2018-05-19
Condanna per un reato che non c’era: giudici nel pallone per il calendario
Va all’esame della Cassazione una sentenza pronunciata in base alla legge sull’«omicidio stradale». Entrò in vigore due mesi dopo un incidente, ma sei mesi prima della morte della vittima. Quale norma applicare?Ha avuto molta sfortuna il povero Piero B., che il 20 gennaio 2016 fu malamente investito a Prato mentre attraversava la strada poco distante dalle strisce, e dopo otto terribili mesi di agonia morì il 28 agosto di quello stesso anno. Ma di certo non è stato baciato dalla fortuna nemmeno il suo investitore, Francesco P.: non soltanto a causa dell’inevitabile senso di colpa che da allora porta dentro di sé, ma anche perché nel 2017 fu costretto a patteggiare con la Procura di Prato una pena di un anno e quattro mesi di reclusione. Il caso di Francesco, oggi, è al centro di una delicata disputa giudiziaria, perché la sentenza contro di lui venne pronunciata in base alla legge sull’«omicidio stradale»: la controversa legge numero 41 (da molti considerata troppo severa), che entrò in vigore il 25 marzo di quel 2016, cioè poco più di due mesi dopo l’incidente ma sei mesi prima della morte della vittima. Se invece l’imputato fosse stato giudicato in base alle norme sull’omicidio colposo semplice, quelle che in effetti erano ancora in vigore al momento dell’incidente, la condanna patteggiata non avrebbe potuto superare i quattro mesi. Il problema, sollevato dai legali di Francesco davanti alla quarta sezione della Cassazione, sta tutto qui: è vero che la morte di Piero, in agosto, è l’ultimo effetto dell’incidente stradale causato otto mesi prima da Francesco, ma - si domandano i legali - è stato giusto applicare a quel caso una legge che non era ancora entrata nel Codice penale il giorno dell’investimento? Non avrebbe dovuto prevalere, piuttosto, l’antico principio giuridico del «nullum crimen sine praevia poena», ovverosia quella regola fondamentale del diritto penale in base alla quale nessuno può essere condannato in base a leggi non ancora entrate in vigore? A lume di logica, gli avvocati sembrano avere ragione e la vicenda avrebbe dovuto finire così. Ma la logica, si sa, non è sempre di casa nei tribunali; e la strada della giustizia è tortuosa e lastricata di mille obiezioni, oltre che di centomila puntigli. Così è accaduto che in Cassazione il procuratore generale, cioè il magistrato dell’accusa, si sia opposto al ricorso dell’imputato. E la questione si è rivelata così complessa e intricata che alla fine perfino i giudici della quarta sezione hanno deciso di spogliarsene e di trasmetterla (con l’ordinanza n. 21286 del 4 aprile 2018, per chi voglia studiarsela) alle sezioni unite della stessa Cassazione: e cioè a quella «super corte» che viene chiamata a valutare e dirimere soltanto i casi più importanti e controversi, allo scopo di decidere un orientamento corretto che valga nel tempo. Nelle motivazioni dell’ordinanza, depositate il 15 maggio, i giudici della quarta sezione spiegano bene i loro dubbi, bloccati davanti al bivio di una serie di sentenze della suprema corte che danno ragione ora all’una e ora all’altra tesi. È una casistica importante, quella che viene ricordata: un florilegio di vicende strane e tristi, ma tutte appese al filo del diritto penale. Nell’aprile 2015, per esempio, furono condannati definitivamente due top manager di uno stabilimento dove si producevano lampade fluorescenti: i due avevano diretto la fabbrica tra il 1972 e il 1984 e, poiché non avevano adottato le giuste precauzioni a tutela dei lavoratori, alla fine di un lungo processo vennero ritenuti colpevoli di omicidio colposo plurimo per alcuni operai morti di cancro ai polmoni. Il fatto strano è che i decessi erano avvenuti molti anni dopo l’uscita di scena dei dirigenti, nel 2009. E anche la legge applicata nei confronti dei due direttori, che aveva innalzato da cinque a sei anni la pena massima per gli infortuni sul lavoro, era stata promulgata nel 2006. Ai due manager, insomma, era andata ancora peggio che a Francesco, visto che nel loro caso la norma peggiorativa era entrata in vigore addirittura 22 anni dopo l’uscita dall’azienda dove «avevano omesso le precauzioni che avrebbero potuto evitare le morti». La stessa logica, più o meno, era stata applicata nel marzo 2014 dalla stessa Cassazione con la conferma definitiva della condanna di un trafficante d’armi. In questo caso, l’imputato aveva iniziato la sua attività illecita prima dell’introduzione nel Codice penale di una determinata aggravante specifica per il suo reato, ma poiché l’uomo aveva proseguito nel tempo i suoi traffici nei suoi confronti era stata applicata la norma più severa. Va detto che, a rigor di logica, se può avere un senso la condanna del trafficante, incaponito nel reato, quella dei due dirigenti d’azienda non sembra proprio giustificatissima. E comunque il caso di un morto per incidente stradale sembra del tutto diverso da quello di decessi sul lavoro causati per una lunga esposizione a sostanze pericolose, e sembra ancor più distante dall’attività di un commerciante di armi. D’altra parte, la quarta sezione sembra accogliere anche alcune delle considerazioni dei difensori di Francesco, i quali giustamente sostengono che, se il povero Piero B. fosse morto sul colpo il giorno dell’incidente, non ci sarebbe stato alcun dubbio sull’articolo del Codice e sulla pena da applicare al loro cliente: e cioè sicuramente quelli precedenti alla legge sull’omicidio stradale, più favorevoli all’imputato. Ma i poveri giudici non riescono proprio a chiudere il cerchio. Non sanno decidersi fino in fondo né per l’una, né per l’altra tesi. Per questo, alla fine, investono della questione le sezioni unite. Alla quali chiedono «se, a fronte di una condotta (l’incidente stradale, ndr) interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento (la morte del pedone, ndr) intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, debba trovare applicazione il trattamento sanzionatorio vigente al momento della condotta, oppure quello vigente al momento dell’evento». Insomma, Francesco deve essere confermato nella condanna a un anno e quattro mesi, oppure la sua pena deve essere ridotta a soli quattro mesi? Ai posteri, pardon, ai supergiudici l’ardua sentenza.
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