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2025-10-27
Giovani fragili, il patriarcato però c’entra poco. Fa danni l’ideologia
(IStock)
La realtà quotidiana ci mostra giovani generazioni - anche e soprattutto maschili - afflitte da ben altri problemi che non siano il controllo della forza virile. Anzi, il guaio principale pare essere la debolezza, la fragilità della gioventù, che pure si può tradurre in atti di violenza commessi contro altri o contro sé stessi. La psicologa Laura Pigozzi e lo scrittore Walter Siti analizzano il problema intervistati dalla Verità.
«C’è un narcisismo della maternità che rende i ragazzi ansiosi e insicuri»

Laura Pigozzi
Laura Pigozzi è psicoanalista, psicologa clinica e giuridica penale e civile e filosofa. Si è formata e lavora in Italia e in Francia ed è l’ideatrice del concetto di plusmaterno. In numerosi saggi ha spiegato come nella nostra società si assista a una sorta di esondazione del materno, ci siano madri ipertrofiche o troppo presenti. Quali sono le conseguenze di tutto questo sui ragazzi e le ragazze? Come si cresce in un mondo in cui il padre evapora e il materno invece domina? Parte della risposta si trova nel nuovo libro della Pigozzi, Non solo madri, edito da Raffaello Cortina.
Dottoressa, il suo libro si intitola Non solo madri. A me pare però che oggi le donne a tutto siano spinte tranne che a diventare madri.
«Non solo madri vuole arrivare sia alle giovani donne che hanno figli, sia a quelle che stanno pensando di averne, sia a quelle che desiderano non averne, quindi dà anche una legittimità a chi desidera non avere figli, ma il problema principale è che quando si hanno figli si entra in una dimensione, in un discorso sociale che esalta moltissimo la dimensione del materno, ma la esalta in senso sacrificale, per cui io continuo a ricevere giovani ragazze con master e lauree brillanti o carriere ben avviate che alla nascita del primo bambino, o di Gesù bambino come dico io, stanno a casa, lasciano tutto e si dedicano alla crescita di questo figlio. Il problema qual è? Che il bambino per crescere non ha bisogno di una presenza così assidua e in-intermittente».
E di che cosa ha bisogno?
«Ha bisogno di una presenza intermittente della madre, cioè la madre che va e che viene, perché altrimenti non può pensare. La madre è, come dire, tutto ciò che un bambino desidera, quindi avendola sempre lì è come se non avesse mai la possibilità, come diciamo noi psicanalisti, di allucinarla, cioè di pensarla. Dunque quello che lei dice è vero: ci sono molte madri che pensano che entrare nella dimensione della maternità sia una grande fregatura, ma lo è solo se noi pensiamo alla madre “tutta madre”, non se pensiamo alla madre “non solo madre”. Il nostro discorso sociale idealizza molto chi è entrata nella maternità, e chi non lo ha ancora fatto fatica perché ha timore».
Mi perdoni, ma che male c’è se una madre vuole restare molto con suo figlio, anche solo per goderselo?
«Il fatto è che sul piano dello sviluppo psichico ogni bambino ha bisogno anche di spazio, ha bisogno, come dicevo, di pensiero, e si pensa quando non si è soddisfatti. Immaginate una persona satolla che ha fatto il pranzo di Natale: non pensa, perché è nella grandissima soddisfazione».
Bisogna che resti un po’ di fame, insomma.
«Bisogna avere un po’ fame e noi invece a questi bambini diciamo: non c’è bisogno che tu abbia fame, non c’è bisogno che tu pensi, penso io per te, ti do io da mangiare quando lo decido io, cioè sempre. Lei prima ha parlato di voglia di stare a casa a godersi il bambino».
Sì.
«Però i bambini non sono oggetti di godimento, i bambini sono persone, fin da subito persone, che hanno bisogno che noi sappiamo cosa fare per fargli del bene, cioè per farli crescere, per renderli autonomi. Bisogna metterli in condizione di essere autonomi e noi questo non lo facciamo, se pensiamo “ho voglia di stare a casa a godermi mio figlio”. Se dici così stai parlando di te, non stai parlando del bambino. C’è un narcisismo della maternità che è molto sostenuto».
Tuttavia abbiamo avuto generazioni di bambini e bambine cresciute da madri che facevano le casalinghe. E sono cresciute con una capacità di affrontare le sfide della vita spesso migliore di quella che mostrano tanti ragazzini di oggi, che alla prima difficoltà sembrano implodere.
«Ha ragione, ma era tutto un altro sistema familiare. Era un sistema in cui avevamo due genitori che contavano, una contava per certe cose, l’altro contava per certe altre. Ora abbiamo dei sistemi familiari in cui conta solo un genitore e generalmente le decisioni sui figli sono appaltate a un solo genitore cioè la madre».
Questo avviene perché, come si dice spesso, il padre è scomparso?
«Il padre è scomparso, un po’ si è assentato e un po’ viene assentificato. Siamo in un’epoca in cui i padri devono reinventarsi una paternità che non preveda solo regole e educazione dopo una certa età, ma già partire dal cambio del pannolino. Il bambino ha bisogno di sapere che ci sono mani differenti che lo toccano, che lo cambiano, modi differenti. Anche noi donne dobbiamo fidarci delle mani del nostro compagno, cosa che invece succede molto raramente. La struttura della famiglia è cambiata. La madre che ha cresciuto le generazioni passate era una madre che sicuramente aveva potere all’interno della famiglia, però riconosceva l’altro. Riconosceva il padre come altro anche nell’amore, come altro necessario ai figli».
E oggi?
«Il discorso che oggi passa è che non è necessario un padre. Io sono anche una psicologa giuridica e mi rendo conto di quanto stia esplodendo un fenomeno di cui non parlo in questo libro, ma che è molto importante. Sta crescendo il rifiuto genitoriale».
Si tende a rifiutare il padre?
«In Europa non succede così, in Francia per esempio la garde alternée, l’affidamento condiviso, è assolutamente la norma, per noi invece la norma è collocarlo dalla madre. E questo collocamento prioritario dalla madre, che non è previsto dalla legge ma che si è imposto nei tribunali, penalizza la frequentazione di uno dei due genitori. Insomma è diffuso un discorso che sostiene che la madre possa fare sia la madre sia il padre. La madre è già onnipotente abbastanza perché dà la vita, se le facciamo svolgere anche la funzione paterna abbiamo dei bambini che credono davvero all’onnipotenza materna...».
Sembra che lei sostenga che i bambini siano un po’ fagocitati dalla madri odierne...
«Sono fagocitati, ma questo non vuol dire che ci siano delle madri cattive. Ci sono delle madri che credono, come dire, che sia un bene far questo con i bambini e io cerco di indicare i punti critici di questo discorso sociale».
Punti critici che sono piuttosto evidenti se ci si guarda intorno... Lei ha scritto tanti libri interessanti sull’ipermaterno, e credo che questa presenza esorbitante del materno non esista solo nelle famiglie, ma anche ma a livello simbolico nella società. Manca il padre simbolico, cioè quello che segna i limiti e i confini e fissa le regole. In qualche modo tutta la nostra società è molto materna, se mi passa il termine, anche se in modo perverso. È una grande madre lo Stato, lo sono le istituzioni che tendono a controllarci e dicono di agire per il nostro bene, lo è l’intera società che tenta di tenerci al riparo dal male... Ciò produce persone, ragazzi soprattutto, che alla prima difficoltà cedono, si sciolgono come i proverbiali fiocchi di neve.
«Credo che sia così. Prendiamo per esempio i discorsi dei politici. Se li analizziamo notiamo che sono tutti farciti di “che cosa ti do, quanto ti do, quanto ti allatto”... È davvero tutto un discorso di allattamento anche politico... Tutto questo non fa bene neanche al cittadino, perché resta sempre bambino, questo l’ho scritto in un altro libro, La famiglia fa male. Ma vorrei tornare su questo discorso riguardante i fiocchi di neve, su questi bambini e questi ragazzini che si sciolgono».
Prego.
«C’è uno studio dell’università di Torino di cui parlo in questo libro che mostra come l’ipercontrollo materno - solo materno - e l’iperaffettività materna agiscano a livello cerebrale. L’elettroencefalogramma mostra che certe aree della connettività neurale rimangono permanentemente accese generando un’ansia continua, un’allerta continua, come se i nostri figli avessero l’amigdala sempre pronta. Quindi questi ragazzi hanno un’allerta continua rispetto al vivere: significa che questo tentativo di proteggerli e di controllarli fa male».
«Il virtuale si confonde con la realtà e dà una falsa idea di onnipotenza»

Walter Siti
La fuga immobile (Silvio Berlusconi editore), il nuovo libro di Walter Siti, coglie da subito e alla perfezione le ambiguità della generazione Z. «Ma i teenager della Generazione Z desiderano essere salvati?», scrive Siti. «Alcuni, i più esposti, quelli che con le proprie ali fendono l’aria per tutto lo stormo, forse ce lo chiedono con due posture apparentemente contrapposte: gli uni si mostrano abulici, depressi, si tagliuzzano le braccia e le gambe, trasformano la propria stanza in un bunker; gli altri, nati perlopiù in quartieri meno comodi, si riuniscono in bande, aggrediscono e vandalizzano, non si sottomettono e costituiscono la disperazione dei professori di periferia. Invece quelli che nello stormo si tengono al centro, al riparo, adottano una strategia meno appariscente: si defilano, si appiattiscono, vanno bene a scuola, dissimulano perfino di stare volando. Mimetizzano la propria fragilità sotto una innegabile fragilità generale».
Ed è esattamente questa fragilità che sta al centro dell’indagine di Siti, il quale ne esamina le manifestazioni e le cause traendone varie conclusioni, non tutte esaltanti. Come spiega in questa intervista, forse alcuni processi sono irreversibili, e alcuni cambiamenti sono qui per restare. La sensazione è di vivere all’interno di una grande utopia transumana che propone il superamento della fatica e ci illude di poter eliminare il male a tavolino, ma in realtà produce soltanto individui più friabili che affrontano la vita con enormi difficoltà. Forse, però, da tutto questo non si può tornare indietro.
Da dove nasce la fragilità delle giovani generazioni? Sembra essere tipica soprattutto dei maschi...
«In realtà credo che sia problematica per entrambi i sessi, per esempio per alcune cose come l’autolesionismo, le ragazze sono più coinvolte dei maschi, i maschi sembra che siano più propensi al suicidio, insomma ogni sesso ha il suo modo di esprimere le fragilità. Credo che all’inizio, una ventina, trentina di anni fa, si sia cominciato con il fenomeno degli hikikomori, cioè i ragazzi che preferivano chiudersi in casa e non uscire più, vivendo soltanto di social e di collegamenti virtuali. I primi libri che ho cominciato a leggere sulla fragilità si riferivano proprio alla diffusione della tecnologia e ai suoi effetti. Si è cominciato a parlare di una specie di condizionamento neurologico che nasceva proprio da una eccessiva frequentazione con il digitale. L’altro elemento da cui si era partiti per riflettere su questa fragilità era una abitudine che aveva preso piede nelle università americane di creare dei safe spaces, cioè degli spazi sicuri, luoghi in cui alcuni ragazzi potevano andare se temevano che qualche lezione o qualche conferenza avrebbe potuto procurare loro dei traumi. Questo fenomeno si è esteso ai cosiddetti trigger warning, cioè gli avvisi che venivano messi nei programmi di studio universitari e perfino in certi romanzi (ad esempio quelli per gli young adult) e che segnalavano il fatto che alcuni contenuti avrebbero potuto causare traumi. Quindi era nata questa idea che i ragazzi, soprattutto gli adolescenti tra i 13 e i 17/18 anni, mostrassero di avere continuamente paura di essere traumatizzati e si cominciò a colpevolizzare gli adulti, i genitori».
Genitori iperprotettivi...
«Sì, si diceva appunto che i genitori fossero stati iperprotettivi e quindi a forza di proteggerli da tutto fin quando erano piccoli, non hanno consentito ai figli di crearsi quella specie di corazza che tutti noi ci siamo creati quando le cose non andavano bene, quando succedeva qualcosa di avverso».
E non è così, non c’entra il modo in cui crescono?
«Io mi sono fatto una idea leggermente diversa, Ho proprio l’impressione che molti di questi ragazzi facciano fatica a distinguere tra il mondo virtuale e il mondo reale».
Forse i social sono un sintomo. A me pare che il tema sia quello che lei aveva già affrontato in un libro precedente, cioè la scomparsa della fatica, dell’idea che se si vuole ottenere qualcosa servono tempo, sacrificio, abitudine alle condizioni avverse...
«Questo è un elemento parziale che appartiene a un fenomeno più grande che non coinvolge soltanto i giovani. Il mondo del neoconsumismo e della pubblicità è basato sul fatto che ogni desiderio sia immediatamente realizzabile. È l’illusione pubblicitaria sulla quale si fonda la possibilità stessa di far comprare continuamente cose nuove: esprimi un desiderio e immediatamente dopo lo vedrai realizzato. È sparita quella si chiamava intermediazione: se vuoi ottenere qualcosa non lo puoi ottenere tutto e subito e non lo puoi ottenere da solo. Servono delle formazioni intermedie che ti possono aiutare a raggiungere certi obiettivi. Oggi l’idea è assolutamente individualista: ci sei tu solo, la storia e la geografia sono praticamente finite perché in un istante puoi collegarti con un tuo amico coreano e puoi rispondere a delle domande grazie all’intelligenza artificiale... Si è creato una specie di senso di onnipotenza che lentamente è andato a collidere col fatto che invece nessuno è onnipotente e da lì nascono un’infinità di frustrazioni».
Del distacco dalla realtà fa parte l’idea a cui accennavo della abolizione della fatica, ma anche la convinzione che si possa eliminare il male dal mondo cambiando le parole, purificando il linguaggio e di conseguenza la realtà.
«Questa è un’idea fondamentalmente nominalistica: se cambi etichetta alle cose, le cose in qualche misura cambieranno per forza. Io ho l’impressione che al di là di questo ci sia qualcosa di ancora più serio che riguarda questa ultima generazione. Ai ragazzi di adesso ho l’impressione che sia successo anche qualcosa in più».
E cioè?
«Mentre appunto i genitori li hanno protetti più che potevano dai rischi che loro credevano reali, non li hanno invece protetti da cose che non conoscono. Questa è la prima generazione in cui i ragazzi di 16-17 anni su molte cose ne sanno più dei genitori: se si rompe un computer non è il figlio che va dal papà dicendo “mi insegni come si ripara”, ma il papà che va dal figlio per farsi aiutare. I genitori non hanno capito che se regalano a 8 anni un telefonino al figlio per sapere sempre dove si trova, dopo un giorno questo ragazzino di 8-9 anni guarderà tutti i porno possibili e immaginabili perché basta un compagnuccio più sveglio che gli spieghi come si fa. I genitori hanno protetto i figli dalle cose sbagliate».
Mi pare che da una parte il suo messaggio sia: «Ragazzi questa è la realtà, adattatevi, accettatela». Ma da un altro punto di vista mi pare che certe derive non le piacciano affatto, anche se le affronta con una sorta di rassegnata ironia.
«Io penso semplicemente che avesse ragione la signora Thatcher quando diceva che non ci sono alternative».
Cioè non esiste possibilità di cambiamento?
«Ci sono molti ragazzi che oggi scendono in strada con delle esigenze sacrosante di tipo etico e anche di pietà umana. Dicono che sia inaccettabile che in certi posti succedano cose tremende, si uccidano bambini eccetera. E ripeto, trovo questo assolutamente giustissimo e sacrosanto, ma è come se non si avesse poi la possibilità di fare il passo successivo, cioè di dire “questa società non mi piace dunque la cambio dalle radici”. Non è più possibile quella che una volta si chiamava abolizione dello stato di cose presente, che era la definizione che dava Marx della rivoluzione. Ancora quando si scendeva in piazza per il Vietnam c’erano due modi di intendere l’economia a seconda che si stesse di qua e di là della Cortina di ferro, adesso ho l’impressione che ce ne sia uno solo, e punto. Mi sembra dunque che la direzione sia unica, assegnata. Vi ricordate i ragazzi di Occupy Wall Street che dicevano, un po’ di anni fa, noi siamo il 99% mentre loro, i finanzieri, sono soltanto l’1% e quindi vinceremo noi? Beh, ha vinto l’1%».
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La psicologa Laura Pigozzi: «Il bambino per crescere non ha bisogno di una presenza troppo assidua. Oggi la donna tende a prendere su di sé anche il ruolo del padre. E pure in politica si “allattano” i cittadini come fossero infanti».Lo scrittore Walter Siti: «I genitori proteggono i figli dai rischi sbagliati: regalano loro un telefonino a 8 anni per sapere dove si trovano e così li espongono a ogni genere di pornografia. I cortei in piazza non invertiranno la deriva».Lo speciale contiene due interviste.La realtà quotidiana ci mostra giovani generazioni - anche e soprattutto maschili - afflitte da ben altri problemi che non siano il controllo della forza virile. Anzi, il guaio principale pare essere la debolezza, la fragilità della gioventù, che pure si può tradurre in atti di violenza commessi contro altri o contro sé stessi. La psicologa Laura Pigozzi e lo scrittore Walter Siti analizzano il problema intervistati dalla Verità.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/giovani-fragilita-psicologia-2674234410.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ce-un-narcisismo-della-maternita-che-rende-i-ragazzi-ansiosi-e-insicuri" data-post-id="2674234410" data-published-at="1761509935" data-use-pagination="False"> «C’è un narcisismo della maternità che rende i ragazzi ansiosi e insicuri» Laura Pigozzi Laura Pigozzi è psicoanalista, psicologa clinica e giuridica penale e civile e filosofa. Si è formata e lavora in Italia e in Francia ed è l’ideatrice del concetto di plusmaterno. In numerosi saggi ha spiegato come nella nostra società si assista a una sorta di esondazione del materno, ci siano madri ipertrofiche o troppo presenti. Quali sono le conseguenze di tutto questo sui ragazzi e le ragazze? Come si cresce in un mondo in cui il padre evapora e il materno invece domina? Parte della risposta si trova nel nuovo libro della Pigozzi, Non solo madri, edito da Raffaello Cortina.Dottoressa, il suo libro si intitola Non solo madri. A me pare però che oggi le donne a tutto siano spinte tranne che a diventare madri.«Non solo madri vuole arrivare sia alle giovani donne che hanno figli, sia a quelle che stanno pensando di averne, sia a quelle che desiderano non averne, quindi dà anche una legittimità a chi desidera non avere figli, ma il problema principale è che quando si hanno figli si entra in una dimensione, in un discorso sociale che esalta moltissimo la dimensione del materno, ma la esalta in senso sacrificale, per cui io continuo a ricevere giovani ragazze con master e lauree brillanti o carriere ben avviate che alla nascita del primo bambino, o di Gesù bambino come dico io, stanno a casa, lasciano tutto e si dedicano alla crescita di questo figlio. Il problema qual è? Che il bambino per crescere non ha bisogno di una presenza così assidua e in-intermittente».E di che cosa ha bisogno?«Ha bisogno di una presenza intermittente della madre, cioè la madre che va e che viene, perché altrimenti non può pensare. La madre è, come dire, tutto ciò che un bambino desidera, quindi avendola sempre lì è come se non avesse mai la possibilità, come diciamo noi psicanalisti, di allucinarla, cioè di pensarla. Dunque quello che lei dice è vero: ci sono molte madri che pensano che entrare nella dimensione della maternità sia una grande fregatura, ma lo è solo se noi pensiamo alla madre “tutta madre”, non se pensiamo alla madre “non solo madre”. Il nostro discorso sociale idealizza molto chi è entrata nella maternità, e chi non lo ha ancora fatto fatica perché ha timore».Mi perdoni, ma che male c’è se una madre vuole restare molto con suo figlio, anche solo per goderselo?«Il fatto è che sul piano dello sviluppo psichico ogni bambino ha bisogno anche di spazio, ha bisogno, come dicevo, di pensiero, e si pensa quando non si è soddisfatti. Immaginate una persona satolla che ha fatto il pranzo di Natale: non pensa, perché è nella grandissima soddisfazione».Bisogna che resti un po’ di fame, insomma.«Bisogna avere un po’ fame e noi invece a questi bambini diciamo: non c’è bisogno che tu abbia fame, non c’è bisogno che tu pensi, penso io per te, ti do io da mangiare quando lo decido io, cioè sempre. Lei prima ha parlato di voglia di stare a casa a godersi il bambino».Sì.«Però i bambini non sono oggetti di godimento, i bambini sono persone, fin da subito persone, che hanno bisogno che noi sappiamo cosa fare per fargli del bene, cioè per farli crescere, per renderli autonomi. Bisogna metterli in condizione di essere autonomi e noi questo non lo facciamo, se pensiamo “ho voglia di stare a casa a godermi mio figlio”. Se dici così stai parlando di te, non stai parlando del bambino. C’è un narcisismo della maternità che è molto sostenuto».Tuttavia abbiamo avuto generazioni di bambini e bambine cresciute da madri che facevano le casalinghe. E sono cresciute con una capacità di affrontare le sfide della vita spesso migliore di quella che mostrano tanti ragazzini di oggi, che alla prima difficoltà sembrano implodere.«Ha ragione, ma era tutto un altro sistema familiare. Era un sistema in cui avevamo due genitori che contavano, una contava per certe cose, l’altro contava per certe altre. Ora abbiamo dei sistemi familiari in cui conta solo un genitore e generalmente le decisioni sui figli sono appaltate a un solo genitore cioè la madre».Questo avviene perché, come si dice spesso, il padre è scomparso?«Il padre è scomparso, un po’ si è assentato e un po’ viene assentificato. Siamo in un’epoca in cui i padri devono reinventarsi una paternità che non preveda solo regole e educazione dopo una certa età, ma già partire dal cambio del pannolino. Il bambino ha bisogno di sapere che ci sono mani differenti che lo toccano, che lo cambiano, modi differenti. Anche noi donne dobbiamo fidarci delle mani del nostro compagno, cosa che invece succede molto raramente. La struttura della famiglia è cambiata. La madre che ha cresciuto le generazioni passate era una madre che sicuramente aveva potere all’interno della famiglia, però riconosceva l’altro. Riconosceva il padre come altro anche nell’amore, come altro necessario ai figli».E oggi?«Il discorso che oggi passa è che non è necessario un padre. Io sono anche una psicologa giuridica e mi rendo conto di quanto stia esplodendo un fenomeno di cui non parlo in questo libro, ma che è molto importante. Sta crescendo il rifiuto genitoriale».Si tende a rifiutare il padre?«In Europa non succede così, in Francia per esempio la garde alternée, l’affidamento condiviso, è assolutamente la norma, per noi invece la norma è collocarlo dalla madre. E questo collocamento prioritario dalla madre, che non è previsto dalla legge ma che si è imposto nei tribunali, penalizza la frequentazione di uno dei due genitori. Insomma è diffuso un discorso che sostiene che la madre possa fare sia la madre sia il padre. La madre è già onnipotente abbastanza perché dà la vita, se le facciamo svolgere anche la funzione paterna abbiamo dei bambini che credono davvero all’onnipotenza materna...».Sembra che lei sostenga che i bambini siano un po’ fagocitati dalla madri odierne...«Sono fagocitati, ma questo non vuol dire che ci siano delle madri cattive. Ci sono delle madri che credono, come dire, che sia un bene far questo con i bambini e io cerco di indicare i punti critici di questo discorso sociale».Punti critici che sono piuttosto evidenti se ci si guarda intorno... Lei ha scritto tanti libri interessanti sull’ipermaterno, e credo che questa presenza esorbitante del materno non esista solo nelle famiglie, ma anche ma a livello simbolico nella società. Manca il padre simbolico, cioè quello che segna i limiti e i confini e fissa le regole. In qualche modo tutta la nostra società è molto materna, se mi passa il termine, anche se in modo perverso. È una grande madre lo Stato, lo sono le istituzioni che tendono a controllarci e dicono di agire per il nostro bene, lo è l’intera società che tenta di tenerci al riparo dal male... Ciò produce persone, ragazzi soprattutto, che alla prima difficoltà cedono, si sciolgono come i proverbiali fiocchi di neve.«Credo che sia così. Prendiamo per esempio i discorsi dei politici. Se li analizziamo notiamo che sono tutti farciti di “che cosa ti do, quanto ti do, quanto ti allatto”... È davvero tutto un discorso di allattamento anche politico... Tutto questo non fa bene neanche al cittadino, perché resta sempre bambino, questo l’ho scritto in un altro libro, La famiglia fa male. Ma vorrei tornare su questo discorso riguardante i fiocchi di neve, su questi bambini e questi ragazzini che si sciolgono».Prego.«C’è uno studio dell’università di Torino di cui parlo in questo libro che mostra come l’ipercontrollo materno - solo materno - e l’iperaffettività materna agiscano a livello cerebrale. L’elettroencefalogramma mostra che certe aree della connettività neurale rimangono permanentemente accese generando un’ansia continua, un’allerta continua, come se i nostri figli avessero l’amigdala sempre pronta. 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Invece quelli che nello stormo si tengono al centro, al riparo, adottano una strategia meno appariscente: si defilano, si appiattiscono, vanno bene a scuola, dissimulano perfino di stare volando. Mimetizzano la propria fragilità sotto una innegabile fragilità generale».Ed è esattamente questa fragilità che sta al centro dell’indagine di Siti, il quale ne esamina le manifestazioni e le cause traendone varie conclusioni, non tutte esaltanti. Come spiega in questa intervista, forse alcuni processi sono irreversibili, e alcuni cambiamenti sono qui per restare. La sensazione è di vivere all’interno di una grande utopia transumana che propone il superamento della fatica e ci illude di poter eliminare il male a tavolino, ma in realtà produce soltanto individui più friabili che affrontano la vita con enormi difficoltà. Forse, però, da tutto questo non si può tornare indietro.Da dove nasce la fragilità delle giovani generazioni? Sembra essere tipica soprattutto dei maschi...«In realtà credo che sia problematica per entrambi i sessi, per esempio per alcune cose come l’autolesionismo, le ragazze sono più coinvolte dei maschi, i maschi sembra che siano più propensi al suicidio, insomma ogni sesso ha il suo modo di esprimere le fragilità. Credo che all’inizio, una ventina, trentina di anni fa, si sia cominciato con il fenomeno degli hikikomori, cioè i ragazzi che preferivano chiudersi in casa e non uscire più, vivendo soltanto di social e di collegamenti virtuali. I primi libri che ho cominciato a leggere sulla fragilità si riferivano proprio alla diffusione della tecnologia e ai suoi effetti. Si è cominciato a parlare di una specie di condizionamento neurologico che nasceva proprio da una eccessiva frequentazione con il digitale. L’altro elemento da cui si era partiti per riflettere su questa fragilità era una abitudine che aveva preso piede nelle università americane di creare dei safe spaces, cioè degli spazi sicuri, luoghi in cui alcuni ragazzi potevano andare se temevano che qualche lezione o qualche conferenza avrebbe potuto procurare loro dei traumi. Questo fenomeno si è esteso ai cosiddetti trigger warning, cioè gli avvisi che venivano messi nei programmi di studio universitari e perfino in certi romanzi (ad esempio quelli per gli young adult) e che segnalavano il fatto che alcuni contenuti avrebbero potuto causare traumi. Quindi era nata questa idea che i ragazzi, soprattutto gli adolescenti tra i 13 e i 17/18 anni, mostrassero di avere continuamente paura di essere traumatizzati e si cominciò a colpevolizzare gli adulti, i genitori».Genitori iperprotettivi...«Sì, si diceva appunto che i genitori fossero stati iperprotettivi e quindi a forza di proteggerli da tutto fin quando erano piccoli, non hanno consentito ai figli di crearsi quella specie di corazza che tutti noi ci siamo creati quando le cose non andavano bene, quando succedeva qualcosa di avverso».E non è così, non c’entra il modo in cui crescono?«Io mi sono fatto una idea leggermente diversa, Ho proprio l’impressione che molti di questi ragazzi facciano fatica a distinguere tra il mondo virtuale e il mondo reale».Forse i social sono un sintomo. A me pare che il tema sia quello che lei aveva già affrontato in un libro precedente, cioè la scomparsa della fatica, dell’idea che se si vuole ottenere qualcosa servono tempo, sacrificio, abitudine alle condizioni avverse... «Questo è un elemento parziale che appartiene a un fenomeno più grande che non coinvolge soltanto i giovani. Il mondo del neoconsumismo e della pubblicità è basato sul fatto che ogni desiderio sia immediatamente realizzabile. È l’illusione pubblicitaria sulla quale si fonda la possibilità stessa di far comprare continuamente cose nuove: esprimi un desiderio e immediatamente dopo lo vedrai realizzato. È sparita quella si chiamava intermediazione: se vuoi ottenere qualcosa non lo puoi ottenere tutto e subito e non lo puoi ottenere da solo. Servono delle formazioni intermedie che ti possono aiutare a raggiungere certi obiettivi. Oggi l’idea è assolutamente individualista: ci sei tu solo, la storia e la geografia sono praticamente finite perché in un istante puoi collegarti con un tuo amico coreano e puoi rispondere a delle domande grazie all’intelligenza artificiale... Si è creato una specie di senso di onnipotenza che lentamente è andato a collidere col fatto che invece nessuno è onnipotente e da lì nascono un’infinità di frustrazioni».Del distacco dalla realtà fa parte l’idea a cui accennavo della abolizione della fatica, ma anche la convinzione che si possa eliminare il male dal mondo cambiando le parole, purificando il linguaggio e di conseguenza la realtà.«Questa è un’idea fondamentalmente nominalistica: se cambi etichetta alle cose, le cose in qualche misura cambieranno per forza. Io ho l’impressione che al di là di questo ci sia qualcosa di ancora più serio che riguarda questa ultima generazione. Ai ragazzi di adesso ho l’impressione che sia successo anche qualcosa in più».E cioè?«Mentre appunto i genitori li hanno protetti più che potevano dai rischi che loro credevano reali, non li hanno invece protetti da cose che non conoscono. Questa è la prima generazione in cui i ragazzi di 16-17 anni su molte cose ne sanno più dei genitori: se si rompe un computer non è il figlio che va dal papà dicendo “mi insegni come si ripara”, ma il papà che va dal figlio per farsi aiutare. I genitori non hanno capito che se regalano a 8 anni un telefonino al figlio per sapere sempre dove si trova, dopo un giorno questo ragazzino di 8-9 anni guarderà tutti i porno possibili e immaginabili perché basta un compagnuccio più sveglio che gli spieghi come si fa. I genitori hanno protetto i figli dalle cose sbagliate».Mi pare che da una parte il suo messaggio sia: «Ragazzi questa è la realtà, adattatevi, accettatela». Ma da un altro punto di vista mi pare che certe derive non le piacciano affatto, anche se le affronta con una sorta di rassegnata ironia.«Io penso semplicemente che avesse ragione la signora Thatcher quando diceva che non ci sono alternative».Cioè non esiste possibilità di cambiamento?«Ci sono molti ragazzi che oggi scendono in strada con delle esigenze sacrosante di tipo etico e anche di pietà umana. Dicono che sia inaccettabile che in certi posti succedano cose tremende, si uccidano bambini eccetera. E ripeto, trovo questo assolutamente giustissimo e sacrosanto, ma è come se non si avesse poi la possibilità di fare il passo successivo, cioè di dire “questa società non mi piace dunque la cambio dalle radici”. Non è più possibile quella che una volta si chiamava abolizione dello stato di cose presente, che era la definizione che dava Marx della rivoluzione. Ancora quando si scendeva in piazza per il Vietnam c’erano due modi di intendere l’economia a seconda che si stesse di qua e di là della Cortina di ferro, adesso ho l’impressione che ce ne sia uno solo, e punto. Mi sembra dunque che la direzione sia unica, assegnata. Vi ricordate i ragazzi di Occupy Wall Street che dicevano, un po’ di anni fa, noi siamo il 99% mentre loro, i finanzieri, sono soltanto l’1% e quindi vinceremo noi? Beh, ha vinto l’1%».
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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