2020-07-19
Conte in panne ammette lo stallo. Verso tagli ai sussidi per 155 miliardi
Giuseppe Conte e Ursula von der Leyen (Ansa)
Il premier confessa: «Situazione più difficile del previsto». Poi arriva la controproposta dei Paesi frugali. Vincoli soffocanti: ogni Stato avrebbe il diritto di bocciare le politiche interne altrui. Trattativa nella notte.Tutti ne hanno sparata una diversa: dai 1.000 miliardi di aiuti annunciati da Parigi, fino a somme sempre più basse. L'unica certezza è che non si è ancora visto niente.Lo speciale contiene due articoli.Mentre questo giornale va in stampa, si prepara un'altra lunga notte a Bruxelles. Intanto ieri, per diverse ore, c'è chi ha provato a presentare una doccia fredda, anzi gelida, come un bagno caldo per l'Italia: ma, purtroppo, la differenza tra le due cose resta abissale. Ieri di buon mattino, dopo il nulla di fatto del giorno prima e dopo una nottata di contatti (senza l'olandese Mark Rutte), la giornata a Bruxelles è ripresa con un pre vertice a sette. Presenti il presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel, Ursula von der Leyen, Angela Merkel, Emmanuel Macron, Pedro Sánchez, Giuseppe Conte e stavolta anche Rutte. Ed è lì che è arrivata la doccia fredda, quando Michel, per tentare di sbloccare la situazione, ha proposto un altro pacchetto, concepito nella direzione pro frugali. Altro che mediazione. Ecco i tre punti qualificanti: più rebates (cioè più sconti, più rimborsi rispetto al prossimo bilancio pluriennale europeo a favore di svariati Paesi del Nord); taglio di 50 miliardi della parte di Recovery fund da destinare ai sussidi (quindi la porzione più vantaggiosa è scesa da 500 a 450 miliardi, facendo salire i prestiti da 250 a 300: ad aprile si parlava di un pacchetto da 1.500 miliardi complessivi…); e soprattutto (la parte più umiliante per noi), un «emergency brake», un superfreno d'emergenza molto somigliante al diritto di veto invocato il giorno prima dall'Olanda. In questo scenario, non solo il Consiglio europeo dovrebbe approvare i singoli Recovery plan nazionali (una sorta di correzione preliminare del compito in classe, per usare un linguaggio scolastico), ma poi vi sarebbe anche un monitoraggio sull'attuazione dei piani nazionali da parte della Commissione (idea - questa - accettata da tutti), e soprattutto (ecco invece il punto più grave) anche un singolo Paese potrebbe contestare una misura adottata da un altro Paese, bloccando l'erogazione dei fondi e imponendo una pronuncia da parte del Consiglio (con necessaria unanimità). Il film è fin troppo facile da immaginare, e potrebbe solo aggravarsi con l'avvicinarsi della campagna elettorale in Olanda (o in un altro Paese nordico). L'Italia conferma l'esperimento di quota 100? L'olandese porta tutti dal preside, per restare alla metafora scolastica. L'Italia decide un abbassamento di tasse? Stessa storia. L'Italia assume degli insegnanti? Altro contenzioso europeo. Di tutta evidenza, cioè, si finirebbe per sottoporre ogni scelta economica rilevante alla contestazione politica di un altro Paese, e in ultima analisi alla decisione (politica, e dunque discrezionale, degli altri 26 partner europei). Un vero e proprio commissariamento, oltre che la negazione di qualunque strategia di lungo periodo di politica economica nazionale, visto che chiunque in Ue potrebbe mettere i bastoni tra le ruote. Ovvia la soddisfazione dal fronte olandese: «Un passo nella direzione giusta». In quegli stessi minuti, pure gli spifferi fatti circolare dall'entourage di Giuseppe Conte hanno dato più che altro il senso di un possibile cedimento italiano, malamente mascherato da qualche dichiarazione roboante (ma vaga) sul fisco olandese: «L'Italia ha deciso di affrontare un percorso di riforme che le consentano di correre ma pretenderà una seria politica fiscale comune, in modo da affrontare una volta per tutte surplus commerciali e dumping fiscali». Poi, però, alla domanda di controprova, quando si è chiesto alle fonti che avevano diffuso questa dichiarazione se Conte avesse inteso respingere la proposta di Charles Michel, la risposta è stata che il premier italiano aveva fatto un «discorso ampio». Come dire: nessuna bocciatura del testo del belga. Nel tardo pomeriggio, Conte ha diffuso un video, ammettendo i problemi: «Siamo in una fase di stallo: si sta rivelando molto complicato, più complicato del previsto. Sono tante questioni su cui stiamo ancora discutendo che non riusciamo a sciogliere». E poi: «Ci stiamo confrontando duramente con l'Olanda e gli altri Paesi cosiddetti frugali, che mettono in discussione sia i sussidi che i prestiti. Poi ci sono aspetti procedurali sull'attuazione del programma. Dobbiamo trovare una sintesi, ma i provvedimenti che approviamo devono essere adeguati ed efficaci».La realtà è che nel teatro europeo, comprensibilmente, ciascuno difende con le unghie e con i denti il proprio interesse nazionale. E ogni leader - ciò che più conta - pensa ai propri elettori. Si pensi al caso olandese, dove ben quattro figure (il macronista Rutte, il democristiano ministro delle Finanze Wopke Hoekstra, più dall'opposizione il sovranista Geert Wilders e il conservatore Thierry Baudet) gareggiano a chi è più rigorista verso i Paesi mediterranei. Soltanto in Italia, da anni, ci si racconta la favola di un'Ue come un giardino d'infanzia dove tutti si vogliono bene. In ogni caso, la trattativa è proseguita e solo nelle prossime ore ne capiremo l'esito, anche perché i frugali - scandinavi più Austria in testa - sono tornati a chiedere una ancora più forte riduzione dei sussidi: sarebbe arrivato un documento comune in cui viene chiesto di tagliare i sussidi di 155 miliardi. E Michel sarebbe al lavoro su un nuovo documento. Un'altra lunga notte densa di incognite. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/conte-in-panne-ammette-lo-stallo-verso-tagli-ai-sussidi-per-155-miliardi-2646433976.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="un-balletto-di-cifre-che-copre-il-vuoto" data-post-id="2646433976" data-published-at="1595115314" data-use-pagination="False"> Un balletto di cifre che copre il vuoto Parole, parole, parole. Se dovessimo descrivere la risposta dell'Unione europea alla pandemia basterebbero questi tre termini. E tanta, anzi troppa lentezza. Nel corso dei primi mesi di emergenza, da febbraio a maggio, dal punto di vista pratico la Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen si è concentrata principalmente sui rimpatri dei cittadini Ue dalle zone più colpite dalla pandemia, oltre che sul tentativo di garantire l'approvvigionamento dei dispositivi di protezione. Ancora a fine febbraio, Bruxelles annunciava la creazione di un pacchetto di aiuti internazionali, a favore dell'Oms, pari ad appena 232 milioni di euro. Bisognerà attendere fino al 20 marzo per imbattersi nei primi atti concreti. È in quella data, infatti, che la Commissione propone ufficialmente l'attivazione della clausola generale di salvaguardia, che di fatto sospende il Patto di stabilità e crescita. Solo 20 giorni dopo, l'8 aprile, la von der Leyen annuncia la risposta globale dell'Ue alla pandemia, «finalizzata a gestire la crisi sanitaria immediata e a soddisfare le esigenze umanitarie che ne derivano». Dal punto di vista finanziario, le risorse messe in campo - pari a 15,6 miliardi di euro - risultano ancora decisamente insufficienti. Passa una settimana e, il 14 aprile, Bruxelles sblocca 2,7 miliardi tramite lo strumento di sostegno per l'emergenza dell'Ue. Nel frattempo, Eurogruppo e Consiglio rimangono impantanati per svariate settimane sulle misure da attuare. «Faremo tutto il necessario, e anche di più, per ripristinare la fiducia e sostenere una ripresa rapida», dichiarava il 16 marzo Mário Centeno, presidente della riunione dei ministri dell'Economia dell'Eurozona. Passa altro tempo, ma i leader non riescono a mettersi d'accordo. Si litiga soprattutto sugli eurobond, i titoli di Stato comuni che dovrebbero finalmente aprire la porta alla condivisione del debito. A seguito delle concitate riunioni esplorative dei primi di aprile, gli Eurobond lasciano la strada al Meccanismo europeo di stabilità «light» (cioè senza condizionalità, almeno sulla carta), che consta di prestiti fino al 2% del Pil da utilizzarsi solo per spese sanitarie. Uno strumento che, per timore dello stigma dei mercati, ancora nessun Paese - eccetto Cipro - ha dichiarato di voler utilizzare. Contestualmente, fa capolino con sempre maggiore insistenza la volontà di attivare il Recovery fund, un massiccio piano per sostenere la ripresa. Siamo allo spartiacque della risposta europea. A margine dell'Eurogruppo del 9 aprile, il ministro francese Bruno Le Maire parlava di «un piano del valore complessivo di 1.000 miliardi per far fronte all'emergenza coronavirus». Quando però il 18 maggio Emmanuel Macron e Angela Merkel annunciano l'iniziativa francotedesca, i miliardi per la ripresa sono diventati 500, dunque la metà di quanto annunciato da Le Maire. Passano dieci giorni, e la Commissione vara il progetto Next generation, di fatto un ampliamento del budget Ue pari a 750 miliardi di euro. E arriviamo così ai giorni nostri, durante i quali si discutono ancora forma e sostanza del Recovery fund. La propaganda di Bruxelles parla di complessivi 2.364 miliardi, ma in questa cifra è inclusa la quota di budget Ue (1.074 miliardi) ancora da negoziare, e le reti di protezione del lavoro (540 miliardi). La prima proposta del presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, prevedeva 500 miliardi di sovvenzioni e 250 di prestiti. Ma, complice l'opposizione dei Paesi «frugali», la «negobox» di Michel sarebbero stata rivoluzionata, facendo salire i prestiti a 450 miliardi e, d'altro canto, diminuire i sussidi a 300 miliardi. Una sola cosa è certa in questo balletto di cifre: sono passati quasi sei mesi - era il 30 gennaio - da quando l'Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato l'allarme a livello globale, ma ancora nelle casse degli Stati dell'Ue non si è visto un euro.