocca, impedendo la prosecuzione di un’inchiesta che sta mettendo a nudo i traffici del Pum, Partito unico dei migranti. La seconda annotazione riguarda la curiosa conversione di Casarini e dei suoi compagni. In passato, quando alcuni governi intendevano regolare la pubblicazione di notizie riguardanti le inchieste, la sinistra scese in piazza al grido di intercettateci tutti e Repubblica lanciò una campagna con le fotografie dei militanti con i post-it sulla bocca. Ma all’epoca c’era Berlusconi da abbattere e dunque valeva tutto, anche le conversazioni delle Olgettine e pure le registrazioni abusive. Spiare la camera da letto del presidente del Consiglio dell’epoca non era eversione, era onore al merito. La realtà è che di questi rivoluzionari imbolsiti che ancora ci vogliono impartire lezioni di democrazia e di deontologia ne abbiamo tutti le tasche piene.
La Resistenza continua a Milano. Abbandonata una Roma due volte ingrata (prima per l'avventura mai decollata in Rai, poi per l'uscita di scena shock da La Repubblica), Carlo Verdelli torna nella sua città dove conta di non interrompere il feeling con i lettori-partigiani. Quelli che più volentieri ha salutato andandosene dalla redazione; quelli che con maggiore passione lo hanno seguito nei 14 mesi con il passamontagna e la clava; quelli di una sinistra non renziana, non del tutto piddina, con un orizzonte che va dalle sardine ai lampi impressionisti di un postmarxismo 2.0 mai tramontato.
Lo showdown voluto a Repubblica da John Elkann apre a scenari tutt'altro che fantasiosi. Da mesi nei salotti della capitale d'Italia dell'economia e dell'editoria si parlava di un ritorno clamoroso, quello di Carlo De Benedetti, che a 85 anni sembra pronto per l'ultima cavalcata in sella a un giornale. L'idea è semplice e affascinante: comprare la testata L'Unità, rispolverarne il mito e farla ripartire come un'auto vintage con Verdelli al volante e un certo numero di pezzi da novanta di Repubblica al seguito tipo Eugenio Scalfari, Michele Serra, Gad Lerner, Ezio Mauro, Francesco Merlo. Una squadra di grande impatto per andare a posizionarsi proprio fra Rep e Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio.
Sarebbe una fuoriuscita in stile montanelliano, doppio precedente che solletica gli eventuali scissionisti. Nel 1974 infatti Indro Montanelli, disgustato dalla decisa svolta a sinistra del Corriere della Sera di Piero Ottone, operò lo strappo, portò via «l'argenteria di famiglia» da via Solferino (Enzo Bettiza, Egisto Corradi, Giancarlo Masini, Gianfranco Piazzesi, Antonio Spinosa, Livio Capito, Giorgio Torelli) e fondò Il Giornale. E poi nel 1994 sempre Montanelli, in dissidio con Silvio Berlusconi per la discesa in campo, lasciò la sua creatura per intraprendere la sfortunata avventura de La Voce.
Qui, con un frontman come Scalfari a fungere da supremo testimonial, vivremmo un simmetrico ritorno al passato, uno strappo epocale, causato da una prevedibile svolta verso un centrosinistra riformista e renziano (John Elkann e Maurizio Molinari questo fanno intendere) del quotidiano-partito più famoso d'Italia, che nell'ultimo anno era tornato orgogliosamente il totem di una sinistra-sinistra ruggente e barricadera. Il cambio di proprietà è propedeutico a una nuova svolta, determinata anche dalla debolezza dei numeri sui quali possono contare i difensori, in redazione, del quotidiano gridato.
Nel febbraio 2015 Repubblica vendeva 238.000 copie, esattamente cinque anni dopo 132.000, senza riuscire nel sorpasso di un Corriere della Sera egualmente in difficoltà. Anche sul digitale, da sempre fiore all'occhiello del gruppo, la crescita dei numeri segna il passo e l'emergenza coronavirus ha cristallizzato le posizioni. Il momento più muscolare della gestione Verdelli si può riassumere in un titolo: «Cancellare Salvini». Il messaggio aveva uno scopo, far capire che a largo Fochetti non si fanno prigionieri. Ma ne ha raggiunto uno opposto: indurre il compassato John Elkann (proprietario de La Stampa e azionista dell'Economist, quindi incline a un linguaggio da establishment) a prendere sempre più le distanze da quello che non era mai stato il suo direttore.
Dal canto suo De Benedetti, tessera numero uno del Pd e storico editore del gruppo Repubblica-Espresso poi diventato gruppo Gedi, non ha mai metabolizzato l'uscita di scena dal mondo editoriale dei figli Rodolfo, Marco ed Edoardo ai quali aveva imputato apertamente una totale «incapacità gestionale» in una puntata edipica di Ottoemezzo su La7 davanti a Lilli Gruber. Avrebbe voluto ricomprarsi le quote, ma offriva troppo poco. Ora ha l'occasione di rientrare in gioco proprio con Verdelli, che battezzò direttore di Repubblica 14 mesi fa per sostituire Mario Calabresi e che definì «un ottimo giornalista perché ha restituito un'anima al giornale, ora lo leggo con entusiasmo».
L'Unità sarebbe la casa perfetta. Il quotidiano comunista fondato nel 1924 da Antonio Gramsci ha vissuto un declino irreversibile dopo il crollo del muro di Berlino ed è stato chiuso e riaperto più volte, sempre con orizzonti molto limitati e con la lunga ombra del Pd a limitarne la freschezza e la libertà d'azione. La palla al piede del partito ha impedito al quotidiano anche di trasformarsi in un prodotto di nicchia. Tra concordati preventivi, rinascite e liquidazioni, la testata langue nel dimenticatoio. Il proprietario è il costruttore Massimo Pessina. Un anno fa Michele Santoro disse al Corriere della Sera di avere presentato un'offerta d'acquisto. Curiosamente, il 7 aprile è tornato online il sito Unità.tv, di proprietà della fondazione Eyu (think tank del Pd) con una schermata «il servizio riprenderà a breve».
Lo scenario è interessante perché, anche se il contesto è difficile da una decina di anni e le corazzate sono in panne, il mercato tende a premiare iniziative coraggiose, ben identificate dal punto di vista editoriale, senza infingimenti né melliflui bordeggi. A destra come a sinistra, i piccoli vascelli piacciono e un lupo di mare come De Benedetti non ha certo paura di affrontare una sfida corsara in più.






