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2021-07-02
Conte fa la corte a Fico e Di Maio. Giggino va a trovarlo e si inabissa
Luigi Di Maio (Ansa)
Tu quoque, Luigi, figlio mio! Il venticello del sospetto fa presto a diventare bufera: «Luigi è andato a trattare con Conte per assicurarsi un ruolo di primo piano nel nuovo partito, e per garantire i suoi fedelissimi». Sono passati pochi minuti dalla fine del summit tra Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, che si è svolto ieri mattina a Roma, presso l'abitazione dell'ex premier, quando dai capannelli dei parlamentari del M5s si diffonde la più velenosa delle ipotesi: Bruto Di Maio, il figlio adottivo prediletto, si prepara a accoltellare alla schiena papà Giulio Cesare Grillo.
«Ma no», dice alla Verità un deputato molto vicino al ministro degli Esteri, «Luigi sta tentando l'ultima mediazione, sta cercando di convincere Grillo e Conte a trovare un accordo, è quello che vorremmo tutti. Queste voci girano», aggiunge la nostra fonte, «perché Luigi non ha risposto a nessuno al telefono». L'ennesimo colpo di scena di questa infinita telenovela a 5 stelle va in onda ieri mattina, alle ore 9, quando Giggino Di Maio varca il portone di casa Conte. Un'ora e mezza di colloquio tra i due ex acerrimi avversari: al termine Di Maio non solo non rilascia nessuna dichiarazione, ma non risponde al cellulare a nessuno, o quasi. «Sono assolutamente fiduciosa», commenta il sindaco di Roma, Virginia Raggi, «che si riuscirà a ricomporre anche questo periodo. Sono due persone che stimo e apprezzo, credo che questo momento di complessità si potrà ricomporre».
Il tempo di dribblare i cronisti e Di Maio raggiunge l'Accademia dei Lincei, dove partecipa alla cerimonia di chiusura dell'anno accademico. C'è anche Roberto Fico, il presidente della Camera e il ministro degli Esteri confabulano in disparte per un quarto d'ora. Bocche cucite, nessuna risposta ai giornalisti. L'ora è quella delle decisioni irrevocabili. O no? «Luigi che va con Conte? La voce», dice nel pomeriggio alla Verità un grillino di governo, «l'ho sentita anch'io, ma certo che sarebbe paradossale. D'altra parte però per Conte portarsi Di Maio sarebbe una vittoria schiacciante». «Conte», ci rivela un deputato molto informato sui fatti, «sta corteggiando Di Maio e Roberto Fico, perché sa bene che senza loro due il suo nuovo partito non potrebbe decollare. Loro prendono tempo, aspettano di capire quello che succede, lasciare Beppe Grillo sarebbe una scelta dolorissima».
Al di là delle indiscrezioni e delle dichiarazioni, riesce veramente difficile credere che Di Maio accetti di fare il vice Conte ben sapendo che il ciuffo della vendetta dell'ex premier, che sa bene quanto ostile gli sia stato il ministro degli Esteri nelle ore cruciali della crisi di governo, si abbatterà su di lui alla prima occasione. D'altra parte, però, tutti quelli che andranno con Conte lo faranno in nome di un altissimo ideale: il terzo mandato. Il marasma è totale, ma ad alimentare le indiscrezioni che vorrebbero un Di Maio pronto ad aderire al partito contiano arriva, alle 12, al palazzo dei gruppi della Camera dei Deputati, un Rocco Casalino in forma smagliante, come non lo si vedeva dai tempi d'oro (più o meno) della caccia ai responsabili. Giacca, cravatta e sguardo altezzoso, si infila nell'ufficio dei deputati del M5s. Da quello stesso ufficio, alle 18, viene diffuso un comunicato stampa che suona un po' come l'ultima sceneggiata di ultima spiaggia: «L'assemblea dei deputati del M5s», recita la nota, «ha avanzato la richiesta di conoscere i contenuti della bozza di statuto e carta dei valori oggetto di discussione. Il capogruppo Davide Crippa, sta portando avanti la richiesta emersa dall'assemblea, verificando nel contempo, stando all'evolversi della situazione, la possibilità di incontrare il garante, Beppe Grillo, e la possibilità di un incontro con Giuseppe Conte». Crippa è uomo di Di Maio, anzi: il gruppo del M5s alla Camera è totalmente sotto il controllo di Di Maio, mentre al Senato dominano i contiani (ieri qualcuno ha diffuso addirittura la voce che il nuovo gruppo parlamentare a Palazzo Madama potrebbe utilizzare il simbolo di Leu). «Se ho un invito», risponde Conte in serata, «volentieri. Ci mancherebbe, sono sempre a disposizione dei parlamentari».
«Statuto, non statuto», chiosa una fonte di primo piano, «tutte balle: chi va con Conte lo fa per avere il terzo giro in parlamento garantito. Io stesso sono stato contattato: non ha parlato né di progetto, né di percorso, né di squadra né di struttura, ma solo di ricandidatura». Intanto, un gruppo di eletti in vari consigli comunali e regionali diffida il Comitato di garanzia (Vito Crimi, Roberta Lombardi e Giancarlo Cancelleri, tutti contiani) ad avviare le procedure per votare su Rousseau il Comitato direttivo, come chiesto da Beppe Grillo e negato da Crimi, e ad «astenersi dall'avviare le procedure per eventuali modifiche statutarie diverse da quelle indicate dagli Stati Generali» minacciando in caso contrario azioni giudiziarie. Un primo siluro legale contro Giuseppe Conte subito raccolto da Vito Crimi che ha comunicato a Grillo di aver avviato tutti gli adempimenti prodromici allo svolgimento delle votazioni per il comitato direttivo utilizzando lo strumento di voto messo a disposizione da Skyvote.
Altri quattro grillini mollano la Raggi
Che la sindaca di Roma Virginia Raggi non avesse più una maggioranza politica in Consiglio Comunale, era cosa risaputa da tempo. Ora, con l'abbandono polemico di ben quattro eletti pentastellati, all'ombra del Campidoglio viene certificata anche aritmeticamente l'assenza di un sostegno alla giunta da parte della Sala Giulio Cesare. Una sala, d'altra parte, dove la prima cittadina romana non ha potuto portare al voto dossier spinosi (come ad esempio la variante urbanistica per lo stadio della Roma, prima del naufragio del progetto Tor di Valle) ben consapevole che i consiglieri grillini sarebbero andati in ordine sparso, costringendola a prendere atto della triste realtà. Un epilogo, però, solamente rimandato, e benché manchino una manciata di settimane alla fine della consiliatura, la Raggi dovrà ora fare i conti con chi la sta incalzando da più fronti nelle ultime ore, chiedendole di porre fine all'agonia di una gestione della Città Eterna che presenta - per usare un eufemismo - più di una criticità.
Tornando a chi ha sbattuto la porta, c'è da dire che non si tratta di peones: tra questi spicca infatti Enrico Stefano, ex vicepresidente del Consiglio comunale e presidente della commissione mobilità, riconosciuto da tutti come consigliere preparato e competente sui temi urbanistici. Tanto preparato da entrare inevitabilmente in rotta di collisione col gruppo dirigente grillino romano, da cui aveva preso le distanze ben prima dell'annuncio odierno, in cui, prendendo la parola in aula, ha parlato di «deriva di M5s» e di «politica dei like». La goccia che ha fatto traboccare il vaso, per lui e per gli altri, è stata la faida che si è innescata negli ultimi giorni tra i lealisti di Beppe Grillo e i sostenitori di Giuseppe Conte, definito da Stefano «uno dei pochi motivi che mi erano rimasti per continuare a credere nel M5s».
Gli altri consiglieri che oggi hanno formalizzato il proprio addio a M5s sono Donatella Iorio, Marco Terranova e Angelo Sturni (presidente della commissione Roma Capitale), che contestualmente hanno annunciato la nascita di un nuovo gruppo, chiamato «Il Piano di Roma», per una situazione numerica da cui sarebbe fin troppo facile per la sindaca trarre le conseguenze: Virginia Raggi può infatti al momento contare su 20 voti in un'Aula di 49 eletti. Non a caso, dopo l'addio dei quattro consiglieri citati sono arrivate le richieste di dimissioni da parte di Lega e Fdi, che hanno fatto sapere che in caso contrario presenteranno una mozione di sfiducia: «In cinque anni», ha dichiarato Giorgia Meloni, «nessun problema della Capitale è stato risolto e rimangono solo disastri e promesse non mantenute. Enrico Michetti è la persona giusta e siamo certi che avrà la fiducia dei romani».
Il tutto, mentre il livello dei mucchi di immondizia che lastricano le strade romane non accenna a diminuire e prosegue la guerra di trincea tra la sindaca e il governatore del Lazio Nicola Zingaretti. Quest'ultimo, infatti, ha preannunciato l'ennesimo round della battaglia a colpi di carte bollate, ordinanze e ricorsi al Tar su a chi spetti la responsabilità di individuare i siti per i nuovi impianti, minacciando il commissariamento del Comune per «manifesta incapacità».
In attesa della replica di un Campidoglio sempre più azzoppato, i carichi di rifiuti continuano a prendere la via degli impianti extraurbani o esteri, con costi che al danno delle strade invase dalla «monnezza» aggiungono per i romani la beffa di una tassa sullo smaltimento tra le più alte d'Italia.
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C'è chi non crede al ruolo di pontiere del ministro degli Esteri e sostiene che si preparerebbe a tradire Beppe Grillo. Giuseppi farebbe leva sulla voglia di terzo mandato. I parlamentari chiedono un dibattito sul nuovo statutoIl sindaco di Roma ora può contare solo su 20 voti su 49. Da Fdi e Lega ipotesi sfiducia per porre fine alla sua amministrazione. E pure Nicola Zingaretti minaccia di commissariarlaLo speciale contiene due articoliTu quoque, Luigi, figlio mio! Il venticello del sospetto fa presto a diventare bufera: «Luigi è andato a trattare con Conte per assicurarsi un ruolo di primo piano nel nuovo partito, e per garantire i suoi fedelissimi». Sono passati pochi minuti dalla fine del summit tra Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, che si è svolto ieri mattina a Roma, presso l'abitazione dell'ex premier, quando dai capannelli dei parlamentari del M5s si diffonde la più velenosa delle ipotesi: Bruto Di Maio, il figlio adottivo prediletto, si prepara a accoltellare alla schiena papà Giulio Cesare Grillo. «Ma no», dice alla Verità un deputato molto vicino al ministro degli Esteri, «Luigi sta tentando l'ultima mediazione, sta cercando di convincere Grillo e Conte a trovare un accordo, è quello che vorremmo tutti. Queste voci girano», aggiunge la nostra fonte, «perché Luigi non ha risposto a nessuno al telefono». L'ennesimo colpo di scena di questa infinita telenovela a 5 stelle va in onda ieri mattina, alle ore 9, quando Giggino Di Maio varca il portone di casa Conte. Un'ora e mezza di colloquio tra i due ex acerrimi avversari: al termine Di Maio non solo non rilascia nessuna dichiarazione, ma non risponde al cellulare a nessuno, o quasi. «Sono assolutamente fiduciosa», commenta il sindaco di Roma, Virginia Raggi, «che si riuscirà a ricomporre anche questo periodo. Sono due persone che stimo e apprezzo, credo che questo momento di complessità si potrà ricomporre». Il tempo di dribblare i cronisti e Di Maio raggiunge l'Accademia dei Lincei, dove partecipa alla cerimonia di chiusura dell'anno accademico. C'è anche Roberto Fico, il presidente della Camera e il ministro degli Esteri confabulano in disparte per un quarto d'ora. Bocche cucite, nessuna risposta ai giornalisti. L'ora è quella delle decisioni irrevocabili. O no? «Luigi che va con Conte? La voce», dice nel pomeriggio alla Verità un grillino di governo, «l'ho sentita anch'io, ma certo che sarebbe paradossale. D'altra parte però per Conte portarsi Di Maio sarebbe una vittoria schiacciante». «Conte», ci rivela un deputato molto informato sui fatti, «sta corteggiando Di Maio e Roberto Fico, perché sa bene che senza loro due il suo nuovo partito non potrebbe decollare. Loro prendono tempo, aspettano di capire quello che succede, lasciare Beppe Grillo sarebbe una scelta dolorissima». Al di là delle indiscrezioni e delle dichiarazioni, riesce veramente difficile credere che Di Maio accetti di fare il vice Conte ben sapendo che il ciuffo della vendetta dell'ex premier, che sa bene quanto ostile gli sia stato il ministro degli Esteri nelle ore cruciali della crisi di governo, si abbatterà su di lui alla prima occasione. D'altra parte, però, tutti quelli che andranno con Conte lo faranno in nome di un altissimo ideale: il terzo mandato. Il marasma è totale, ma ad alimentare le indiscrezioni che vorrebbero un Di Maio pronto ad aderire al partito contiano arriva, alle 12, al palazzo dei gruppi della Camera dei Deputati, un Rocco Casalino in forma smagliante, come non lo si vedeva dai tempi d'oro (più o meno) della caccia ai responsabili. Giacca, cravatta e sguardo altezzoso, si infila nell'ufficio dei deputati del M5s. Da quello stesso ufficio, alle 18, viene diffuso un comunicato stampa che suona un po' come l'ultima sceneggiata di ultima spiaggia: «L'assemblea dei deputati del M5s», recita la nota, «ha avanzato la richiesta di conoscere i contenuti della bozza di statuto e carta dei valori oggetto di discussione. Il capogruppo Davide Crippa, sta portando avanti la richiesta emersa dall'assemblea, verificando nel contempo, stando all'evolversi della situazione, la possibilità di incontrare il garante, Beppe Grillo, e la possibilità di un incontro con Giuseppe Conte». Crippa è uomo di Di Maio, anzi: il gruppo del M5s alla Camera è totalmente sotto il controllo di Di Maio, mentre al Senato dominano i contiani (ieri qualcuno ha diffuso addirittura la voce che il nuovo gruppo parlamentare a Palazzo Madama potrebbe utilizzare il simbolo di Leu). «Se ho un invito», risponde Conte in serata, «volentieri. Ci mancherebbe, sono sempre a disposizione dei parlamentari».«Statuto, non statuto», chiosa una fonte di primo piano, «tutte balle: chi va con Conte lo fa per avere il terzo giro in parlamento garantito. Io stesso sono stato contattato: non ha parlato né di progetto, né di percorso, né di squadra né di struttura, ma solo di ricandidatura». Intanto, un gruppo di eletti in vari consigli comunali e regionali diffida il Comitato di garanzia (Vito Crimi, Roberta Lombardi e Giancarlo Cancelleri, tutti contiani) ad avviare le procedure per votare su Rousseau il Comitato direttivo, come chiesto da Beppe Grillo e negato da Crimi, e ad «astenersi dall'avviare le procedure per eventuali modifiche statutarie diverse da quelle indicate dagli Stati Generali» minacciando in caso contrario azioni giudiziarie. Un primo siluro legale contro Giuseppe Conte subito raccolto da Vito Crimi che ha comunicato a Grillo di aver avviato tutti gli adempimenti prodromici allo svolgimento delle votazioni per il comitato direttivo utilizzando lo strumento di voto messo a disposizione da Skyvote.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/conte-fa-la-corte-a-fico-e-di-maio-giggino-va-a-trovarlo-e-si-inabissa-2653623697.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="altri-quattro-grillini-mollano-la-raggi" data-post-id="2653623697" data-published-at="1625178431" data-use-pagination="False"> Altri quattro grillini mollano la Raggi Che la sindaca di Roma Virginia Raggi non avesse più una maggioranza politica in Consiglio Comunale, era cosa risaputa da tempo. Ora, con l'abbandono polemico di ben quattro eletti pentastellati, all'ombra del Campidoglio viene certificata anche aritmeticamente l'assenza di un sostegno alla giunta da parte della Sala Giulio Cesare. Una sala, d'altra parte, dove la prima cittadina romana non ha potuto portare al voto dossier spinosi (come ad esempio la variante urbanistica per lo stadio della Roma, prima del naufragio del progetto Tor di Valle) ben consapevole che i consiglieri grillini sarebbero andati in ordine sparso, costringendola a prendere atto della triste realtà. Un epilogo, però, solamente rimandato, e benché manchino una manciata di settimane alla fine della consiliatura, la Raggi dovrà ora fare i conti con chi la sta incalzando da più fronti nelle ultime ore, chiedendole di porre fine all'agonia di una gestione della Città Eterna che presenta - per usare un eufemismo - più di una criticità. Tornando a chi ha sbattuto la porta, c'è da dire che non si tratta di peones: tra questi spicca infatti Enrico Stefano, ex vicepresidente del Consiglio comunale e presidente della commissione mobilità, riconosciuto da tutti come consigliere preparato e competente sui temi urbanistici. Tanto preparato da entrare inevitabilmente in rotta di collisione col gruppo dirigente grillino romano, da cui aveva preso le distanze ben prima dell'annuncio odierno, in cui, prendendo la parola in aula, ha parlato di «deriva di M5s» e di «politica dei like». La goccia che ha fatto traboccare il vaso, per lui e per gli altri, è stata la faida che si è innescata negli ultimi giorni tra i lealisti di Beppe Grillo e i sostenitori di Giuseppe Conte, definito da Stefano «uno dei pochi motivi che mi erano rimasti per continuare a credere nel M5s». Gli altri consiglieri che oggi hanno formalizzato il proprio addio a M5s sono Donatella Iorio, Marco Terranova e Angelo Sturni (presidente della commissione Roma Capitale), che contestualmente hanno annunciato la nascita di un nuovo gruppo, chiamato «Il Piano di Roma», per una situazione numerica da cui sarebbe fin troppo facile per la sindaca trarre le conseguenze: Virginia Raggi può infatti al momento contare su 20 voti in un'Aula di 49 eletti. Non a caso, dopo l'addio dei quattro consiglieri citati sono arrivate le richieste di dimissioni da parte di Lega e Fdi, che hanno fatto sapere che in caso contrario presenteranno una mozione di sfiducia: «In cinque anni», ha dichiarato Giorgia Meloni, «nessun problema della Capitale è stato risolto e rimangono solo disastri e promesse non mantenute. Enrico Michetti è la persona giusta e siamo certi che avrà la fiducia dei romani». Il tutto, mentre il livello dei mucchi di immondizia che lastricano le strade romane non accenna a diminuire e prosegue la guerra di trincea tra la sindaca e il governatore del Lazio Nicola Zingaretti. Quest'ultimo, infatti, ha preannunciato l'ennesimo round della battaglia a colpi di carte bollate, ordinanze e ricorsi al Tar su a chi spetti la responsabilità di individuare i siti per i nuovi impianti, minacciando il commissariamento del Comune per «manifesta incapacità». In attesa della replica di un Campidoglio sempre più azzoppato, i carichi di rifiuti continuano a prendere la via degli impianti extraurbani o esteri, con costi che al danno delle strade invase dalla «monnezza» aggiungono per i romani la beffa di una tassa sullo smaltimento tra le più alte d'Italia.
Elon Musk (Ansa)
La controffensiva del magnate galvanizza X. Viktor Orbán scrive che «l’attacco della Commissione dice tutto. Quando i padroni di Bruxelles non riescono a spuntarla nel dibattito, arrivano alle multe. L’Europa ha bisogno della libertà d’espressione, non di burocrati non eletti che decidono cosa possiamo leggere o dire. Giù il cappello per Elon Mask perché ha tenuto il punto». Geert Wilders, leader sovranista olandese, se la prende con l’esecutivo di Ursula von der Leyen: «Nessuno vi ha eletto», twitta. «Non rappresentate nessuno. Siete un’istituzione totalitaria e non riuscite nemmeno a dividere in sillabe le parole “libertà d’espressione”. Non dovremmo accettare la multa a X, semmai abolire la Commissione Ue». Musk applaude: «Assolutamente! La Commissione Ue venera il dio della burocrazia, che soffoca il popolo d’Europa».
Oltreoceano, intanto, parte la rappresaglia. Reuters riferisce che il Dipartimento di Stato studia una stretta sui visti per chi si è reso «responsabile o complice della censura o del tentativo di censura di espressioni protette negli Stati Uniti». A cominciare dai fact checker dei social. Il vice di Marco Rubio, Christopher Landau, reduce dalle accuse di filocastrismo a Federica Mogherini, lancia poi una sorta di ultimatum: «O le grandi nazioni d’Europa sono nostri partner nella protezione della civiltà occidentale che abbiamo ereditato da loro, oppure non lo sono. Ma non possiamo fingere di essere partner mentre quelle nazioni permettono alla burocrazia non eletta, antidemocratica e non rappresentativa dell’Ue a Bruxelles di perseguire politiche di suicidio di civiltà». Il diplomatico lamenta: i medesimi Paesi, «quando indossano il cappello della Nato, insistono sulla cooperazione transatlantica come elemento centrale della sicurezza. Ma quando hanno il cappello dell’Ue portano avanti ogni sorta di agenda che spesso è totalmente contraria agli interessi e alla sicurezza degli Stati Uniti».
La lite scoppia, appunto, a 24 ore dalla pubblicazione del testo con cui la Casa Bianca ha ridefinito le proprie priorità. I media italiani lo hanno recepito con sgomento. Il Corriere, ieri, parlava di «attacco choc all’Europa». Secondo Repubblica, «Trump scarica l’Europa». La Stampa era listata a lutto: «Addio Europa, strappo americano». «Con la National security strategy di Trump l’America è ufficialmente un avversario», recitava l’editoriale di Giuliano Ferrara sul Foglio.
La Commissione Ue ha rivendicato la sua autonomia: decidiamo noi per noi, anche su libertà d’espressione e «ordine internazionale fondato sulle regole». Nel documento di Washington, ha ammesso Kaja Kallas, «ci sono molte critiche, ma credo che alcune siano anche vere. Se si guarda all’Europa, si nota che ha sottovalutato il proprio potere nei confronti della Russia. Dovremmo avere più fiducia in noi stessi. Gli Stati Uniti sono ancora il nostro più grande alleato». Piccato il premier polacco, Donald Tusk: l’Europa, ha spiegato agli «amici americani», è « il vostro più stretto alleato». E «abbiamo nemici comuni. A meno che non sia cambiato qualcosa». Lucida l’analisi di Guido Crosetto. Il ministro della Difesa ha sottolineato che lo spostamento del fulcro degli interessi strategici Usa, dal Vecchio continente all’Indo-Pacifico, era una «traiettoria evidente già prima dell’avvento di Trump, che ha soltanto accelerato un percorso irreversibile». Quando il processo è cominciato, non tutti erano attenti: nel 2000, George W. Bush fece rientrare diverse unità di stanza in Germania; Barack Obama richiamò un paio di brigate, per un totale di 8.000 soldati. E fu lui a stabilire che il futuro «perno» (pivot) della politica statunitense sarebbe stato l’Asia. The Donald, peraltro, ci ha tenuto a precisare che «l’Europa rimane strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti». Crosetto ha insistito sulla necessità di mobilitare, insieme al resto dell’Unione, gli «investimenti pubblici e privati» necessari a «recuperare il tempo perso su tecnologie fondamentali» per diventare militarmente autosufficienti.
Ma se qualcuno ha invocato la collaborazione tra Stati membri per mettere in pratica un caposaldo del piano Trump (l’Europa deve imparare a «reggersi in piedi da sola», recita il manifesto), qualcun altro ha approfittato dello «choc» di cui sul Corsera per rilanciare il vecchio pallino: l’alleanza con Pechino. Da più Europa a più Cina è un attimo.
Ne ha discusso sul quotidiano di Torino, col pretesto di contestare il protezionismo del golden power, l’ex ministro dell’Economia, Giovanni Tria. Dimenticando che la penetrazione dei capitali del Dragone equivale a un commissariamento dei nostri asset.
L’intervento di Romano Prodi sul Messaggero, invece, più che malevolo è apparso surreale. In sintesi: siccome quel puzzone del tycoon si mette d’accordo con le autocrazie, noi dobbiamo... metterci d’accordo con un’autocrazia. «Finora», ha notato l’ex premier, «soltanto la Cina sta preparando una strategia alternativa, non solo usando le terre rare come arma di guerra ma, soprattutto, sostituendo il mercato americano con un’accresciuta presenza in tutto il resto del mondo». È in questo spazio che, a suo avviso, dovrebbero incunearsi gli europei. Per evitare «il collasso finale di quello che resta della globalizzazione», sostiene Prodi. In funzione di utili idioti, temiamo noi. Peccato che, ha sospirato il fondatore dell’Ulivo, né l’Ue né i dirigenti di Pechino sembrino «in grado di preparare la strada per arrivare al necessario compromesso». Alla faccia degli infausti vaticini di Trump: se è così, possiamo ancora salvarci.
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