2023-07-07
«Siamo colonizzati dagli algoritmi. Riprendiamoci il nostro mondo»
MIguel Benasayag (Imagoeconomica)
Il filosofo argentino Miguel Benasayag: «Il digitale ha soffocato il vivente, di cui dobbiamo accettare pure la fragilità. La sinistra? Si dice anticapitalista ma è tecnofila. Liberiamo i giovani dall’ansia: la vita è una sfida, non una minaccia».«Se voglio nascondermi dai miei desideri, evitare di assumerli come evitare di assumere l’epoca in cui si vive, evitare ogni tipo di impegno, fosse anche solamente amoroso, che cosa rimane? Una mera sopravvivenza disciplinata, non un’esistenza». Così si conclude l’intervista di Teodoro Cohen a Miguel Benasayag, filosofo, psicoanalista, ricercatore ed epistemologo, contenuta all’interno del volume Malgrado tutto. Percorsi di vita, (Jaca Book, 2023). Benasayag vive a Parigi, città in cui si rifugiò quando riuscì a scampare alla morte, dopo la prigionia e le torture in Argentina sotto la dittatura militare. La sua esistenza l’ha spesa a trovare formule di «contro-potere» e ad agire contro quella che considera la malattia della nostra epoca: l’individualismo. In mezzo ci sono fiumi di esperienze: militante nella guerriglia guevarista nelle file dell’Erp (Esercito rivoluzionario del popolo), la neurofisiologia, la psicoanalisi, i suoi pazienti, i libri, perché «più la vita è solo personale, meno è vita».Qual è la sua visione della nostra società?«La distruzione ai miei occhi è evidente. Il mondo in cui viviamo è diventato una sfida incredibile, impensabile persino per uno come me che fa il ricercatore. Impensabile perché continuiamo a fare bambini, continuiamo a respirare, ma in realtà la minaccia non è nel futuro, la minaccia è già qui. In questo senso io lavoro nel campo della neurofisiologia, l’interfaccia tra il cervello, il vivente, e le macchine digitali».Naturalmente si riferisce al mondo digitale, a internet, all’intelligenza artificiale?«Sì. In questo incredibile cambiamento in cui viviamo, quasi tutte le funzioni dell’essere umano sono delegate alle macchine. Tutti sono affascinati da questa capacità delle macchine di sostituire l’uomo. Io però mi chiedo: che cosa è il vivente e che cosa è rimasto del vivere? Per anni nel mio laboratorio ho lavorato con Francisco Varela, (neurobiologo e filosofo cileno, 1946-2001, co-autore della teoria dell’enazione insieme a Humberto Maturana e iniziatore della corrente della neuro-fenomenologia, nda), e mi dicevo che tutto questo era fantastico, irreale, questo mondo della teoria dell’emergenza, delle macchine, dei robot, dell’intelligenza artificiale. È l’umano ma non più il vivente. La colonizzazione del vivente a favore del mondo digitale è massiva. Nessuno parla della colonizzazione algoritmica, non vedono quanto sia continuamente modificata la realtà. Ho lavorato molto per capire questo processo di impotenza del cervello e le sue conseguenze. Quelli della mia generazione hanno visto tre mondi: il mondo della promessa, la fine della promessa e adesso il caos e la fine dell’antropocene».Lei possiede un cellulare?«No e non per ideologia, non mi piace l’oggetto. Non sono tecnofobo, non è possibile esserlo perché sarei contro qualunque cosa esista qui in questo momento. Semplicemente dobbiamo imparare a ricolonizzare il terreno perduto».C’è una qualche soluzione a questo caos, a suo avviso?«Soluzioni non ne vedo in questo momento. Io sono un ricercatore che studia attorno al problema dell’antropocene, dell’ecologia, del mondo digitale, e nel mio settore non c’è nessuno che intraveda una qualche risposta. Anche quelli che da un punto di vista politico parlano di capitalismo, di neoliberalismo, in realtà anche se ci fosse un cambiamento di regime e si avesse un governo socialista, il problema dell’antropocene e dell’algoritmo non sarebbero risolti. Per nulla, perché la sinistra è totalmente tecnofila, la sinistra pensa alla crescita. C’è molto da fare, la prima cosa è pensare e agire in situazione. Il futuro è buio assoluto, ma in ogni situazione c’è abbastanza chiarezza per vedere che cosa è asimmetrico. Ciascuno di noi impari a fare questo. Non è il momento di parlare di soluzione».Che cosa intende per libertà?«Provare a uscire da un paradigma troppo individualista. Provare a sperimentare i legami con l’ambiente e con gli altri. È fondamentale rifiutare tutto quello che diventa una politica, una vita, in nome della sicurezza, perché il sentimento di insicurezza è normale, naturale, la gente ha paura, ma sono proprio questi sentimenti di paura a eleggere un tiranno, un duce, un capo che ci dice che cosa dobbiamo fare. Non possiamo uscire da un’insicurezza rifugiandoci in una sicurezza qualunque. Bisogna lasciare la sicurezza per assumere un’insicurezza e una inquietudine della propria vita come nel libro di Pessoa. Dopodiché bisogna essere attivi e pronti. Passa da qui l’esperienza e la risposta: assumere le fragilità su noi stessi. La fragilità del vivente, dell’ambiente, e lasciare indietro il punto di vista del conquistatore, della modernità, del rifiuto dei problemi».Anche accettare la caducità e l’impermanenza della vita?«Assolutamente sì. Per esempio quei ricercatori che parlano di postumano, di transumanesimo, di vincere la morte, di tutte queste bugie, sempre di più ricompongono la promessa di lasciare indietro la fragilità della vita. Invece la sfida è accettare la fragilità. L’insicurezza parla di debolezza, l’inquietudine parla di fragilità della vita, ma la fragilità è vivibile, pienamente. Nella fragilità c’è una dimensione di gioia e di condivisione. Tutto ciò può essere descritto in forme ed esperienze diverse: scrittura, il modo di vita individuale, il modo di educare i nostri bambini. Non educarli preparandoli all’orrore ma insegnando a condividere la fragilità».Lei si occupa di disagio giovanile e anche di quello legato all’infanzia. Come mai sono tanto diffusi?«È molto difficile essere giovani oggi. Una cosa è rifiutare o ascoltare la religione, la filosofia, l’ideologia dei genitori. Un’altra storia è essere assolutamente catturati, intrappolati, dentro a una tecnologia senza senso. C’è una funzione, una potenza ansiolitica per non far vedere il caos. Per i genitori è complicato. Quindi, di nuovo, è necessario non cedere alla paura, questo è il senso dell’educazione. Non preparare i nostri figli o i nostri allievi per un mondo orribile, ma prepararli per una vita piena in ogni senso. Strutturarli per un’esistenza densa e non minima, quindi educarli ad affrontare ogni situazione. Trasformare l’insicurezza in tranquillità. Non dire “attenzione” con ansia, ma dire: “È difficile ma è una sfida”. Prendere gli accadimenti come sfide non come minacce e insicurezze. Altrimenti ogni evento è minaccia: insicurezza alimentare, climatica, il lavoro, la guerra. Questo non è solo utile per il singolo ma per la collettività, se noi riusciamo ad accettare gli eventi come sfide e in tranquillità ci saranno delle conseguenze positive».
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