
Le opere di pittura e scultura sono considerate beni rifugio: investimento duraturo, redditizio ed esentasse. Con un mercato mondiale da 67 miliardi di dollari in crescita. Però nel nostro Paese i galleristi soffrono.Il mercato dell'arte mondiale va a gonfie vele o è in fase di ristagno? E quello italiano, molto piccolo, è diventato ancora più microscopico o è in fase di crescita? Sono domande di grande interesse, non solo per gli amanti dell'arte, ma anche (o soprattutto) per gli investitori, per tutti coloro che ancora oggi considerano le opere di pittura e scultura dei beni rifugio, un investimento duraturo e redditizio e quasi sempre esentasse. In tempi di crisi economica, di aleatorietà degli investimenti finanziari, di precarietà dei titoli azionari e a reddito fisso, dei rischi nell'acquisto di immobili e di preziosi (oro e argento), quello di acquisire un'opera, non diciamo di Picasso o di Modigliani, ma semplicemente di un Guttuso, Vespignani, Attardi o di un altro pittore figurativo del Novecento rappresentava un «buon investimento» che, con gli anni, avrebbe fatto aumentare il suo valore economico. Oggi però non è più così. Lo spiegheremo dopo.Intanto però cerchiamo di capire in quale scenario ci muoviamo. Il mercato mondiale dell'arte, secondo Clare McAndrew (fondatrice di Arts economics), ha raggiunto un valore complessivo di 67, 4 miliardi di dollari nel 2018, con un incremento del 6, 7 per cento, rispetto all'anno precedente. C'è però da osservare che il mercato delle aste è cresciuto moltissimo: il 46 %, contro quello delle gallerie, del 56 %. Queste due percentuali ora stanno per invertirsi anche in Italia. Quando parliamo di gallerie c'è anche da precisare che la torta più grande del businnes viene assorbita dai mercanti più affermati. Sempre secondo i dati del report citato, nel 2018, su 296.550 «realtà attive», il 50 per cento del mercato risulta in mano solo al cinque per cento dei player. Ma chi guida questo sistema globale? I soliti mercanti che operano negli Usa, nel Regno Unito e, da almeno un decennio, anche in Cina. Ma non solo. Il noto critico e storico dell'arte Achille Bonito Oliva, infatti, osserva che da anni i mercati sono diffusi: si opera a Mosca, a Tokio, in Brasile, in Germania, in India e in Canada. Bonito è un critico storico. Anzi la sua vita è diventata storica, al punto che a novembre sarà inaugurata a Roma una mostra sulla sua vita: «Da curatore di mostre», ha osservato scherzosamente, «diventerò curato». I colossi dell'arte dei tre Paesi da soli valgono l'84 per cento del mercato. Nel 2018 gli Stati Uniti hanno registrato un fatturato di quasi 30 miliardi di dollari, il 44% del mercato; il Regno Unito il 14, 4 miliardi (21% del mercato), mentre la Cina si è collocata al terzo posto (con Macao e Hong Kong), con quasi 13 miliardi di dollari (19 % del mercato). In questo scenario l'Italia, un paese considerato dall'Unesco, il più ricco al mondo di patrimoni artistici, continua a soffrire: sono pochi infatti gli artisti contemporanei conosciuti all'estero, che riescono a vendere le loro opere nelle aste internazionali. All'interno del Paese il mercato dell'arte langue, è diventato sempre più marginale. Nei report internazionali, è stimato in 432 milioni di dollari, tanto «da essere relegato nella palude di quel 6%, rappresentato da un generico “resto del mondo"» (Report Arts economics, 2018). Nel nostro Paese la chiusura delle gallerie, soprattutto nei centri storici delle grandi città, è stata micidiale, un massacro: il 44 per cento nel 2018, più del 60% nei primi sei mesi di quest'anno. Sono sopravvissuti i grandi empori, in grado di sostenere gli alti costi degli affitti e le altre spese (personale, la partecipazione alle fiere, la pubblicità, ecc. ). Il vero sostegno alle grandi strutture di vendita non è arrivato da incentivi fiscali o da aiuti, diretti e indiretti, degli enti locali, regioni e ministeri (sotto forma di agevolazioni e contributi vari), ma dal più forte ricorso alle aste, anche televisive. Infatti, nel 2018, il valore complessivo del mercato italiano è stato di 155 milioni di dollari. Secondo però altri rapporti (Artprice, ad esempio) la cifra avrebbe superato largamente i 200 milioni di dollari: ben il 17 % in più del 2017. Ormai vi sono centinaia di case d'aste che operano solo online; alcune organizzano sino a 350 aste mensili. La sistematica chiusura delle gallerie (piccole e medie), quelle con un fatturato largamente inferiore a 300.000 euro l'anno, ha sensibilmente danneggiato gli artisti, soprattutto quelli emergenti, che un tempo riuscivano a fare conoscere le loro opere proprio attraverso questi «spazi». Ora i giovani pittori e scultori incontrano molte difficoltà anche a reperire studi e laboratori per dipingere e sperimentare nuove forme espressive, anche perché non vengono riconosciuti sostegni pubblici, incentivi fiscali ed economici.In questo scenario appare perlomeno fuorviante un recente bilancio, pubblicato dai giornali, in cui si fa riferimento a un ipotetico incremento del giro d'affari del mercato italiano nella cifra del 3,3 per cento. Il primo semestre di quest'anno si sarebbe, cioè chiuso con un valore di 138.440.312 di euro. La cifra riguarderebbe le prime 15 gallerie e case d'aste italiane. Se questi dati venissero confermati sarebbe un fatto sicuramente importante per il mercato italiano, com'è noto, in stagnazione regna da molti anni. Ma ne dubitiamo. «Anche Bonito Oliva non è così ottimista. Gli unici artisti viventi conosciuti, che vendono le loro opere, sono quelli della transavanguardia». Forse però il celebre critico non dosa molto le sue affermazioni ottimistiche e non tiene in alcun conto un teorico conflitto d'interessi, visto che l'inventore della «transavanguardia» è proprio lui... Pensiamo comunque che le grandi società di aste (Sotheby's Italia, Christie's, in primo luogo) hanno tutto l'interesse ad accreditare un'immagine ottimistica di un mercato dell'arte risvegliato e pronto a ricevere investimenti nei beni rifugio artistici. Se fosse veramente così saremmo i primi a gioirne, ma ne dubitiamo. E abbiamo trovato conferma delle nostre perplessità parlando con mercanti, galleristi, critici, esperti, uomini e donne del mondo dell'arte, con un fitto giro di telefonate ed email, a Torino, Milano, Roma, Bologna e Palermo. Il risultato? Un coro variegato di perplessità, di lamentele, di critiche contro coloro che accreditano una tesi troppo ottimistica, anche se, per certi aspetti, encomiabile perché genera fiducia e speranze in un mercato asfittico, grigio, dominato dall'immobilismo, dalla speculazione e dalla depressione, anche degli artisti, che meditano solo di emigrare all'estero, dove sperano di trovare una maggiore sensibilità, fatta di aiuti e servizi di accoglienza (abitazioni, studi, assistenza, previdenza, incentivi vendite, fiscali, ecc.). Non è quindi tutto oro quel che luccica, come sentenzia il noto proverbio. Anche perché, afferma Simone Facchinetti (Storie e segreti del mercato dell'arte, il Mulino) «il mercato dell'arte somiglia a un enorme luna park: ci sono le giostre, le bancarelle e le attrazioni, vecchie e nuove. Come in ogni luogo del genere non può mancare, un po' defilata, la casa degli orrori... Il collezionista d'azzardo è attratto dalle aste come il giocatore dai tavoli dei casinò. A seconda dell'inclinazione potrà scegliere la roulette, il blackjack o il più spietato di tutti, il baccarat». Facchinetti, che insegna storia dell'arte all'Università del Salento e organizza grandi mostre anche all'estero, racconta nel suo libro molte storie legate all'estrema confusione e ai rischi che può correre il «povero collezionista» che, spesso sprovveduto, naviga sulla rete, dove vengono riversate, senza filtri, le notizie elaborate dalle case d'aste. Come fa, infatti, il collezionista, in questo «mare di errate informazioni», a valutare, a stabilire il valore di un'opera? L'esperto non fornisce ricette, se non quella di dotarsi di «un dottorato in storia dell'arte», ma i racconti del libro sui segreti dell'arte, fanno riflettere molto. A far meditare c'è anche una storia di questi giorni sui fatti e misfatti del mercato dell'arte. In sintesi, un rigattiere napoletano, Luigi Lo Rosso, ha trovato in una discarica, negli anni Sessanta, una tela arrotolata: rappresenta un «Volto di donna» picassiano. E, infatti, a giudizio di critici ed esperti, sembra proprio un dipinto di Pablo Picasso. Naturalmente le attribuzioni sono difficili e costose (perizie dell'Istituto di diagnostica dei beni culturali, di esperti, critici, ecc.). Il rigattiere e la sua famiglia hanno già investito alcune migliaia di euro, ma manca la prova regina: quella dell'accredito della Fondazione Picasso di Parigi. Per ottenerla è stato richiesto il pagamento di 300.000 euro. A quel punto Luigi Lo Rosso si è fermato. Secondo voi che cosa deve fare? L'opera, se è veramente dell'artista catalano, potrebbe valere anche venti milioni di euro. Ma se non lo è?
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