True
2023-11-20
Cina sempre più vicina
Xi Jinping (Ansa)
Secondo un recente studio di AidData, think tank dell’Università americana William & Mary, più della metà dei 1.100 miliardi di dollari di prestiti concessi dalla Cina a Paesi a basso e medio reddito è entrata nel periodo di rimborso del capitale. Nello studio si legge che «circa il 55% del debito esistente dovuto alla Cina dai Paesi in via di sviluppo, includendo il capitale ma escludendo gli interessi, è giunto a maturazione, e tale percentuale potrebbe salire al 75 % entro il 2030». I progetti di infrastrutture finanziati dalla prima potenza asiatica con un’elevata esposizione a rischi ambientali, sociali e di governance sono cresciuti secondo AidData a 1.693 nel 2021, con un valore complessivo pari a 470 miliardi di dollari. Ora la Cina alle prese con i noti problemi relativi alla propria mancata crescita economica post pandemia comincia ad avere paura della situazione e secondo il quotidiano economico giapponese Nikkei, «Pechino sta cercando di ridurre la propria esposizione». Il problema è serio come si è visto durante la recente conferenza sulla Belt and Road Initiative (Bri) nella quale si è festeggiato il decimo anniversario dell’iniziativa cinese ma in questa occasione il governo di Pechino ha annunciato «l’intenzione di promuovere d’ora in poi progetti piccoli ma intelligenti». Ma come si fa invece con Paesi tecnicamente falliti come l’Angola, il Paese africano più esposto ai prestiti cinesi (42,8 miliardi di dollari accumulati in 17 anni), oppure il Kenya, Gibuti, Angola, Congo, Etiopia, Zambia, Camerun, Maldive e Sri Lanka? Visto che i soldi non arriveranno mai a Pechino i cinesi si prendono tutto quello che ha un valore: miniere di oro, rame, manganese, terre rare e uranio. Oltre a porti, aeroporti e ad ogni struttura che ha un valore economico e strategico. Ma non sempre bastano a pagare i debiti e gli interessi maturati negli anni. L’economista Christoph Trebesch del Kiel Institute for the World Economic osserva: «Ci sono dei termini che sembrano andare al di là delle semplici garanzie per tutelarsi in caso di mancato pagamento o di fallimento del debitore. Ad esempio, in alcuni contratti ci sono clausole che permettono alle banche cinesi di mettere fine all’accordo in maniera unilaterale e di chiedere al Paese debitore il pagamento immediato di tutta la somma dovuta».
L’Occidente che oggi punta il dito incolpando la Cina per le crisi del debito in Africa in realtà non solo ha lasciato fare, perché secondo Tim Jones dell’Ong britannica Debt Justice «la verità è che le loro stesse banche, asset manager e commercianti di petrolio sono anche più responsabili di produrre debiti, ma il G7 li sta tenendo fuori dai guai». Tutto vero dato che Pechino per l’analisi del rischio si sta facendo sempre di più affiancare da istituzioni finanziarie estere. Tra loro ci sono l’International Finance Corporation, la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Bers), la Standard Chartered Bank and Bnp Paribas che valutano potenziali rischi legati a finanziamenti da concedere.
Come scrive l’Agenzia Nova, il report di AidData analizza gli ultimi 22 anni di penetrazione cinese fatta di oltre 20.000 progetti in 165 Paesi a basso e medio reddito tramite sovvenzioni e prestiti. La Cina non ha mai reso noto il totale del debito dovuto dai Paesi che hanno aderito alla Bri, iniziativa che ha coinvolto più di 150 nazioni e 30 organizzazioni internazionali fino a giugno 2023 e Pechino ha sempre respinto le accuse secondo cui i progetti della Nuova via della Seta avrebbero causato «trappole del debito», sostenendo invece «che l’iniziativa sia stata un motore senza precedenti per lo sviluppo globale».
Quello che è accaduto ai Paesi africani e a Sri Lanka e Maldive, solo per citarne alcuni, potrebbe materializzarsi molto vicino a noi e precisamente nei Balcani occidentali dove la Cina dal 2009 ha investito in media circa 1 miliardo di dollari all’anno. Albania, Bosnia, Erzegovina, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia hanno formalmente aderito alla Bri e sono a loto volta membri del quadro 17+1 (ora 14+1): la piattaforma avviata dalla Cina che mira ad espandere la cooperazione economica e diplomatica tra Pechino e l’Europa centro-orientale. Come scrive The Diplomat, l’impronta economica della Cina nei Balcani occidentali è costituita principalmente da ingenti prestiti garantiti dallo Stato per progetti energetici e di trasporto. I termini dei prestiti spesso richiedono l’utilizzo almeno parziale di appaltatori, manodopera e forniture cinesi. Le imprese statali cinesi, come la China Railway International (Cri) e la China Communications Construction Company (Cccc), di fatto dominano le attività di Pechino nella regione. In un recente report pubblicato da Balkan Investigative Reporting Network (Birn), una rete di organizzazioni non governative locali che promuovono la libertà di parola, i diritti umani e la democrazia, sono stati identificati 136 progetti legati alla Cina nei Balcani per un valore di oltre 32 miliardi di euro e la Cina sta rilevando l’industria metallurgica, quella mineraria, l’energia e i trasporti, e la maggior parte di questi progetti sono accompagnati da accuse di corruzione, sfruttamento e danni ambientali. Stesso modello adottato in Africa? Sì. A dirlo è Wawa Wang, direttore del programma di Just Finance International, che ha studiato il track record internazionale delle aziende cinesi comprese le aziende statali che operano in Serbia e che a Birn ha affermato: «Causano impatti ambientali e sociali irreversibili e violazioni dei diritti umani indipendentemente da dove hanno sede le loro operazioni, in Cina o all’estero». La maggior parte dei finanziamenti cinesi nei Balcani occidentali sono costituiti da prestiti governativi a dir poco opachi ed è evidente che il debito dovuto alla Cina è un notevole strumento di influenza che Pechino può esercitare nella regione e di conseguenza sull’Europa e sulla Nato.
Oltretutto questi progetti nella regione non sono certo vincolati dagli standard e dai regolamenti Ue, che valutano specificamente la sostenibilità finanziaria del progetto. Gli investimenti cinesi (investimenti greenfield e contratti) nei Balcani occidentali (esclusa l’Albania) dal 2005 al 2019 hanno raggiunto i 14,6 miliardi di dollari, con la Serbia in testa con 10,3 miliardi di dollari, secondo i dati China Global Investment Tracker dell’American Enterprise Institute. Secondo l’Unctad, ciò rappresenterebbe il 20% del totale degli investimenti diretti esteri nella regione (72 miliardi di dollari). Come sempre i numeri ci aiutano a capire perché la situazione è a dir poco preoccupante. Secondo Voice of America tra 18 anni la Serbia avrà debiti con la Cina per oltre 7,9 miliardi di dollari mentre è delicatissima la situazione del Montenegro con il caso dell’autostrada Bar-Boljare un progetto finanziato con 1 miliardo di dollari concesso dalla Exlm Bank cinese per finanziare la prima parte del progetto che ha fatto schizzare il rapporto debito/Pil del Montenegro a poco più dell’80% nel 2019. Stesse dinamiche in Macedonia del Nord (anch’essa membro Nato) con il 20%, la Bosnia-Erzegovina con il 14% e la Serbia con il 12%. Il soft power cinese si diffonde dal 2006 nel Balcani occidentali anche attraverso gli Istituti Confucio, finanziati dallo Stato cinese e integrati nelle università di tutto il mondo, che servono a promuovere l'agenda politica di Pechino. Infine Pechino nella regione è presente anche con i suoi media vedi la Xinhua News Agency e la China Global Television Network che d’intesa con i media locali diffondono bugie come quella raccontata dai media serbi filogovernativi che talvolta dicono che i finanziamenti cinesi sono «doni» e non prestiti. Doni avvelenati.
Ma la conquista dei porti europei ha subìto una battuta d’arresto
Pechino negli ultimi dieci anni è riuscita a comprare quote di maggioranza dei più importanti porti degli Stati appartenenti alla Ue. La mossa ha consentito di mettere «sotto controllo» gli scambi commerciali della Ue che nel 2021 ha esportato merci in Cina per un valore di 223 miliardi di euro e ha importato merci per 472 miliardi di euro. I cinesi hanno approfittato della fragilità politica della Ue e dei Paesi che ne fanno parte, che hanno pensato solo a incassare senza curarsi di cosa sarebbe accaduto dopo, segno evidente che mancava una strategia utile a difendersi dall’assalto cinese.
Il progetto cinese, come abbiamo più volte raccontato sulle nostre pagine, è quello di far diventare l’Europa un prolungamento della Cina, un po’ come avvenuto con l’Africa dove i cinesi con i loro prestiti hanno messo in ginocchio Paesi come il Kenya, il Camerun, Gibuti, l’Angola (con 42,8 miliardi di dollari accumulati in 17 anni), il Congo, l’Etiopia, il Kenya e lo Zambia. Dopo un lungo sonno l’Europa ha finalmente capito a cosa andava incontro e dal 2021, come si legge nel report del Parlamento europeo pubblicato qualche giorno fa, intitolato «Investimenti cinesi nelle infrastrutture marittime europee», l’attività di acquisizione di strutture portuali è diminuita sensibilmente probabilmente a causa degli effetti della pandemia Covid-19 «nonché dell’introduzione di nuovi meccanismi di screening dell’Ue». Nello studio si identificano 24 operazioni cinesi e 13 progetti di investimento greenfield (creazione di una nuova impresa o creazione di strutture all’estero), annunciati nelle infrastrutture marittime europee dal 2004 al 2021. Le acquisizioni hanno rappresentato la maggior parte del capitale investito. In totale, secondo i calcoli presenti nel report, «il loro valore ha superato i 9,1 miliardi di euro, mentre il valore del capitale impegnato nei progetti greenfield è stato di circa 1,1 miliardi di euro».
China Ocean Shipping Company (Cosco) e China Merchants sono stati i principali investitori. Shanghai Zhenhua Heavy Industries Company Limited (Zpmc) è il principale fornitore di gru da nave a terra per i porti europei. Le imprese statali cinesi coinvolte nelle infrastrutture marittime europee beneficiano di un vantaggio protetto sul mercato interno e di una catena del valore verticalmente integrata sotto la proprietà della State-owned Assets Supervision and Administration Commission (Sasac), che facilitano l’espansione di quote di mercato anticoncorrenziali in Europa e i rischi di dipendenza del mercato comune dai fornitori cinesi.
Lo studio mostra che gli investimenti in un’infrastruttura marittima europea aumentano i rischi per l’intera Ue. L’aumento del rischio sembra essere proporzionale all’investimento: maggiori sono le quote possedute da un’impresa cinese di un’infrastruttura marittima europea, maggiori sono i rischi e le loro conseguenze. Lo studio rileva che i rischi derivano dalla strategia deliberata della Cina di sfruttare a proprio vantaggio gli investimenti nelle infrastrutture marittime europee e come conseguenza di scenari di conflitto (ad esempio, il conflitto di Taiwan o le controversie tra l’Ue e/o gli Stati membri e la Cina) e da qui lo stop.
«Chi si indebita col Dragone finisce in trappola e gli cede miniere e infrastrutture»
Antonio Selvatici è giornalista e docente al Master di Intelligence economica presso l’Università degli Studi di Tor Vergata.
Negli ultimi mesi in Cina si è verificata una vera e propria purga all’interno dell’esercito e del Partito Comunista. Qual è la situazione oggi?
«È interessante notare come si siano concentrati all’interno del People’s Liberation Army Rocket Force (la Forza Missilistica) casi di suicidi o sparizioni dai posti di comando. Potrebbe far supporre divergenze con Xi Jinping. Quali i motivi? Forse la straordinaria crescita di tale forza. Ad esempio poco più di un decennio fa la Cina possedeva solo una cinquantina di missili intercontinentali, entro il 2028 (queste le previsioni) riuscirà a schierare più di mille lanciatori di missili balistici. E Taiwan è facile bersaglio della forza missilistica dispiegata».
Nonostate i proclami di Xi Jinping la Cina economicamente non cresce più ai livelli di un tempo. Perché e quali sono le conseguenze?
«I dati diffusi dall’Ufficio nazionale di statistica cinese indicano che il mercato interno sta ancora rallentando. La Cina è uno dei pochi Paesi in deflazione: i prezzi dei prodotti alimentari sono diminuiti. Non solo quello della carne di suino, che dall’inizio dell’anno ha perso circa il 30%, ma ora sta calando anche quello delle uova. Questi sono gli alimenti che caratterizzano la dieta cinese e, non essendoci epidemie, si presume una contrazione dei consumi. Gli stessi indici ci dicono che la produzione del cemento è aumentata. Ciò potrebbe far pensare che lo Stato continua ad investire nelle infrastrutture e (forse) nelle costruzioni. Anche se dopo il default di Evergrande quello degli immobili è diventato un settore critico. La Cina per continuare a crescere deve esportare e investire in innovazione. È il superamento del divario tecnologico con gli Usa. Ma il livello d’innovazione tecnologica di un Paese non democratico può competere con quello di uno democratico? Lo scontro è tra modelli di governance».
Come sta procedendo la Belt&Road Initiative?
«A rallentatore. Ad esempio la guerra in Ucraina ha interrotto la costruzione delle ferrovia che avrebbe dovuto collegare la Cina all’Europa. L’ambizioso progetto d’espansione globale ha maggiore valenza strategica piuttosto che economica. È più probabile che ora si sviluppi con maggiore intensità la Digital Silk Road».
A proposito della Nuova Via della Seta quasi la metà dei 1.100 miliardi di dollari concessi dalla Cina a Paesi a basso e medio reddito è entrata nel periodo di rimborso del capitale, ma come faranno Paesi tecnicamente falliti a rimborsare i prestiti?
«La trappola del debito colpisce i Paesi emergenti o deboli i quali in cambio d’infrastrutture sponsorizzate ed eseguite da banche e imprese cinesi si sono fortemente indebitati con Pechino. In caso d’insolvenza la Cina pretende asset strategici come la gestione di porti o materie prime».
In Europa i Balcani occidentali sono finiti nella sfera di influenza cinese e sempre a proposito di prestiti da rimborsare il Montenegro è in una situazione delicata. Cosa può accadere se non pagheranno i loro debiti ?
«La gestione del porto di Bar potrebbe passare ai cinesi. Un avamposto nel Basso Adriatico».
Il governo Meloni tra i sui primi atti ha (giustamente) archiviato la Via della Seta e da quel momento altri Paesi europei hanno raffreddato i loro entusiasmi. Perché il governo italiano si è sfilato?
«Ha cominciato Mario Draghi ad assumere una postura meno prona e più assertiva. Il governo in carica ha capito che lo sbandierato Memorandum era politicamente inopportuno e non aveva alcun valore legale».
Nonostante tutte le difficoltà la Cina si sta armando pesantemente. In che modo e perché?
«La Cina vuole assumere la postura di grande potenza globale. Sta modernizzando il suo esercito investendo annualmente circa 200 miliardi di dollari, in linea con quanto teorizzato dal programma “La Difesa nazionale della Cina nella nuova era”. È presente in molte esercitazioni militari (che hanno valore strategico) e dà supporto ad altri Paesi come, ad esempio, la Tanzania a cui ha consegnato carri armati, sistemi di difesa aerea ed ha costruito la locale Accademia militare».
L’incontro tra Xi Jinping e Joe Biden può segnare una nuova stagione nei rapporti tra Cina e Stati Uniti?
«La Cina ha bisogno d’esportare ciò che produce in enormi quantità e non può permettersi la riduzione di volumi. Gli Stati Uniti non possono immaginare di smettere d’importare merce Made in China. Pechino è consapevole che gli investimenti statunitensi (e non solo) in Cina sono calati e saranno le produzioni di beni ad alta tecnologia che determineranno il futuro delle economie. Gli Stati Uniti stanno per emanare un regolamento che di fatto impedirà a società Usa di fare investimenti tecnologici in Cina. Semiconduttori, microelettronica, intelligenza artificiale e informazione quantistica sono gli ambiti che Washington vuole tutelare».
Sempre a proposito di rapporti spaventa l’asse Cina-Russia, anche se c’è chi ritiene che Xi faccia tutto perché ritiene che dopo la guerra in Ucraina la Russia sarà più debole e bisognosa di Pechino. Se è così a cosa puntano i cinesi?
«Il Pil della Russia è ridicolo se confrontato a quello della Cina. Ma la Russia ha l’energia e la Cina è un paese energivoro e non autosufficiente. Non a caso tra i Paesi che entreranno a far parte dei Brics ci sono Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto (gas)».
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«Progetti piccoli ma intelligenti». Così Pechino programma i suoi nuovi finanziamenti nel mondo. Un miliardo investito ogni anno nei Balcani. E quei prestiti (opachi) con cui si prende l’Africa.Ma la conquista dei porti europei ha subìto una battuta d’arresto. In meno di vent’anni l’Impero di mezzo ha fatto acquisti per 9 miliardi. Dal 2021 lo stop. «Chi si indebita col Dragone finisce in trappola e gli cede miniere e infrastrutture». L’esperto Antonio Selvatici: «Xi sta modernizzando il suo esercito, puntando soprattutto sui missili. Però il mercato interno rallenta, perciò ha bisogno che l’export negli Usa non cali».Lo speciale comprende tre articoli.Secondo un recente studio di AidData, think tank dell’Università americana William & Mary, più della metà dei 1.100 miliardi di dollari di prestiti concessi dalla Cina a Paesi a basso e medio reddito è entrata nel periodo di rimborso del capitale. Nello studio si legge che «circa il 55% del debito esistente dovuto alla Cina dai Paesi in via di sviluppo, includendo il capitale ma escludendo gli interessi, è giunto a maturazione, e tale percentuale potrebbe salire al 75 % entro il 2030». I progetti di infrastrutture finanziati dalla prima potenza asiatica con un’elevata esposizione a rischi ambientali, sociali e di governance sono cresciuti secondo AidData a 1.693 nel 2021, con un valore complessivo pari a 470 miliardi di dollari. Ora la Cina alle prese con i noti problemi relativi alla propria mancata crescita economica post pandemia comincia ad avere paura della situazione e secondo il quotidiano economico giapponese Nikkei, «Pechino sta cercando di ridurre la propria esposizione». Il problema è serio come si è visto durante la recente conferenza sulla Belt and Road Initiative (Bri) nella quale si è festeggiato il decimo anniversario dell’iniziativa cinese ma in questa occasione il governo di Pechino ha annunciato «l’intenzione di promuovere d’ora in poi progetti piccoli ma intelligenti». Ma come si fa invece con Paesi tecnicamente falliti come l’Angola, il Paese africano più esposto ai prestiti cinesi (42,8 miliardi di dollari accumulati in 17 anni), oppure il Kenya, Gibuti, Angola, Congo, Etiopia, Zambia, Camerun, Maldive e Sri Lanka? Visto che i soldi non arriveranno mai a Pechino i cinesi si prendono tutto quello che ha un valore: miniere di oro, rame, manganese, terre rare e uranio. Oltre a porti, aeroporti e ad ogni struttura che ha un valore economico e strategico. Ma non sempre bastano a pagare i debiti e gli interessi maturati negli anni. L’economista Christoph Trebesch del Kiel Institute for the World Economic osserva: «Ci sono dei termini che sembrano andare al di là delle semplici garanzie per tutelarsi in caso di mancato pagamento o di fallimento del debitore. Ad esempio, in alcuni contratti ci sono clausole che permettono alle banche cinesi di mettere fine all’accordo in maniera unilaterale e di chiedere al Paese debitore il pagamento immediato di tutta la somma dovuta».L’Occidente che oggi punta il dito incolpando la Cina per le crisi del debito in Africa in realtà non solo ha lasciato fare, perché secondo Tim Jones dell’Ong britannica Debt Justice «la verità è che le loro stesse banche, asset manager e commercianti di petrolio sono anche più responsabili di produrre debiti, ma il G7 li sta tenendo fuori dai guai». Tutto vero dato che Pechino per l’analisi del rischio si sta facendo sempre di più affiancare da istituzioni finanziarie estere. Tra loro ci sono l’International Finance Corporation, la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Bers), la Standard Chartered Bank and Bnp Paribas che valutano potenziali rischi legati a finanziamenti da concedere. Come scrive l’Agenzia Nova, il report di AidData analizza gli ultimi 22 anni di penetrazione cinese fatta di oltre 20.000 progetti in 165 Paesi a basso e medio reddito tramite sovvenzioni e prestiti. La Cina non ha mai reso noto il totale del debito dovuto dai Paesi che hanno aderito alla Bri, iniziativa che ha coinvolto più di 150 nazioni e 30 organizzazioni internazionali fino a giugno 2023 e Pechino ha sempre respinto le accuse secondo cui i progetti della Nuova via della Seta avrebbero causato «trappole del debito», sostenendo invece «che l’iniziativa sia stata un motore senza precedenti per lo sviluppo globale». Quello che è accaduto ai Paesi africani e a Sri Lanka e Maldive, solo per citarne alcuni, potrebbe materializzarsi molto vicino a noi e precisamente nei Balcani occidentali dove la Cina dal 2009 ha investito in media circa 1 miliardo di dollari all’anno. Albania, Bosnia, Erzegovina, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia hanno formalmente aderito alla Bri e sono a loto volta membri del quadro 17+1 (ora 14+1): la piattaforma avviata dalla Cina che mira ad espandere la cooperazione economica e diplomatica tra Pechino e l’Europa centro-orientale. Come scrive The Diplomat, l’impronta economica della Cina nei Balcani occidentali è costituita principalmente da ingenti prestiti garantiti dallo Stato per progetti energetici e di trasporto. I termini dei prestiti spesso richiedono l’utilizzo almeno parziale di appaltatori, manodopera e forniture cinesi. Le imprese statali cinesi, come la China Railway International (Cri) e la China Communications Construction Company (Cccc), di fatto dominano le attività di Pechino nella regione. In un recente report pubblicato da Balkan Investigative Reporting Network (Birn), una rete di organizzazioni non governative locali che promuovono la libertà di parola, i diritti umani e la democrazia, sono stati identificati 136 progetti legati alla Cina nei Balcani per un valore di oltre 32 miliardi di euro e la Cina sta rilevando l’industria metallurgica, quella mineraria, l’energia e i trasporti, e la maggior parte di questi progetti sono accompagnati da accuse di corruzione, sfruttamento e danni ambientali. Stesso modello adottato in Africa? Sì. A dirlo è Wawa Wang, direttore del programma di Just Finance International, che ha studiato il track record internazionale delle aziende cinesi comprese le aziende statali che operano in Serbia e che a Birn ha affermato: «Causano impatti ambientali e sociali irreversibili e violazioni dei diritti umani indipendentemente da dove hanno sede le loro operazioni, in Cina o all’estero». La maggior parte dei finanziamenti cinesi nei Balcani occidentali sono costituiti da prestiti governativi a dir poco opachi ed è evidente che il debito dovuto alla Cina è un notevole strumento di influenza che Pechino può esercitare nella regione e di conseguenza sull’Europa e sulla Nato. Oltretutto questi progetti nella regione non sono certo vincolati dagli standard e dai regolamenti Ue, che valutano specificamente la sostenibilità finanziaria del progetto. Gli investimenti cinesi (investimenti greenfield e contratti) nei Balcani occidentali (esclusa l’Albania) dal 2005 al 2019 hanno raggiunto i 14,6 miliardi di dollari, con la Serbia in testa con 10,3 miliardi di dollari, secondo i dati China Global Investment Tracker dell’American Enterprise Institute. Secondo l’Unctad, ciò rappresenterebbe il 20% del totale degli investimenti diretti esteri nella regione (72 miliardi di dollari). Come sempre i numeri ci aiutano a capire perché la situazione è a dir poco preoccupante. Secondo Voice of America tra 18 anni la Serbia avrà debiti con la Cina per oltre 7,9 miliardi di dollari mentre è delicatissima la situazione del Montenegro con il caso dell’autostrada Bar-Boljare un progetto finanziato con 1 miliardo di dollari concesso dalla Exlm Bank cinese per finanziare la prima parte del progetto che ha fatto schizzare il rapporto debito/Pil del Montenegro a poco più dell’80% nel 2019. Stesse dinamiche in Macedonia del Nord (anch’essa membro Nato) con il 20%, la Bosnia-Erzegovina con il 14% e la Serbia con il 12%. Il soft power cinese si diffonde dal 2006 nel Balcani occidentali anche attraverso gli Istituti Confucio, finanziati dallo Stato cinese e integrati nelle università di tutto il mondo, che servono a promuovere l'agenda politica di Pechino. Infine Pechino nella regione è presente anche con i suoi media vedi la Xinhua News Agency e la China Global Television Network che d’intesa con i media locali diffondono bugie come quella raccontata dai media serbi filogovernativi che talvolta dicono che i finanziamenti cinesi sono «doni» e non prestiti. 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I cinesi hanno approfittato della fragilità politica della Ue e dei Paesi che ne fanno parte, che hanno pensato solo a incassare senza curarsi di cosa sarebbe accaduto dopo, segno evidente che mancava una strategia utile a difendersi dall’assalto cinese. Il progetto cinese, come abbiamo più volte raccontato sulle nostre pagine, è quello di far diventare l’Europa un prolungamento della Cina, un po’ come avvenuto con l’Africa dove i cinesi con i loro prestiti hanno messo in ginocchio Paesi come il Kenya, il Camerun, Gibuti, l’Angola (con 42,8 miliardi di dollari accumulati in 17 anni), il Congo, l’Etiopia, il Kenya e lo Zambia. Dopo un lungo sonno l’Europa ha finalmente capito a cosa andava incontro e dal 2021, come si legge nel report del Parlamento europeo pubblicato qualche giorno fa, intitolato «Investimenti cinesi nelle infrastrutture marittime europee», l’attività di acquisizione di strutture portuali è diminuita sensibilmente probabilmente a causa degli effetti della pandemia Covid-19 «nonché dell’introduzione di nuovi meccanismi di screening dell’Ue». Nello studio si identificano 24 operazioni cinesi e 13 progetti di investimento greenfield (creazione di una nuova impresa o creazione di strutture all’estero), annunciati nelle infrastrutture marittime europee dal 2004 al 2021. Le acquisizioni hanno rappresentato la maggior parte del capitale investito. In totale, secondo i calcoli presenti nel report, «il loro valore ha superato i 9,1 miliardi di euro, mentre il valore del capitale impegnato nei progetti greenfield è stato di circa 1,1 miliardi di euro». China Ocean Shipping Company (Cosco) e China Merchants sono stati i principali investitori. Shanghai Zhenhua Heavy Industries Company Limited (Zpmc) è il principale fornitore di gru da nave a terra per i porti europei. Le imprese statali cinesi coinvolte nelle infrastrutture marittime europee beneficiano di un vantaggio protetto sul mercato interno e di una catena del valore verticalmente integrata sotto la proprietà della State-owned Assets Supervision and Administration Commission (Sasac), che facilitano l’espansione di quote di mercato anticoncorrenziali in Europa e i rischi di dipendenza del mercato comune dai fornitori cinesi. Lo studio mostra che gli investimenti in un’infrastruttura marittima europea aumentano i rischi per l’intera Ue. L’aumento del rischio sembra essere proporzionale all’investimento: maggiori sono le quote possedute da un’impresa cinese di un’infrastruttura marittima europea, maggiori sono i rischi e le loro conseguenze. Lo studio rileva che i rischi derivano dalla strategia deliberata della Cina di sfruttare a proprio vantaggio gli investimenti nelle infrastrutture marittime europee e come conseguenza di scenari di conflitto (ad esempio, il conflitto di Taiwan o le controversie tra l’Ue e/o gli Stati membri e la Cina) e da qui lo stop. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cina-sempre-piu-vicina-2666309750.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="chi-si-indebita-col-dragone-finisce-in-trappola-e-gli-cede-miniere-e-infrastrutture" data-post-id="2666309750" data-published-at="1700424365" data-use-pagination="False"> «Chi si indebita col Dragone finisce in trappola e gli cede miniere e infrastrutture» Antonio Selvatici è giornalista e docente al Master di Intelligence economica presso l’Università degli Studi di Tor Vergata. Negli ultimi mesi in Cina si è verificata una vera e propria purga all’interno dell’esercito e del Partito Comunista. Qual è la situazione oggi? «È interessante notare come si siano concentrati all’interno del People’s Liberation Army Rocket Force (la Forza Missilistica) casi di suicidi o sparizioni dai posti di comando. Potrebbe far supporre divergenze con Xi Jinping. Quali i motivi? Forse la straordinaria crescita di tale forza. Ad esempio poco più di un decennio fa la Cina possedeva solo una cinquantina di missili intercontinentali, entro il 2028 (queste le previsioni) riuscirà a schierare più di mille lanciatori di missili balistici. E Taiwan è facile bersaglio della forza missilistica dispiegata». Nonostate i proclami di Xi Jinping la Cina economicamente non cresce più ai livelli di un tempo. Perché e quali sono le conseguenze? «I dati diffusi dall’Ufficio nazionale di statistica cinese indicano che il mercato interno sta ancora rallentando. La Cina è uno dei pochi Paesi in deflazione: i prezzi dei prodotti alimentari sono diminuiti. Non solo quello della carne di suino, che dall’inizio dell’anno ha perso circa il 30%, ma ora sta calando anche quello delle uova. Questi sono gli alimenti che caratterizzano la dieta cinese e, non essendoci epidemie, si presume una contrazione dei consumi. Gli stessi indici ci dicono che la produzione del cemento è aumentata. Ciò potrebbe far pensare che lo Stato continua ad investire nelle infrastrutture e (forse) nelle costruzioni. Anche se dopo il default di Evergrande quello degli immobili è diventato un settore critico. La Cina per continuare a crescere deve esportare e investire in innovazione. È il superamento del divario tecnologico con gli Usa. Ma il livello d’innovazione tecnologica di un Paese non democratico può competere con quello di uno democratico? Lo scontro è tra modelli di governance». Come sta procedendo la Belt&Road Initiative? «A rallentatore. Ad esempio la guerra in Ucraina ha interrotto la costruzione delle ferrovia che avrebbe dovuto collegare la Cina all’Europa. L’ambizioso progetto d’espansione globale ha maggiore valenza strategica piuttosto che economica. È più probabile che ora si sviluppi con maggiore intensità la Digital Silk Road». A proposito della Nuova Via della Seta quasi la metà dei 1.100 miliardi di dollari concessi dalla Cina a Paesi a basso e medio reddito è entrata nel periodo di rimborso del capitale, ma come faranno Paesi tecnicamente falliti a rimborsare i prestiti? «La trappola del debito colpisce i Paesi emergenti o deboli i quali in cambio d’infrastrutture sponsorizzate ed eseguite da banche e imprese cinesi si sono fortemente indebitati con Pechino. In caso d’insolvenza la Cina pretende asset strategici come la gestione di porti o materie prime». In Europa i Balcani occidentali sono finiti nella sfera di influenza cinese e sempre a proposito di prestiti da rimborsare il Montenegro è in una situazione delicata. Cosa può accadere se non pagheranno i loro debiti ? «La gestione del porto di Bar potrebbe passare ai cinesi. Un avamposto nel Basso Adriatico». Il governo Meloni tra i sui primi atti ha (giustamente) archiviato la Via della Seta e da quel momento altri Paesi europei hanno raffreddato i loro entusiasmi. Perché il governo italiano si è sfilato? «Ha cominciato Mario Draghi ad assumere una postura meno prona e più assertiva. Il governo in carica ha capito che lo sbandierato Memorandum era politicamente inopportuno e non aveva alcun valore legale». Nonostante tutte le difficoltà la Cina si sta armando pesantemente. In che modo e perché? «La Cina vuole assumere la postura di grande potenza globale. Sta modernizzando il suo esercito investendo annualmente circa 200 miliardi di dollari, in linea con quanto teorizzato dal programma “La Difesa nazionale della Cina nella nuova era”. È presente in molte esercitazioni militari (che hanno valore strategico) e dà supporto ad altri Paesi come, ad esempio, la Tanzania a cui ha consegnato carri armati, sistemi di difesa aerea ed ha costruito la locale Accademia militare». L’incontro tra Xi Jinping e Joe Biden può segnare una nuova stagione nei rapporti tra Cina e Stati Uniti? «La Cina ha bisogno d’esportare ciò che produce in enormi quantità e non può permettersi la riduzione di volumi. Gli Stati Uniti non possono immaginare di smettere d’importare merce Made in China. Pechino è consapevole che gli investimenti statunitensi (e non solo) in Cina sono calati e saranno le produzioni di beni ad alta tecnologia che determineranno il futuro delle economie. Gli Stati Uniti stanno per emanare un regolamento che di fatto impedirà a società Usa di fare investimenti tecnologici in Cina. Semiconduttori, microelettronica, intelligenza artificiale e informazione quantistica sono gli ambiti che Washington vuole tutelare». Sempre a proposito di rapporti spaventa l’asse Cina-Russia, anche se c’è chi ritiene che Xi faccia tutto perché ritiene che dopo la guerra in Ucraina la Russia sarà più debole e bisognosa di Pechino. Se è così a cosa puntano i cinesi? «Il Pil della Russia è ridicolo se confrontato a quello della Cina. Ma la Russia ha l’energia e la Cina è un paese energivoro e non autosufficiente. Non a caso tra i Paesi che entreranno a far parte dei Brics ci sono Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto (gas)».
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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