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2018-06-29
Conte ribalta il tavolo dell’ipocrisia europea
ANSA
Nessun passo indietro sulle richieste italiane. Il premier Giuseppe Conte ha tenuto il punto fino alla fine sul tema dell'immigrazione. Conte ieri sera ha bloccato l'adozione delle conclusioni della prima parte del vertice europeo di Bruxelles, spiegando che l'Italia intende dare un voto sull'intero documento, compresa la parte dei migranti. La conferenza stampa del presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, e del presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, prevista al termine della prima giornata del vertice di Bruxelles, è stata quindi cancellata perché «uno Stato membro (l'Italia, ndr)», ha fatto sapere il portavoce di Tusk, «ha messo la riserva sull'intero progetto di conclusioni, quindi non c'è stato accordo sulle conclusioni stesse. Il Consiglio europeo ha avuto uno scambio di vedute con il presidente del Parlamento Ue, Antonio Tajani, e il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, nonché discussioni su sicurezza, difesa, lavoro, crescita, competitività, innovazione digitale e allargamento. Visto che uno stato membro ha messo la riserva sull'intero progetto di conclusioni, non ne sono state adottate. Per questo», ha aggiunto il portavoce di Tusk, «la conferenza stampa dei rappresentanti delle istituzioni Ue è stata cancellata e avrà luogo domani (oggi per chi legge, ndr) alla fine dell'Eurosummit».
La linea dura era stata annunciata da Conte già al suo arrivo a Bruxelles: «Oggi», aveva detto Conte, «toccheremo con mano se la solidarietà europea esiste o meno. Se dalle parole si vuole passare ai fatti. Questo Consiglio europeo potrà essere uno spartiacque tra un prima e un dopo nell'approccio del fenomeno migratorio».
L'Europa è sul punto di implodere: si ipotizzano accordi solo tra alcuni stati membri che fanno risaltare ancora di più la mancanza di una volontà comune di affrontare il problema sollevato, in particolare, dall'Italia. Ciò che manca all'Unione è un governo forte a Berlino, capace di imporre una linea. La cancelliera tedesca Angela Merkel è arrivata a Bruxelles in una condizione di inedita debolezza, stretta in una tenaglia micidiale: da una parte le pressioni del suo ministro degli interni, Horst Seehofer, che chiede che i richiedenti asilo registrati in un altro paese dell'Unione europea e poi arrivati in Germania debbano essere rispediti allo stato di «primo approdo»; dall'altra la volontà di tenere unita l'Europa, per evitare che la linea dura dei paesi del blocco di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), contrari a ogni ipotesi di accogliere immigrati sbarcati in altri Paesi, produca un effetto-domino spostando a destra l'equilibrio politico dell'Unione.
Conte incontra Angela Merkel, il bilaterale dura circa mezz'ora. Nessuna indiscrezione sui contenuti, ma la cancelliera tedesca, alcune ore prima, aveva fatto scattare l'allarme rosso: «I Paesi che ricevono molti rifugiati», aveva detto la Merkel, «hanno bisogno di sostegno, ma i rifugiati e i migranti non possono scegliere in quale Paese chiedere asilo». È il segnale che la Merkel non può tirare più di tanto la corda con Seehofer. Per mantenere le redini del governo tedesco, la cancelliera deve portare tornare a Berlino con qualche accordo sui «movimenti secondari» degli immigrati, quelli tra i vari stati dell'Unione. Chi sbarca in Italia , viene registrato in Italia e poi si trasferisce in Germania va rispedito nel Paese di primo approdo: è la linea di Seehofer, uno schiaffo all'Italia. La Merkel si attiva per dare vita a intese con stati «volenterosi» e punta a un accordo con Francia e Spagna. A metà pomeriggio fonti di Parigi fanno trapelare che la Francia è pronta a rafforzare l'accordo franco-tedesco che consente di respingere in uno dei rispettivi Paesi un richiedente asilo, nel caso in cui la cancelliera tedesca dovesse chiederlo. Anche l'Ungheria guidata dal «duro e puro» Viktor Orban, a sorpresa, fa sapere di essere disponibile a intese con Berlino. La Francia provoca l'Italia, proponendo la creazione di hotspot «più moderni» sul nostro territorio, sul modello della Grecia.
Il presidente francese, Emmanuel Macron, incontra i leader del gruppo Visegrad, poi tenta di organizzare un bilaterale con Conte, ma non c'è tempo e il vertice salta. Il presidente del parlamento europeo, Antonio Tajani, espone la sua proposta di mediazione: «Ho proposto al Consiglio europeo», dice Tajani, «di investire 6 miliardi di euro per risolvere il problema del corridoio libico».
Le residue possibilità di un'intesa che mantenga l'Europa unita sembrano legate alla realizzazione di piattaforme al di fuori dell'Unione dove far attraccare le navi piene di disperati. Le ipotesi sono Marocco, Albania, Tunisia, Libia, Bosnia, Montenegro. La Merkel sottolinea che «dobbiamo prima discuterne con loro, non possiamo decidere da soli. Anche l'accordo con la Turchia», ricorda la cancelliera, «era reciproco». Il ministro degli Esteri del Marocco, Nasser Bourita, dice no: «Il Marocco», spiega Bourita, «respinge e ha sempre respinto questo genere di metodi per gestire la questione dei flussi migratori». Il leader proseguono la discussione a cena, poi una lunga notte di trattative. L'Italia, almeno per il momento, tiene il punto e non accenna ad arretrare di un solo millimetro. Oggi è il giorno della verità.
Carlo Tarallo
L’Italia rifiuta il compromesso renziano del più flessibilità in cambio di immigrati
L'Italia tiene il punto, rifiuta la logica del baratto (immigrati tutti da noi in cambio di soldi) capovolgendo quanto avevano fatto negli ultimi anni da Renzi in poi, e mette l'Europa di fronte alle proprie responsabilità . Il «no» alle conclusioni del Consiglio europeo era prevedibile. Il governo italiano aveva fatto capire con grande chiarezza ai partner dell'Unione di non essere disposto a cedere sulle richieste sull'immigrazione. «Oggi», aveva detto il premier Giuseppe Conte, «toccheremo con mano se la solidarietà europea esiste o meno. Se dalle parole si vuole passare ai fatti. Questo Consiglio europeo potrà essere uno spartiacque tra un prima e un dopo nell'approccio del fenomeno migratorio. Capiremo se davvero l'Europa vuole gestire in maniera solidale il fenomeno migratorio. Compromessi al ribasso non li accetteremo. L'Italia», aveva aggiunto Conte, «la sua buona volontà l'ha sempre dimostrata. Se questa volta non dovessimo trovare disponibilità da parte degli altri Paesi europei, potremmo chiudere questo Consiglio senza approvare conclusioni condivise».
Giornata convulsa, quella di ieri a Bruxelles. Il premier italiano Giuseppe Conte, al suo arrivo, non esclude la possibilità di un veto italiano sulle conclusioni del vertice in merito all'immigrazione: «È una possibilità che non voglio considerare», dice Conte, «ma se dovessimo arrivare a questo vorrà dire che non ci saranno conclusioni condivise. L'Italia ha elaborato una proposta che riteniamo ragionevole e conforme allo spirito e ai principi su cui è fondata l'Unione Europea», aggiunge Conte, «io stesso negli ultimi incontri ho ricevuto manifestazione di solidarietà adesso aspettiamo che le parole diventino fatti concreti». Da fonti italiane trapela anche che, contrariamente a quanto accaduto con i governi della sinistra, non ci sarà alcun cedimento sull'immigrazione in cambio di un po' di flessibilità sulle questioni di bilancio.
L'intera giornata di febbrili trattative vede l'Italia al centro di ogni discorso. Qualcuno ipotizza che, in cambio di un po' di flessibilità sui conti, il governo possa cedere sull'immigrazione. C'è chi sospetta che la prospettiva del veto sia un bluff. In serata, fonti del governo italiano spazzano il campo da questa illazione: «L'Italia», filtra dalla delegazione, «vuole dall'Europa un segnale chiaro sull'emergenza migranti e l'ipotesi di non approvare il documento conclusivo, se ciò non dovesse accadere, non è un bluff».
Nessun passo indietro e nessun «baratto»: «È importante», riferiscono le fonti del governo italiano in serata, «che ci si ponga anche il problema economico, ma questo tentativo si fa da un po' e noi abbiamo sempre detto che la soluzione non può essere che ci dicano: teneteveli voi, vi diamo i soldi. Non siamo nel 2014». Ha assunto il gusto amaro della provocazione la proposta trapelata dal governo francese in serata, basata anch'essa sulla logica del baratto. La Francia, si è appreso, vuole proporre all'Italia la creazione di «hotspot di nuova generazione, più europei», sul modello di quanto fatto in Grecia dal 2016. Lo fanno sapere fonti dell'Eliseo a margine dei lavori del Consiglio Ue. Su questa proposta, secondo Parigi, «si può avere il finanziamento e l'appoggio europeo». Il governo francese fa trapelare di riconoscere «che l'idea dei centri chiusi sia un punto sensibile» per l'Italia, ma è convinto che il governo Conte potrebbe accettare se questi centri saranno finanziati dall'Ue. Secondo la proposta francese, negli hotspot dovrebbe essere filtrati i richiedenti asilo da ridistribuire tra alcuni paesi europei, e i migranti economici, che dovrebbero essere rimpatriati sempre con i fondi dell'Ue. «Se c'è solidarietà europea rapida e capace di rimpatriare chi non ha diritto all'asilo», aggiungono le fonti francesi, «questa soluzione potrebbe essere accettabile per l'Italia, è esattamente ciò che aveva accettato la Grecia». Un paragone che non ha bisogno di commenti.
Carlo Tarallo
Anche Malta chiude i porti alle Ong. Ma allora si può fare per davvero
Li hanno accusati di essere dei fanatici, degli ideologizzati, gente senza rispetto alcuno per le regole. Loro, per smentire le malelingue, sono approdati a Malta mostrando il dito medio, intonando «siamo tutti antifascisti», per poi attaccare i governi di mezza Europa. Se non ci fossero, quelli di Lifeline bisognerebbe inventarli. Nel loro modo di agire, nelle loro dichiarazioni, persino nel loro aspetto fisico hanno finalmente mostrato il vero volto delle Ong.
Il comandante della Lifeline, Klaus Peter, ieri è stato interrogato di nuovo a Malta, dopo essere finito sotto indagine per aver disobbedito alle indicazioni della Guardia costiera italiana. È libero, ma non ha il permesso di lasciare l'isola. Dovrebbe comunque essere incriminato lunedì per la registrazione della nave, che batte bandiera olandese ma, secondo le autorità dei Paesi Bassi, non sarebbe iscritta nei registri come richiesto dalle norme. Gli altri componenti dell'equipaggio sono tutti liberi e non sono stati denunciati. La nave, invece, resta sequestrata. Nel frattempo, da Berlino, la portavoce dell'Ong, Marie Naass, tuonava contro tutti.
Soprattutto contro la Germania, paradossalmente riecheggiando, nel suo sfogo, alcuni temi cari proprio al governo italiano. «Il comportamento del governo tedesco è scandaloso, anche perché la Germania è fortemente responsabile del fatto che l'Italia sia stata lasciata sola. Non è possibile da un lato bloccare la soluzione europea, come ad esempio sul sistema di Dublino, e dall'altro venire meno alla cooperazione e rifiutare la solidarietà». Berlino ha voltato le spalle a Roma? Sembra di sentire Matteo Salvini. Anche se l'ascia di guerra, nei confronti del ministro italiano, non è certo stata sotterrata: «Le accuse che ci ha rivolto il ministro dell'Interno italiano ci hanno scioccato», ha detto Naass. Aggiungendo, tuttavia, che «è sbagliato chiudere i porti, ma è comprensibile che l'Italia prenda delle misure per disperazione se il resto d'Europa non agisce».
Insomma, alla fine persino all'Ong antifascista è scappato di bocca che l'Italia ha agito in modo «comprensibile». Non è l'unico, né il più importante segnale che il vento sia cambiato. Tutta una serie di luoghi comuni che fine a qualche tempo fa punteggiavano l'intero discorso ufficiale sull'immigrazione stanno velocemente venendo meno. Che le Ong siano pericolose e irresponsabili o che l'immigrazione non sia il nostro destino, fino a qualche tempo fa lo dicevano solo i tanto vituperati «populisti». Oggi lo dicono (quasi) tutti e chi non lo dice comunque si comporta di conseguenza. Basti solo vedere il cambio di passo di Malta, che ieri, con una decisione senza precedenti, ha deciso di chiudere il proprio porto a tutte le navi delle Ong, «finché non sarà fatta chiarezza sulle loro operazioni». In una nota, l'esecutivo maltese ha precisato che «alla luce degli ultimi eventi, Malta deve accertarsi che le operazioni condotte da entità che utilizzano i suoi servizi portuali e operanti nell'area della responsabilità maltese siano conformi alle leggi nazionali e internazionali».
Fino a quando non saranno chiarite le questioni, su cui si sta indagando, con particolare riferimento al caso Lifelive, «Malta non può consentire alle entità, la cui struttura potrebbe essere simile a quella oggetto di indagini, di utilizzare Malta come loro porto di operazioni, e per entrare o uscire dal porto». Una decisione anticipata dalla chiusura dei porti a Proactiva Open Arms, che su Twitter si era lamentata dei divieti apposti alla sua barca da Malta e Italia, anche se «fonti qualificate» hanno riferito all'agenzia Ansa che non ci sarebbe stata alcuna richiesta di entrare nelle acque territoriali o nei porti italiani da parte di Open Arms.
Nel giro di pochi giorni, il governo isolano ha anche negato il rifornimento di carburante all'aereo di Pilotes Volontaires e tenuto fuori dalle sue acque la Aquarius. Una linea dura, culminata nella decisione definitiva di ieri. Va da sé che se vengono meno la sponda maltese e quella italiana, per le Ong la vita si fa dura, durissima. Anche perché, nel frattempo, senza che molti ci abbiano fatto caso, la Libia ha dichiarato ufficialmente una sua zona di Search and Rescue (Sar). La notizia è arrivata ieri dall'Organizzazione marittima internazionale (Imo). Quest'ultima ha comunicato: «Il governo libico adesso ha inserito delle informazioni rilevanti nel Gisis global Sar plan», ovvero la directory relativa al piano Sar globale. E «tra queste vi è anche la definizione di una regione di ricerca e soccorso». Il portavoce della Marina libica, Ayoub Qassem ha già dichiarato che questo aiuterà la Guardia costiera del paese nordafricano a salvare i migranti e allo stesso tempo prevenire l'ingresso di altre organizzazioni. In caso di difficoltà, infatti, un'imbarcazione che passi in queste acque ora dovrà rivolgersi in via preventiva ai libici. Era proprio l'assenza della zona Sar a far sì che i natanti facessero riferimento al centro di coordinamento di Roma. Ora non sarà più così. E se l'espressione è stata ritenuta offensiva per i migranti, almeno per le Ong forse si può finalmente dire che la pacchia è finita.
Adriano Scianca
Il piano di Vienna: Ue a sbarchi zero
Obbiettivo numero uno: «L'arresto dell'immigrazione illegale in Europa». Il governo austriaco, che da domenica guiderà il semestre di presidenza dell'Ue, rompe quello che fino a pochi mesi fa era un tabù: non si tratta più di come accogliere e come distribuire, ma di non accogliere più. L'immigrazione, insomma, non è più una fatalità a cui arrendersi sperando in un vago «arricchimento culturale» futuro. Tutto bene, almeno sul piano delle petizioni di principio.
Che i fatti seguano le parole, come sappiamo, è tutt'altro paio di maniche. Ma intanto il punto è stato fissato. Il governo di Sebastian Kurz presenterà lunedì al Cosi, il Comitato per la sicurezza interna dell'Unione europea, un documento in cui spiegherà le linee direttive che intenderà seguire per affrontare il tema dell'immigrazione. Secondo La Stampa, che ha avuto accesso al paper di 7 pagine, Vienna si dirà ostile a qualsiasi ipotesi di quote di migranti da redistribuire fra i vari Paesi: «In caso di ulteriori crisi migratorie, che purtroppo sono prevedibili», si legge, «la distribuzione dei migranti negli Stati Ue potrebbe portare a un'ulteriore destabilizzazione della situazione». Il che è un bene o un male per l'Italia? Dipende. Il modello seguito finora da Bruxelles era semplice: sì all'accoglienza, non alla redistribuzione. In pratica, l'unica frontiera che era stata abolita nell'Ue era il mar Mediterraneo. Porte girevoli a sud, porte sbarrate a nord. In mezzo, l'Italia a fare da campo profughi per l'Unione.
Il no alla redistribuzione unito al principio anche solo ideale degli ingressi illegali a quota zero, invece, ha tutt'altro senso. Nel documento austriaco, il fenomeno migratorio è criticato senza mezzi termini: «La crisi migratoria», si legge, «ha avuto un impatto negativo sia sulla fiducia delle persone nella sicurezza, sia sulla sicurezza in quanto tale». Gli immigrati, inoltre, «a causa di fattori legati al loro background e alle loro scarse prospettive, hanno problemi a vivere in società libere o addirittura nel rigettarle», quindi «molti di questi sono particolarmente suscettibili alle ideologie ostili alla libertà e/o inclini a rivolgersi al crimine». Toni mai sentiti, nelle stanze dei bottoni europee.
E ancora: «Non sono principalmente i più bisognosi che vengono in Europa, ma soprattutto le persone che possono permettersi di pagare i trafficanti e che si sentono abbastanza forti da intraprendere viaggi pericolosi». Si propone quindi «un cambiamento di paradigma completo nella politica di asilo Ue». Ovvero: va sviluppato un «nuovo e migliore sistema di protezione in base al quale nessuna richiesta di asilo viene presentata sul territorio dell'Ue».
In ogni caso, per le domande comunque da esaminare, «in caso di decisione negativa, la persona deve essere trasferita nel suo Paese di origine oppure - opzione che deve essere esaminata - in un centro di rimpatrio in un Paese terzo». L'idea austriaca è quella di allestire campi in uno Stato extra Ue in cui mandare i migranti espulsi. Per Vienna bisogna «dare priorità alla protezione il più vicino possibile alle regioni in crisi». L'asilo in Europa, infatti, va «concesso solo a coloro che rispettano i valori europei e i diritti e le libertà sostenuti nell'Ue». Insomma, una secchiata di acqua gelata in faccia all'Europa. Che questa riesca poi a svegliarsi, è tutto da vedere.
Fabrizio La Rocca
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Riduci
Niente conferenza stampa per il veto di Roma, che chiede prima un'intesa sugli immigrati: trattative notturne. Emmanuel Macron vuole imporci gli hotspot come in Grecia. Angela Merkel apre a chiunque accetti accordi bilaterali. Il blocco di Visegrad vacilla. È tutto un grande suk.L'Italia rifiuta il compromesso renziano del più flessibilità in cambio di immigrati. L'azzardo del premier sposta gli equilibri, certo dell'appoggio strategico dell'America.La Valletta: «Finché non c'è chiarezza, non entrano». Il comandante della Lifeline verso l'incriminazione. La Libia dichiara la zona Sar: nelle sue acque, i soccorsi spettano solo alla Guardia costiera di Tripoli.Il governo austriaco da domenica guiderà il semestre di presidenza europeo. Per gestire l'emergenza migranti, Sebastian Kurz punta sulla protezione delle frontiere.Lo speciale contiene quattro articoliNessun passo indietro sulle richieste italiane. Il premier Giuseppe Conte ha tenuto il punto fino alla fine sul tema dell'immigrazione. Conte ieri sera ha bloccato l'adozione delle conclusioni della prima parte del vertice europeo di Bruxelles, spiegando che l'Italia intende dare un voto sull'intero documento, compresa la parte dei migranti. La conferenza stampa del presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, e del presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, prevista al termine della prima giornata del vertice di Bruxelles, è stata quindi cancellata perché «uno Stato membro (l'Italia, ndr)», ha fatto sapere il portavoce di Tusk, «ha messo la riserva sull'intero progetto di conclusioni, quindi non c'è stato accordo sulle conclusioni stesse. Il Consiglio europeo ha avuto uno scambio di vedute con il presidente del Parlamento Ue, Antonio Tajani, e il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, nonché discussioni su sicurezza, difesa, lavoro, crescita, competitività, innovazione digitale e allargamento. Visto che uno stato membro ha messo la riserva sull'intero progetto di conclusioni, non ne sono state adottate. Per questo», ha aggiunto il portavoce di Tusk, «la conferenza stampa dei rappresentanti delle istituzioni Ue è stata cancellata e avrà luogo domani (oggi per chi legge, ndr) alla fine dell'Eurosummit». La linea dura era stata annunciata da Conte già al suo arrivo a Bruxelles: «Oggi», aveva detto Conte, «toccheremo con mano se la solidarietà europea esiste o meno. Se dalle parole si vuole passare ai fatti. Questo Consiglio europeo potrà essere uno spartiacque tra un prima e un dopo nell'approccio del fenomeno migratorio». L'Europa è sul punto di implodere: si ipotizzano accordi solo tra alcuni stati membri che fanno risaltare ancora di più la mancanza di una volontà comune di affrontare il problema sollevato, in particolare, dall'Italia. Ciò che manca all'Unione è un governo forte a Berlino, capace di imporre una linea. La cancelliera tedesca Angela Merkel è arrivata a Bruxelles in una condizione di inedita debolezza, stretta in una tenaglia micidiale: da una parte le pressioni del suo ministro degli interni, Horst Seehofer, che chiede che i richiedenti asilo registrati in un altro paese dell'Unione europea e poi arrivati in Germania debbano essere rispediti allo stato di «primo approdo»; dall'altra la volontà di tenere unita l'Europa, per evitare che la linea dura dei paesi del blocco di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), contrari a ogni ipotesi di accogliere immigrati sbarcati in altri Paesi, produca un effetto-domino spostando a destra l'equilibrio politico dell'Unione.Conte incontra Angela Merkel, il bilaterale dura circa mezz'ora. Nessuna indiscrezione sui contenuti, ma la cancelliera tedesca, alcune ore prima, aveva fatto scattare l'allarme rosso: «I Paesi che ricevono molti rifugiati», aveva detto la Merkel, «hanno bisogno di sostegno, ma i rifugiati e i migranti non possono scegliere in quale Paese chiedere asilo». È il segnale che la Merkel non può tirare più di tanto la corda con Seehofer. Per mantenere le redini del governo tedesco, la cancelliera deve portare tornare a Berlino con qualche accordo sui «movimenti secondari» degli immigrati, quelli tra i vari stati dell'Unione. Chi sbarca in Italia , viene registrato in Italia e poi si trasferisce in Germania va rispedito nel Paese di primo approdo: è la linea di Seehofer, uno schiaffo all'Italia. La Merkel si attiva per dare vita a intese con stati «volenterosi» e punta a un accordo con Francia e Spagna. A metà pomeriggio fonti di Parigi fanno trapelare che la Francia è pronta a rafforzare l'accordo franco-tedesco che consente di respingere in uno dei rispettivi Paesi un richiedente asilo, nel caso in cui la cancelliera tedesca dovesse chiederlo. Anche l'Ungheria guidata dal «duro e puro» Viktor Orban, a sorpresa, fa sapere di essere disponibile a intese con Berlino. La Francia provoca l'Italia, proponendo la creazione di hotspot «più moderni» sul nostro territorio, sul modello della Grecia. Il presidente francese, Emmanuel Macron, incontra i leader del gruppo Visegrad, poi tenta di organizzare un bilaterale con Conte, ma non c'è tempo e il vertice salta. Il presidente del parlamento europeo, Antonio Tajani, espone la sua proposta di mediazione: «Ho proposto al Consiglio europeo», dice Tajani, «di investire 6 miliardi di euro per risolvere il problema del corridoio libico». Le residue possibilità di un'intesa che mantenga l'Europa unita sembrano legate alla realizzazione di piattaforme al di fuori dell'Unione dove far attraccare le navi piene di disperati. Le ipotesi sono Marocco, Albania, Tunisia, Libia, Bosnia, Montenegro. La Merkel sottolinea che «dobbiamo prima discuterne con loro, non possiamo decidere da soli. Anche l'accordo con la Turchia», ricorda la cancelliera, «era reciproco». Il ministro degli Esteri del Marocco, Nasser Bourita, dice no: «Il Marocco», spiega Bourita, «respinge e ha sempre respinto questo genere di metodi per gestire la questione dei flussi migratori». Il leader proseguono la discussione a cena, poi una lunga notte di trattative. L'Italia, almeno per il momento, tiene il punto e non accenna ad arretrare di un solo millimetro. Oggi è il giorno della verità.Carlo Tarallo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/conte-ribalta-il-tavolo-dellipocrisia-europea-2582172637.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="litalia-rifiuta-il-compromesso-renziano-del-piu-flessibilita-in-cambio-di-immigrati" data-post-id="2582172637" data-published-at="1765536660" data-use-pagination="False"> L’Italia rifiuta il compromesso renziano del più flessibilità in cambio di immigrati L'Italia tiene il punto, rifiuta la logica del baratto (immigrati tutti da noi in cambio di soldi) capovolgendo quanto avevano fatto negli ultimi anni da Renzi in poi, e mette l'Europa di fronte alle proprie responsabilità . Il «no» alle conclusioni del Consiglio europeo era prevedibile. Il governo italiano aveva fatto capire con grande chiarezza ai partner dell'Unione di non essere disposto a cedere sulle richieste sull'immigrazione. «Oggi», aveva detto il premier Giuseppe Conte, «toccheremo con mano se la solidarietà europea esiste o meno. Se dalle parole si vuole passare ai fatti. Questo Consiglio europeo potrà essere uno spartiacque tra un prima e un dopo nell'approccio del fenomeno migratorio. Capiremo se davvero l'Europa vuole gestire in maniera solidale il fenomeno migratorio. Compromessi al ribasso non li accetteremo. L'Italia», aveva aggiunto Conte, «la sua buona volontà l'ha sempre dimostrata. Se questa volta non dovessimo trovare disponibilità da parte degli altri Paesi europei, potremmo chiudere questo Consiglio senza approvare conclusioni condivise».Giornata convulsa, quella di ieri a Bruxelles. Il premier italiano Giuseppe Conte, al suo arrivo, non esclude la possibilità di un veto italiano sulle conclusioni del vertice in merito all'immigrazione: «È una possibilità che non voglio considerare», dice Conte, «ma se dovessimo arrivare a questo vorrà dire che non ci saranno conclusioni condivise. L'Italia ha elaborato una proposta che riteniamo ragionevole e conforme allo spirito e ai principi su cui è fondata l'Unione Europea», aggiunge Conte, «io stesso negli ultimi incontri ho ricevuto manifestazione di solidarietà adesso aspettiamo che le parole diventino fatti concreti». Da fonti italiane trapela anche che, contrariamente a quanto accaduto con i governi della sinistra, non ci sarà alcun cedimento sull'immigrazione in cambio di un po' di flessibilità sulle questioni di bilancio.L'intera giornata di febbrili trattative vede l'Italia al centro di ogni discorso. Qualcuno ipotizza che, in cambio di un po' di flessibilità sui conti, il governo possa cedere sull'immigrazione. C'è chi sospetta che la prospettiva del veto sia un bluff. In serata, fonti del governo italiano spazzano il campo da questa illazione: «L'Italia», filtra dalla delegazione, «vuole dall'Europa un segnale chiaro sull'emergenza migranti e l'ipotesi di non approvare il documento conclusivo, se ciò non dovesse accadere, non è un bluff».Nessun passo indietro e nessun «baratto»: «È importante», riferiscono le fonti del governo italiano in serata, «che ci si ponga anche il problema economico, ma questo tentativo si fa da un po' e noi abbiamo sempre detto che la soluzione non può essere che ci dicano: teneteveli voi, vi diamo i soldi. Non siamo nel 2014». Ha assunto il gusto amaro della provocazione la proposta trapelata dal governo francese in serata, basata anch'essa sulla logica del baratto. La Francia, si è appreso, vuole proporre all'Italia la creazione di «hotspot di nuova generazione, più europei», sul modello di quanto fatto in Grecia dal 2016. Lo fanno sapere fonti dell'Eliseo a margine dei lavori del Consiglio Ue. Su questa proposta, secondo Parigi, «si può avere il finanziamento e l'appoggio europeo». Il governo francese fa trapelare di riconoscere «che l'idea dei centri chiusi sia un punto sensibile» per l'Italia, ma è convinto che il governo Conte potrebbe accettare se questi centri saranno finanziati dall'Ue. Secondo la proposta francese, negli hotspot dovrebbe essere filtrati i richiedenti asilo da ridistribuire tra alcuni paesi europei, e i migranti economici, che dovrebbero essere rimpatriati sempre con i fondi dell'Ue. «Se c'è solidarietà europea rapida e capace di rimpatriare chi non ha diritto all'asilo», aggiungono le fonti francesi, «questa soluzione potrebbe essere accettabile per l'Italia, è esattamente ciò che aveva accettato la Grecia». Un paragone che non ha bisogno di commenti.Carlo Tarallo <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/conte-ribalta-il-tavolo-dellipocrisia-europea-2582172637.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="anche-malta-chiude-i-porti-alle-ong-ma-allora-si-puo-fare-per-davvero" data-post-id="2582172637" data-published-at="1765536660" data-use-pagination="False"> Anche Malta chiude i porti alle Ong. Ma allora si può fare per davvero Li hanno accusati di essere dei fanatici, degli ideologizzati, gente senza rispetto alcuno per le regole. Loro, per smentire le malelingue, sono approdati a Malta mostrando il dito medio, intonando «siamo tutti antifascisti», per poi attaccare i governi di mezza Europa. Se non ci fossero, quelli di Lifeline bisognerebbe inventarli. Nel loro modo di agire, nelle loro dichiarazioni, persino nel loro aspetto fisico hanno finalmente mostrato il vero volto delle Ong. Il comandante della Lifeline, Klaus Peter, ieri è stato interrogato di nuovo a Malta, dopo essere finito sotto indagine per aver disobbedito alle indicazioni della Guardia costiera italiana. È libero, ma non ha il permesso di lasciare l'isola. Dovrebbe comunque essere incriminato lunedì per la registrazione della nave, che batte bandiera olandese ma, secondo le autorità dei Paesi Bassi, non sarebbe iscritta nei registri come richiesto dalle norme. Gli altri componenti dell'equipaggio sono tutti liberi e non sono stati denunciati. La nave, invece, resta sequestrata. Nel frattempo, da Berlino, la portavoce dell'Ong, Marie Naass, tuonava contro tutti. Soprattutto contro la Germania, paradossalmente riecheggiando, nel suo sfogo, alcuni temi cari proprio al governo italiano. «Il comportamento del governo tedesco è scandaloso, anche perché la Germania è fortemente responsabile del fatto che l'Italia sia stata lasciata sola. Non è possibile da un lato bloccare la soluzione europea, come ad esempio sul sistema di Dublino, e dall'altro venire meno alla cooperazione e rifiutare la solidarietà». Berlino ha voltato le spalle a Roma? Sembra di sentire Matteo Salvini. Anche se l'ascia di guerra, nei confronti del ministro italiano, non è certo stata sotterrata: «Le accuse che ci ha rivolto il ministro dell'Interno italiano ci hanno scioccato», ha detto Naass. Aggiungendo, tuttavia, che «è sbagliato chiudere i porti, ma è comprensibile che l'Italia prenda delle misure per disperazione se il resto d'Europa non agisce». Insomma, alla fine persino all'Ong antifascista è scappato di bocca che l'Italia ha agito in modo «comprensibile». Non è l'unico, né il più importante segnale che il vento sia cambiato. Tutta una serie di luoghi comuni che fine a qualche tempo fa punteggiavano l'intero discorso ufficiale sull'immigrazione stanno velocemente venendo meno. Che le Ong siano pericolose e irresponsabili o che l'immigrazione non sia il nostro destino, fino a qualche tempo fa lo dicevano solo i tanto vituperati «populisti». Oggi lo dicono (quasi) tutti e chi non lo dice comunque si comporta di conseguenza. Basti solo vedere il cambio di passo di Malta, che ieri, con una decisione senza precedenti, ha deciso di chiudere il proprio porto a tutte le navi delle Ong, «finché non sarà fatta chiarezza sulle loro operazioni». In una nota, l'esecutivo maltese ha precisato che «alla luce degli ultimi eventi, Malta deve accertarsi che le operazioni condotte da entità che utilizzano i suoi servizi portuali e operanti nell'area della responsabilità maltese siano conformi alle leggi nazionali e internazionali». Fino a quando non saranno chiarite le questioni, su cui si sta indagando, con particolare riferimento al caso Lifelive, «Malta non può consentire alle entità, la cui struttura potrebbe essere simile a quella oggetto di indagini, di utilizzare Malta come loro porto di operazioni, e per entrare o uscire dal porto». Una decisione anticipata dalla chiusura dei porti a Proactiva Open Arms, che su Twitter si era lamentata dei divieti apposti alla sua barca da Malta e Italia, anche se «fonti qualificate» hanno riferito all'agenzia Ansa che non ci sarebbe stata alcuna richiesta di entrare nelle acque territoriali o nei porti italiani da parte di Open Arms. Nel giro di pochi giorni, il governo isolano ha anche negato il rifornimento di carburante all'aereo di Pilotes Volontaires e tenuto fuori dalle sue acque la Aquarius. Una linea dura, culminata nella decisione definitiva di ieri. Va da sé che se vengono meno la sponda maltese e quella italiana, per le Ong la vita si fa dura, durissima. Anche perché, nel frattempo, senza che molti ci abbiano fatto caso, la Libia ha dichiarato ufficialmente una sua zona di Search and Rescue (Sar). La notizia è arrivata ieri dall'Organizzazione marittima internazionale (Imo). Quest'ultima ha comunicato: «Il governo libico adesso ha inserito delle informazioni rilevanti nel Gisis global Sar plan», ovvero la directory relativa al piano Sar globale. E «tra queste vi è anche la definizione di una regione di ricerca e soccorso». Il portavoce della Marina libica, Ayoub Qassem ha già dichiarato che questo aiuterà la Guardia costiera del paese nordafricano a salvare i migranti e allo stesso tempo prevenire l'ingresso di altre organizzazioni. In caso di difficoltà, infatti, un'imbarcazione che passi in queste acque ora dovrà rivolgersi in via preventiva ai libici. Era proprio l'assenza della zona Sar a far sì che i natanti facessero riferimento al centro di coordinamento di Roma. Ora non sarà più così. E se l'espressione è stata ritenuta offensiva per i migranti, almeno per le Ong forse si può finalmente dire che la pacchia è finita. Adriano Scianca <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/conte-ribalta-il-tavolo-dellipocrisia-europea-2582172637.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="il-piano-di-vienna-ue-a-sbarchi-zero" data-post-id="2582172637" data-published-at="1765536660" data-use-pagination="False"> Il piano di Vienna: Ue a sbarchi zero Obbiettivo numero uno: «L'arresto dell'immigrazione illegale in Europa». Il governo austriaco, che da domenica guiderà il semestre di presidenza dell'Ue, rompe quello che fino a pochi mesi fa era un tabù: non si tratta più di come accogliere e come distribuire, ma di non accogliere più. L'immigrazione, insomma, non è più una fatalità a cui arrendersi sperando in un vago «arricchimento culturale» futuro. Tutto bene, almeno sul piano delle petizioni di principio. Che i fatti seguano le parole, come sappiamo, è tutt'altro paio di maniche. Ma intanto il punto è stato fissato. Il governo di Sebastian Kurz presenterà lunedì al Cosi, il Comitato per la sicurezza interna dell'Unione europea, un documento in cui spiegherà le linee direttive che intenderà seguire per affrontare il tema dell'immigrazione. Secondo La Stampa, che ha avuto accesso al paper di 7 pagine, Vienna si dirà ostile a qualsiasi ipotesi di quote di migranti da redistribuire fra i vari Paesi: «In caso di ulteriori crisi migratorie, che purtroppo sono prevedibili», si legge, «la distribuzione dei migranti negli Stati Ue potrebbe portare a un'ulteriore destabilizzazione della situazione». Il che è un bene o un male per l'Italia? Dipende. Il modello seguito finora da Bruxelles era semplice: sì all'accoglienza, non alla redistribuzione. In pratica, l'unica frontiera che era stata abolita nell'Ue era il mar Mediterraneo. Porte girevoli a sud, porte sbarrate a nord. In mezzo, l'Italia a fare da campo profughi per l'Unione. Il no alla redistribuzione unito al principio anche solo ideale degli ingressi illegali a quota zero, invece, ha tutt'altro senso. Nel documento austriaco, il fenomeno migratorio è criticato senza mezzi termini: «La crisi migratoria», si legge, «ha avuto un impatto negativo sia sulla fiducia delle persone nella sicurezza, sia sulla sicurezza in quanto tale». Gli immigrati, inoltre, «a causa di fattori legati al loro background e alle loro scarse prospettive, hanno problemi a vivere in società libere o addirittura nel rigettarle», quindi «molti di questi sono particolarmente suscettibili alle ideologie ostili alla libertà e/o inclini a rivolgersi al crimine». Toni mai sentiti, nelle stanze dei bottoni europee. E ancora: «Non sono principalmente i più bisognosi che vengono in Europa, ma soprattutto le persone che possono permettersi di pagare i trafficanti e che si sentono abbastanza forti da intraprendere viaggi pericolosi». Si propone quindi «un cambiamento di paradigma completo nella politica di asilo Ue». Ovvero: va sviluppato un «nuovo e migliore sistema di protezione in base al quale nessuna richiesta di asilo viene presentata sul territorio dell'Ue». In ogni caso, per le domande comunque da esaminare, «in caso di decisione negativa, la persona deve essere trasferita nel suo Paese di origine oppure - opzione che deve essere esaminata - in un centro di rimpatrio in un Paese terzo». L'idea austriaca è quella di allestire campi in uno Stato extra Ue in cui mandare i migranti espulsi. Per Vienna bisogna «dare priorità alla protezione il più vicino possibile alle regioni in crisi». L'asilo in Europa, infatti, va «concesso solo a coloro che rispettano i valori europei e i diritti e le libertà sostenuti nell'Ue». Insomma, una secchiata di acqua gelata in faccia all'Europa. Che questa riesca poi a svegliarsi, è tutto da vedere. Fabrizio La Rocca
Il primo ministro bulgaro Rosen Zhelyazkov (Ansa)
Il governo svolgerà le sue funzioni fino all’elezione del nuovo consiglio dei ministri. «Sentiamo la voce dei cittadini che protestano […] Giovani e anziani, persone di diverse etnie, di diverse religioni, hanno votato per le dimissioni», ha dichiarato Zhelyazkov. Anche gli studenti si erano uniti nell’ultima protesta antigovernativa di mercoledì, a Sofia e in altre città bulgare, contro la proposta di bilancio del governo per il 2026, la prima in euro. La prima proposta senza il coordinamento con le parti sociali e la prima a prevedere un aumento delle tasse e dei contributi previdenziali.
All’insegna del motto «Non ci lasceremo ingannare. Non ci lasceremo derubare», migliaia di dimostranti «portavano lanterne come segno simbolico per mettere in luce la mafia e la corruzione nel Paese», riferiva l’emittente nazionale Bnt. Chiedevano le dimissioni dell’oligarca Delyan Peevski e dell’ex primo ministro Boyko Borissov, sanzionato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito per presunta corruzione. Borissov mercoledì avrebbe dichiarato che i partiti della coalizione avevano concordato di rimanere al potere fino all’adesione della Bulgaria all’eurozona, il prossimo 1° gennaio.
Secondo Zhelyazkov, si trattava di una protesta «per i valori e il comportamento» e ha dichiarato che il governo è nato da una complessa coalizione tra partiti (i socialisti del Bsp e i populisti di Itn), diversi per natura politica, storia ed essenza, «ma uniti attorno all’obiettivo e al desiderio che la Bulgaria prosegua il suo percorso di sviluppo europeo». Mario Bikarski, analista senior per l’Europa presso la società di intelligence sui rischi Verisk Maplecroft, aveva affermato che le turbolenze politiche e il ritardo nel bilancio «creeranno incertezza finanziaria a partire da gennaio».
La sfiducia nel governo in realtà ha radici anche nel diffuso malcontento per l’entrata del Paese nell’eurozona, ottenuta a giugno dopo ripetuti ritardi dovuti all’instabilità politica e al mancato raggiungimento degli obiettivi di inflazione richiesti. Secondo i risultati di un sondaggio dell’Eurobarometro, i cui risultati sono stati pubblicati l’11 dicembre, il 49% dei bulgari è contrario all’euro, il 42% è favorevole e il 9% è indeciso. Guarda caso, la maggioranza degli intervistati in cinque Stati membri non appartenenti all’area dell’euro è contraria all'euro: Repubblica Ceca (67%), Danimarca (62%), Svezia (57%), Polonia (51%) e appunto Bulgaria.
Quasi la metà dei bulgari teme la perdita della sovranità nazionale, è contro la moneta unica e rimane affezionata alla propria moneta, al lev, che secondo Bloomberg rappresenta «un simbolo di stabilità» dopo la grave crisi economica di fine anni Novanta.
Se la Commissione europea ha ripetutamente messo in guardia contro le carenze dello stato di diritto in Bulgaria, affermando a luglio che il livello di indipendenza giudiziaria in quel Paese era «molto basso» e la strategia anticorruzione «limitata»; se per Transparency International è tra Paesi europei con il più alto tasso di percezione della corruzione ufficiale da parte dell’opinione pubblica, resta il fatto che i bulgari non scalpitano per entrare nell’eurozona.
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Ppalazzo Berlaymont (Getty Images)
In base allo schema ipotizzato, per quanto se ne può sapere, Bruxelles convoglierebbe le attività immobilizzate della Banca centrale russa in una linea di credito a tasso zero per l’Ucraina. L’Ue intenderebbe coprire 90 miliardi di euro del deficit di finanziamento dell’Ucraina, che è di 135 miliardi di euro, per i prossimi due anni attingendo a queste attività. A Kiev verrebbe chiesto di rimborsare il prestito solo dopo che Mosca avrà accettato di risarcire i danni causati dalla sua aggressione. Cosa che non avverrà mai. La proposta non ha precedenti nella storia moderna e solleva enormi dubbi e alcune contrarietà su aspetti di grande rilevanza.
Innanzitutto, sul tema delicato della compensazione monetaria destinata a coprire i danni o le perdite subite durante una guerra. Da che mondo è mondo, dalle imposizioni di Roma verso Cartagine dopo la prima e seconda guerra punica, alla guerra franco- prussiana fino a giungere alla Prima e Seconda guerra mondiale, sono sempre stati coloro che hanno perso le guerre che hanno dovuto pagare i debiti, e non il contrario. L’Ue su questa materia capovolge la storia.
In secondo luogo ci sono potenziali implicazioni economiche e strategiche: l’utilizzo degli asset sovrani russi per emettere il prestito di riparazione potrebbe avere effetti «a catena» in tutta l’Eurozona e provocare un esodo di investitori preoccupati da decisioni unilaterali delle autorità in futuro. Ma il punto dirimente e controverso in questo dibattito riguarda non tanto la già avvenuta immobilizzazione degli stessi, bensì l’effettiva possibilità di una confisca permanente. Nel caso degli asset di soggetti «riconducibili» al Cremlino (si pensi ad esempio agli oligarchi) inoltre, le confische rischierebbero di collidere col rispetto dei diritti di godimento di proprietà facenti parte della cornice dei diritti umani. Ancor più complicata è la confisca permanente di asset di diretta proprietà di uno Stato estero, che sono protetti dall’immunità e dal diritto internazionale. Inoltre, una delle più intuitive conseguenze di una confisca da parte dei Paesi europei sarebbe la sicura ritorsione russa. Il Cremlino ha infatti fatto sapere di avere pronta una lista di asset occidentali da aggredire a tal fine. A ogni modo, gli investimenti in Russia e riserve in rublo differiscono significativamente da Paese a Paese, e a essere particolarmente esposti sono proprio i paesi dell’Unione europea. Più che a livello di riserve delle varie banche centrali dei singoli Stati o della stessa Bce, una forte vulnerabilità risiede negli investimenti europei su suolo russo. Stando a fonti russe, su 288 miliardi di dollari la quota di asset degli Stati europei vale oltre 220 miliardi, ossia più del 75%.
Bisogna aggiungere anche che a preoccupare molti Paesi sarebbero anche le possibili conseguenze che una confisca così audace economicamente e «legalmente» avrebbe sulla stabilità dell’euro. Dando vita ad un importante precedente reputazionale, l’esproprio degli asset russi rischierebbe infatti di spingere molte banche centrali di vari Paesi stranieri a ridurre le loro riserve in euro come misura cautelare, indebolendo così la valuta dell’eurozona. È in parte un meccanismo già avviato non solo dalla Russia stessa, ma anche da paesi come Turchia o Cina, che da qualche anno stanno via via sganciandosi da valute come il dollaro e l’euro. Del resto chi si fiderebbe più dell’Europa se basta una decisione politica per sottrarre risorse finanziarie di proprietà di soggetti economici e di Stati esteri che hanno investito nel Vecchio continente? Deve averlo compreso bene la stessa Bce, condividendo le preoccupazioni emerse da più parti se ha deciso di rifiutare di fornire garanzie per il prestito di circa 140 miliardi di euro all’Ucraina, non solo perché la proposta della Commissione europea viola il suo mandato, ma si presume anche per le debolezze politiche e legali di una simile iniziativa.
Infine, una annotazione generale. Questa idea della Commissione europea fa, per così dire, uno scempio del concetto di libero mercato, introducendo una idea di capitalismo politico che si avvicina molto al cosiddetto capitalismo di Stato. Un capitalismo che si addice molto alle autocrazie che Bruxelles vorrebbe combattere. Davvero una gran bella pensata. Se invece di rischiare di pagare conseguenze che ricadrebbero sui cittadini europei, utilizzassero quel poco di sale in zucca rimasto per favorire un negoziato di pace ricostruirebbero un po’ di quella credibilità che allo stato attuale sembra decisamente smarrita.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Nella visione del segretario generale della Nato, gli europei saranno «il prossimo obiettivo di Mosca» entro cinque anni. Ma non solo, il conflitto potrebbe addirittura essere «della stessa portata della guerra che hanno dovuto sopportare i nostri nonni e bisnonni». E su queste basi vaghe ha quindi esortato gli alleati ad aumentare gli sforzi di Difesa per scongiurare il temuto conflitto. Poco importa quindi a Rutte se Mosca ha confermato pure ieri che non nutre «alcun piano aggressivo nei confronti dei membri della Nato o dell’Ue». Nella conferenza stampa, a fianco del cancelliere tedesco, Friedrich Merz, il segretario generale della Nato ha poi tirato le orecchie ai Paesi della Nato, colpevoli di non prendere sul serio «la minaccia russa» e di essere «silenziosamente compiacenti».
Ma chi non prende sul serio gli avvertimenti è Bruxelles in merito agli asset russi: il Comitato dei rappresentanti permanenti presso l’Ue (Coreper) ha raggiunto un accordo sulla visione rivista della proposta inerente all’articolo 122 del Trattato Ue. E ha dato il via libera alla procedura scritta che si concluderà entro le 17 di oggi. Qualora arrivasse il voto favorevole, il blocco degli asset russi sarà quindi a tempo indeterminato. Si completa così il primo step per far sì che siano utilizzati i beni russi congelati a sostegno Kiev, in vista del Consiglio Ue della prossima settimana. A commentare il risultato è stato il commissario europeo all’Economia, Valdis Dombrovskis: «È stato approvato in linea di principio un regolamento che proibisce il trasferimento» degli asset russi congelati. E ha quindi spiegato che il regolamento «dovrebbe aiutare con il prestito basato sugli asset russi» visto che «assicura che restino congelati», senza il bisogno di rinnovare il blocco all’unanimità ogni sei mesi. Anche il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, è intervenuta in merito dicendo: «Domani (oggi, ndr) spero che sia compiuto il prima passo per l’uso degli asset russi, metterli al sicuro, poi la decisione su come usarli sarà presa al Consiglio Europeo la prossima settimana, in un voto a maggioranza qualificata». A non condividere la linea di Bruxelles sono sicuramente la Slovacchia e l’Ungheria. Il premier slovacco, Robert Fico, ha già scritto al presidente del Consiglio europeo, António Costa: «Vorrei affermare che, in occasione del prossimo Consiglio europeo, non sono in grado di sostenere alcuna soluzione alle esigenze finanziarie dell’Ucraina che preveda la copertura delle spese militari dell’Ucraina per i prossimi anni». Continuando a mettere i puntini sulle i, ha sottolineato: «La politica di pace che sostengo con coerenza mi impedisce di votare a favore del prolungamento del conflitto militare: fornire decine di miliardi di euro per le spese militari significa prolungare la guerra». «Profonda preoccupazione» è stata espressa da Budapest per «la recente tendenza» ad «aggirare le procedure di decisione all’unanimità». Anche perché l’articolo 122 non è «la base giuridica corretta» per bloccare senza scadenza gli asset russi.
Sul fronte delle trattative di pace il tempo stringe. E dopo che Kiev ha inviato la sua versione del piano a Washington, ieri pomeriggio la Coalizione dei volenterosi si è riunita virtualmente. Tra i leader che hanno preso parte, il presidente ucraino, Volodymyr Zelenskyy, il premier britannico, Keir Starmer, il presidente francese, Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco, Friedrich Merz. Al termine del meeting, il leader di Kiev ha dichiarato: «Stiamo lavorando per assicurare che le garanzie di sicurezza includano componenti serie di deterrenza europea e siano affidabili». E ha avvisato pure Washington: «È importante che gli Stati Uniti siano con noi e sostengano questi sforzi. Nessuno è interessato a una terza invasione russa». Von der Leyen ha ripetuto che «l’obiettivo è raggiungere una pace giusta e sostenibile per l’Ucraina». Le iniziative europee, in ogni caso, per Mosca non sono efficaci. Il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, ha infatti commentato: «L’Europa sta cercando in tutti i modi di sedersi al tavolo delle trattative, ma le idee che coltiva non saranno utili ai negoziati». E ha lanciato un avvertimento già noto ai leader europei: qualora venissero schierate le forze di peacekeeping in Ucraina saranno considerate «immediatamente» gli «obiettivi legittimi» di Mosca.
L’agenda dei negoziati intanto prosegue: domani è previsto un incontro a Parigi tra i funzionari ucraini, americani, francesi, tedeschi e britannici per tentare di raggiungere un consenso sul piano di pace. Secondo quanto riferito da Axios, a rappresentare i leader europei e l’Ucraina saranno i rispettivi consiglieri per la sicurezza nazionale, ma non è ancora chiaro se per gli Stati Uniti parteciperà il segretario di Stato americano, Marco Rubio.
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
«Al momento, ci sono tre documenti: i 20 punti fondamentali, le garanzie di sicurezza e il documento sull’economia e la ricostruzione», ha proseguito il funzionario. Sempre ieri, Volodymyr Zelensky ha avuto un colloquio, da lui stesso definito «costruttivo e approfondito», sulle garanzie di sicurezza con alcuni alti funzionari americani: il segretario di Stato, Marco Rubio, il capo del Pentagono, Pete Hegseth, e l’inviato per il Medio Oriente, Steve Witkoff.
Nel frattempo, le relazioni transatlantiche si stanno facendo sempre più tese. Mercoledì sera, Donald Trump ha commentato aspramente la telefonata che, alcune ore prima, aveva avuto con Keir Starmer, Friedrich Merz ed Emmanuel Macron.
«Abbiamo parlato con i leader di Francia, Germania e Regno Unito, tutti ottimi leader, miei cari amici. E abbiamo discusso dell’Ucraina con parole piuttosto forti. E vedremo cosa succede. Voglio dire, stiamo aspettando di sentire le risposte», ha dichiarato il presidente americano, che ha anche rivelato di essere stato invitato a un incontro in Europa, dedicato alla questione delle garanzie di sicurezza. «Prima di andare a un incontro, vogliamo sapere alcune cose», ha affermato, per poi aggiungere: «Vorrebbero che andassimo a un incontro nel fine settimana in Europa, e prenderemo una decisione, a seconda di cosa ci diranno. Non vogliamo perdere tempo». In tal senso, la Casa Bianca ha fatto sapere che Trump non ha ancora deciso se mandare o meno un rappresentante al vertice di Parigi in programma sabato.
È in questo quadro che, ieri, Merz ha chiesto agli Stati Uniti di partecipare a un meeting che dovrebbe tenersi all’inizio della prossima settimana a Berlino. Il cancelliere tedesco ha inoltre sottolineato che il principale nodo sul tavolo risiede in «quali concessioni territoriali l’Ucraina è disposta a fare». Lunedì scorso, Zelensky aveva escluso delle cessioni di territorio, ribadendo una linea in netto contrasto con quella della Casa Bianca che, ormai da tempo, sta cercando di convincere il presidente ucraino a rinunciare al Donbass. A tal proposito, ieri Zelensky ha confermato che le questioni territoriali (soprattutto quelle del Donetsk e di Zaporizhia) sono ancora «in discussione» e che, secondo lui, dovrebbero essere decise tramite «elezioni o referendum. Deve esserci una posizione del popolo ucraino». Ha inoltre aggiunto che gli Usa vorrebbero creare una «zona economica libera» nell’area di Donbass che Kiev, stando ai desiderata della Casa Bianca, dovrebbe eventualmente abbandonare. Infine, secondo il leader ucraino, Washington ritiene che un cessate il fuoco totale sia possibile solo a seguito della firma di un accordo quadro. Ricordiamo che, negli scorsi giorni, Trump si era detto «deluso» da Zelensky, accusando inoltre i leader europei di debolezza. A complicare ulteriormente le relazioni transatlantiche ci si è poi messo Macron che, la scorsa settimana, si è recato in Cina, tentando maldestramente di avviare un processo di pace alternativo a quello condotto da Washington.
Mosca, dal canto suo, ha invece espresso sintonia con la Casa Bianca. «Di recente, quando il rappresentante speciale del presidente Trump, Stephen Witkoff, è stato qui, dopo il suo incontro con Vladimir Putin, entrambe le parti, russa e americana, hanno confermato le intese reciproche raggiunte in Alaska», ha dichiarato ieri il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. «L’essenza di queste intese è che l’Ucraina deve tornare ai fondamenti non allineati, neutrali e non nucleari del suo Stato», ha aggiunto. «Dobbiamo dare il giusto riconoscimento al leader americano: dopo il suo ritorno alla Casa Bianca, ha affrontato seriamente la questione. A nostro avviso, si sta impegnando sinceramente per contribuire a risolvere il conflitto attraverso mezzi politici e diplomatici», ha proseguito. Non solo. Sempre ieri, Mosca ha mostrato apprezzamento verso l’eventualità, rivelata dal Wall Street Journal, che, nel quadro di un potenziale accordo di pace, Washington possa effettuare investimenti in energia russa. «Siamo interessati a un afflusso di investimenti esteri», ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov. Ciò detto, ieri la Casa Bianca ha detto che il presidente americano è «estremamente frustrato» tanto da Kiev quanto da Mosca.
Trump punta a chiudere la crisi ucraina per sganciare Mosca da Pechino, facendo leva su economia e commercio. Vladimir Putin, dal canto suo, ha bisogno della Casa Bianca per cercare di riacquisire influenza in Medio Oriente: lo zar vuole infatti recuperare terreno in Siria e ritagliarsi il ruolo di mediatore tra Washington e Teheran sul nucleare. Ebbene, davanti ai significativi interessi che stanno alla base del riavvicinamento tra Usa e Russia, gli europei fanno fatica a ritagliarsi un ruolo diplomatico, oltreché geopolitico, di peso.
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