2019-04-11
Con le elezioni europee ritornano le fake news sulle ingerenze della Russia
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Torna la vecchia accusa secondo cui i russi vorrebbero influenzare la politica occidentale attraverso i social media con notizie tese a gettare fango e a inficiare il tessuto sociopolitico avversario. Per l'ex capo analista della Cia Georges Beebe qualsiasi serio tentativo di influenzare il voto richiederebbe una conoscenza dettagliata dei dati demografici degli elettori oppure l'accesso diretto ai meccanismi tecnici del voto stesso.Con l'avvicinarsi delle elezioni europee di maggio, è puntualmente ripresa l'accusa secondo cui la Russia abbia intenzione di inserirsi nelle questioni politiche occidentali. Il Cremlino sarebbe infatti pronto a sostenere una fitta rete di partiti euroscettici, con l'obiettivo di mettere in crisi il fronte europeista e allargare così la propria influenza geopolitica a Ovest. Una strategia sostanzialmente simile a quella che il presidente russo, Vladimir Putin, avrebbe adottato nel corso delle elezioni presidenziali statunitensi del 2016. Insomma, l'"impero del male" starebbe espandendo indebitamente le sue grinfie, attraverso una serie di subdoli cavalli di Troia. Una situazione che, tra l'altro, riguarderebbe anche l'Italia.Qualche giorno fa, La Repubblica ha parlato di un documento che proverebbe non solo l'ingerenza di Mosca in occasione delle prossime elezioni europee ma anche un potenziale coinvolgimento in questo piano di Lega e Movimento 5 Stelle. In particolare, il progetto del Cremlino si articolerebbe in una serie di punti: dalla promozione di attività di lobbying contro le sanzioni antirusse all'organizzazione di incontri ad alto livello tra Roma e Mosca. Attività, in sé stesse, non particolarmente illecite. Cui se ne aggiunge poi un'ulteriore: «sviluppo e gestione di piattaforme di social media per la promozione dei messaggi necessari». Insomma, torna la vecchia accusa, secondo cui la Russia cercherebbe di influenzare la politica occidentale attraverso i social media, diffondendo fake news, tese a gettare fango e a inficiare il tessuto sociopolitico avversario. Accusa in un certo senso ribadita, negli Stati Uniti, anche dal rapporto di Robert Mueller: se infatti il procuratore speciale non ha ravvisato prove di collusione tra Mosca e il comitato elettorale di Donald Trump nel 2016, ha comunque voluto confermare la tesi di una interferenza russa durante le presidenziali americane. In questo senso dunque, la Russia continuerebbe a condizionare indebitamente le dinamiche politiche di Washington e di Bruxelles. Il punto è tuttavia capire quanto un tale pericolo sia in realtà fondato. Anche ammettendo che questo iperattivismo social e propagatore di notizie fasulle sia direttamente gestito dal Cremlino, ci sono alcuni elementi che andrebbero forse ridimensionati. E questo non soltanto perché, paradossalmente, il dibattito sulle fake news è magicamente sorto dopo la storica vittoria di Donald Trump nel novembre del 2016 (come se prima non esistesse nulla di tutto questo). Ma anche perché recentemente svariati analisti hanno mostrato che la dinamica delle fake news si riveli meno decisiva ai fini elettorali di quanto spesso affermato. Ad occuparsi qualche mese fa di questa questione è, per esempio, stato George Beebe: ex capo analista della Cia specializzato in Russia e consigliere dell'ex vicepresidente americano, Dick Cheney (non esattamente un estimatore di Trump). In un articolo pubblicato sul The National Interest (testata di tendenza neoconservatrice e generalmente abbastanza ostile verso Vladimir Putin), Beebe ha mostrato una serie di fattori molto interessanti. Innanzitutto, citando la stessa intelligence americana, ha affermato che l'attività condotta sui social media dai russi costituisce un tentativo di influenza e non di sabotaggio: ad oggi questi sforzi non avrebbero infatti teso a prendere di mira le infrastrutture legate al processo elettorale. D'altronde, lo stesso ex direttore dell'Fbi, James Comey, dichiarò in un'audizione al Congresso due anni fa che l'esito delle elezioni del 2016 non potesse definirsi "alterato". In altre parole, secondo Beebe, qualsiasi serio tentativo russo di influenzare il voto richiederebbe una conoscenza dettagliata dei dati demografici degli elettori oppure l'accesso diretto ai meccanismi tecnici del voto stesso, per riuscire a effettuare un sabotaggio. Tutti atti che, almeno ad oggi, non avrebbero avuto luogo. Se le cose stanno così, è allora legittimo chiedersi per quale ragione i russi si accontentino di esercitare un'influenza politica in fin dei conti molto modesta come quella attraverso i social network. La risposta ufficiale dell'establishment di Washington – lo abbiamo in parte visto – è che Mosca perseguirebbe un obiettivo ideologicamente antidemocratico, volto a scardinare la fiducia nelle istituzioni in seno ai Paesi occidentali. Beebe non si dice tuttavia particolarmente convinto da una simile spiegazione. E questo non solo perché la Russia intrattiene buoni rapporti con svariati Stati democratici (da Israele al Giappone). Ma, più in profondità, l'ex analista della Cia ricorda che l'iperattivismo russo sui social nasca storicamente come risposta a fenomeni geopolitici e mediatici ben precisi: dalle rivoluzioni colorate alle primavere arabe. Fenomeni che – a torto o a ragione – Putin ha sempre considerato come fomentati dalla propaganda statunitense. Propaganda in cui Internet avrebbe svolto un ruolo fondamentale. In quest'ottica, Mosca avrebbe dunque reagito, attraverso una controffensiva sul web che – dall'Ucraina – sarebbe man mano avanzata fino agli stessi Stati Uniti. E attenzione: perché alla fine chi trarrebbe il maggior vantaggio da questa guerra mediatica sarebbero paradossalmente i falchi di entrambi i Paesi. Quegli ambienti politici, economici e militari che si oppongono a qualsiasi tentativo di distensione tra Washington e Mosca. Putin non può retrocedere di punto in bianco sulla questione, se non vuole ritrovarsi sotto le accuse dei nazionalisti russi. Trump, dal canto suo, è stato di fatto costretto dal Congresso a comminare delle sanzioni contro Mosca per le interferenze del 2016: sanzioni, rispetto a cui il presidente americano era fortemente contrario. Il risultato paradossale di questa situazione è che ad averla vinta sono proprio i guerrafondai di entrambe le parti, che continuano a trattare la politica estera secondo schemi ideologici, evitando come la peste un pragmatico approccio di Realpolitik. Un paradosso che attanaglia anche una certa sinistra nostrana che, pur di inseguire il vessillo della lotta al populismo, finisce per schierarsi con chi fomenta un clima da Guerra Fredda. Ma – si dirà – tutto questo non toglie che le fake news siano comunque pericolose per il processo democratico. Obiezione sensata, ma che richiede due precisazioni. Una, banalmente, di carattere storico. In democrazia le fake news sono sempre esistite: prima di Trump e prima di Internet. Limitandoci alla storia americana, basterebbe, per esempio, dare un occhio alle campagne elettorali per le presidenziali degli ultimi cinquant'anni. Ma, se anche volessimo ammettere che le fake news internettiane abbiano una loro natura specifica, la situazione cambia poco. Secondo recenti studi condotti da Brendan Nyhan (professore presso l'Università del Michigan e aspro critico del presidente Trump), l'impatto che le fake news hanno avuto nel corso delle presidenziali del 2016 è risultato quantitativamente ridottissimo e – soprattutto – circoscritto a quote elettorali già molto motivate e ideologizzate: non solo quindi la fruizione di queste notizie ha interessato pochissimi elettori ma di fatto non ha spostato un voto. E – sempre secondo gli studi di Nyhan – in occasione della campagna elettorale per le elezioni americane di metà mandato del 2018 l'impatto delle fake news sarebbe risultato addirittura inferiore a quello di due anni prima. Insomma, le voci dei catastrofisti sembrerebbero smentite. E se – come sembra – le forze euroscettiche e sovraniste dovessero conseguire un buon risultato in Europa a maggio, prima di gridare al complotto sovietico bisognerebbe pensarci bene.
Alberto Stefani (Imagoeconomica)
(Arma dei Carabinieri)
All'alba di oggi i Carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Chieti, con il supporto operativo dei militari dei Comandi Provinciali di Pescara, L’Aquila e Teramo, su delega della Direzione Distrettuale Antimafia de L’Aquila, hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di un quarantacinquenne bengalese ed hanno notificato un avviso di conclusione delle indagini preliminari nei confronti di 19 persone, tutte gravemente indiziate dei delitti di associazione per delinquere finalizzata a commettere una serie indeterminata di reati in materia di immigrazione clandestina, tentata estorsione e rapina.
I provvedimenti giudiziari sono stati emessi sulla base delle risultanze della complessa attività investigativa condotta dai militari del NIL di Chieti che, sotto il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia, hanno fatto luce su un sodalizio criminale operante fin dal 2022 a Pescara e in altre località abruzzesi, con proiezioni in Puglia e Campania che, utilizzando in maniera fraudolenta il Decreto flussi, sono riusciti a far entrare in Italia diverse centinaia di cittadini extracomunitari provenienti prevalentemente dal Bangladesh, confezionando false proposte di lavoro per ottenere il visto d’ingresso in Italia ovvero falsificando gli stessi visti. L’associazione, oggi disarticolata, era strutturata su più livelli e si avvaleva di imprenditori compiacenti, disponibili a predisporre contratti di lavoro fittizi o società create in vista dei “click day” oltre che di di professionisti che curavano la documentazione necessaria per far risultare regolari le richieste di ingresso tramite i decreti flussi. Si servivano di intermediari, anche operanti in Bangladesh, incaricati di reclutare cittadini stranieri e di organizzarne l’arrivo in Italia, spesso dietro pagamento e con sistemazioni di fortuna.
I profitti illeciti derivanti dalla gestione delle pratiche migratorie sono stimati in oltre 3 milioni di euro, considerando che ciascuno degli stranieri fatti entrare irregolarmente in Italia versava somme consistenti. Non a caso alcuni indagati definivano il sistema una vera e propria «miniera».
Nel corso delle indagini nel luglio 2024, i Carabinieri del NIL di Chieti hanno eseguito un intervento a Pescara sorprendendo due imprenditori mentre consegnavano a cittadini stranieri documentazione falsa per l’ingresso in Italia dietro pagamento.
Lo straniero destinatario del provvedimento cautelare svolgeva funzioni di organizzazione e raccordo con l’estero, effettuando anche trasferte per individuare connazionali disponibili a entrare in Italia. In un episodio, per recuperare somme pretese, ha inoltre minacciato e aggredito un connazionale. Considerata la gravità e l’attualità delle esigenze cautelari, è stata disposta la custodia in carcere presso la Casa Circondariale di Pescara.
Nei confronti degli altri 19 indagati, pur sussistendo gravi indizi di colpevolezza, non vi è l’attualità delle esigenze cautelari.
Il Comando Carabinieri per la Tutela del Lavoro, da anni, è impegnato nel fronteggiare su tutto il territorio nazionale il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, fenomeno strettamente collegato a quello dello sfruttamento lavorativo.
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