2023-12-27
«Ciccio sognava un altro tipo di cinema»
Giampiero Ingrassia (Ansa)
Giampiero Ingrassia, ora a teatro con «La strana coppia», ricorda il padre, l’indimenticabile maschera comica in duo con Franco Franchi: «Quante discussioni col suo partner: uno amava cambiare, l’altro preferiva andare sul sicuro. Fellini volle doppiarlo per forza».Giampiero Ingrassia è nato a Roma, nel 1961, poco dopo che il padre, Francesco Ingrassia, Ciccio (1922-2003), si trasferì nella capitale simultaneamente a Franco Benenato, nome anagrafico di Franco Franchi (1928-1992), per iniziare la lunga carriera cinematografica del più celebre duo comico-satirico italiano. Brillante attore di teatro, è cresciuto nel laboratorio-scuola di Gigi Proietti, recitando con lui nel Cyrano, e poi collezionando oltre 40 titoli con affermati registi di prosa. Tuttavia, ha fatto anche cinema (ad esempio Ti amo Maria di Carlo Delle Piane), musical (come Grease con Lorella Cuccarini, Jesus Christ Superstar di Massimo R. Piparo…) e variegata televisione, protagonista di fiction e conduttore anche di quiz. In questa intervista, oltre che di sé, racconta di suo padre e Franchi, entrambi nati a Palermo, da famiglie povere, e fin da ragazzi inclini alla recitazione. Raggiunto il successo con oltre 100 film di genere parodistico-demenziale, con la tv e i caroselli, la coppia ebbe un equilibrio instabile e, nei personaggi inscenati - Ciccio dotto o aspirante tale, Franco giullare con eccezionali capacità mimiche e ginniche - c’era un po’ di loro stessi. Il primo scommise su parti drammatiche, ottenendo risultati pregevoli, il secondo preferiva la loro comicità classica. In realtà erano due maschere tragicomiche, che folgorarono registi d’essai come Fellini, Pasolini e i fratelli Taviani. Talvolta furono coinvolti anche insieme, come nei ruoli di Gatto e Volpe nel Pinocchio di Comencini. È in tournée con la commedia brillante di Neil Simon, del 1965, La strana coppia. Come sta andando?«Sta andando molto bene, e ce l’aspettavamo, perché il pubblico ama sempre Neil Simon, lo riconoscono come un classico, bene o male la commedia la conoscono tutti, se non altro per il film con Jack Lemmon e Walter Matthau. Devo dire che la facciamo bene. A Capodanno saremo a Bologna, poi Napoli e altre città fino a metà febbraio 2024».Storia di due amici, Oscar e Felix, di caratteri opposti, che, per vari motivi si trovano a condividere un appartamento. «Io faccio Felix, quello precisino, che arriva come una meteora a distruggere il mondo di Oscar, con polvere e confusione, un cronista sportivo decaduto, prima era uno dei più pagati. L’appartamento è di Oscar, è conosciuto perché loro, essendo 5 amici, si trovano a giocare a poker. Ma Felix non ci ha mai vissuto. Oscar è separato da un mese, gli dice “vieni a vivere qui, Felix gli invade casa cercando di renderla vivibile”». Due approcci diversi alla gestione di una casa possono far fallire una convivenza tra amici? «Io penso assolutamente di sì. Soprattutto in un rapporto di amicizia tra due persone ormai grandi. Avendo una vita loro, ben definita, infrangere le regole porta inevitabilmente al conflitto».E in un rapporto sentimentale?«Con un rapporto sentimentale di coppia uno cerca pure di fare dei sacrifici, di essere più comprensivo. Più o meno abbiamo convissuto tutti, con le proprie compagne, è un creare un inizio, di una storia, di una famiglia. Ma condividendo una casa, parte della tua libertà la perdi». Può avere più prospettive di riuscita un rapporto basato sull’intimità a distanza, ossia ognuno a casa sua e ci si vede quando si vuole?«Beh, questo è un po’ il sogno di molte coppie. Molti rapporti finiscono quando i due vanno a convivere. È un discorso soggettivo, ma quando c’è da gestire la quotidianità, molti non reggono». Se ci sono figli poi…«Con la creazione di una famiglia e la nascita dei figli si è messi a dura prova, ma ci sono tantissime famiglie che riescono». Lei ha figli?«Ho una figlia di 20 anni, Rebecca, che adesso vive a Bologna da due anni per gli studi. Sta facendo un’accademia di musical che le vale anche come laurea universitaria». Si vede spesso con i baffi, che suo padre portava.«Per questo spettacolo li ho dovuti tagliare. Il mio look cambia in base alle cose che devo fare, capelli corti, capelli lunghi, pizzetto, baffi o no. Quando mi si vede con i baffi, vuol dire che sto facendo un lavoro in cui servono i baffi. L’inverno scorso ho fatto due spettacoli, con capelli corti senza baffi nel primo, capelli lunghi con i baffi nel secondo. Ora starò un po’ senza baffi, perché la tournée dura due anni». Come descriverebbe il carattere di Ciccio Ingrassia nel privato? «Papà aveva un carattere molto semplice, anche se all’apparenza poteva sembrare serioso, questa vena molto ironica, molto alla mano, mai stato spigoloso. Il rapporto con lui è stato sempre di confidenza, complicità, consigli. Mi metteva in guardia dai pericoli. Ripagando in maniera buona e intelligente, si crea un bellissimo rapporto, questo è il segreto. Lo vedo anche con mia figlia. Avendo ricevuto molta fiducia, da giovane, dai miei, anch’io la ripongo nei suoi confronti, con il dialogo, mai imponendo le cose, esattamente come mio padre ha fatto con me». È figlio unico. Avrebbe voluto fratelli o sorelle?«Dico la verità: no, perché, comunque, sono cresciuto con intorno amici, compagni di scuola. No, anche perché ho visto rapporti di fratellanza finire in brutta maniera. Gli amici te li scegli, i parenti no».Ha un ricordo familiare di suo padre che spesso ricorda o rimpiange? «Una cosa molto divertente che facevamo, era il fatto che ci chiamassimo con nomi diversi ogni giorno. Tornava a casa e mi diceva “ciao James”, “ciao Frank”…». Un gioco…«Sì, un gioco che abbiamo continuato sempre, anche da grandi, diciamo fino alla fine, spesso con nomi inglesi…». Essendo due attori…«(ride) Devo dire che questa cosa mi manca. Ora lo fa mia figlia con me, mi chiama Frank, Frankino». Ma Fellini non poteva farlo parlare con la sua voce con accento siciliano nella parte dello zio matto in Amarcord? Per questo non vinse un David di Donatello, di cui ottenne la candidatura.«Mio padre disse a Fellini: “Fammelo fare, ci provo a farlo”, ma Federico era talmente puntiglioso che voleva quello romagnolo autentico. Amarcord è la vita di Fellini da giovane. Infatti, gli attori non romagnoli, come Pupella Maggio, sono doppiati. Fu irremovibile». Nel 1976, tuttavia, vinse il Nastro d’argento, come miglior attore non protagonista, con la sua voce, per la parte dell’onorevole Voltrano in Todo modo di Elio Petri. In un’Italia colpita da una misteriosa epidemia, lo stato maggiore della Dc è riunito in un albergo a parlare di etica. Voltrano dice: «Sì, ho rubato, ma per il partito». Un’anticipazione di Mani pulite. «Eh beh, Sciascia lo scrisse tanto tempo prima, quindi molto di vero, molte intuizioni».Grande interpretazione, un viso allucinato. È fatto passare per pazzo dai colleghi di partito. Poi muore in circostanze misteriose.«Sì, magrissimo, anche quando si flagella, è un’interpretazione particolare. Ed era senza baffi. Elio Petri disse “non voglio il Ciccio Ingrassia che tutti conoscono, ma diverso”, e così mio padre si tagliò i baffi. Lo fece per tre film, uno con Franchi e Franchi li aveva al posto suo, poi per Todo modo, e il terzo in Viaggio d’amore di Ottavio Fabbri (1990, ndr), con Lea Massari e Omar Sharif». Come la pensava, politicamente?«Abbiamo sempre parlato poco di politica, perché comunque mio padre non era certo un estremista, di destra o sinistra, all’epoca la Dc era il partito un po’ più comodo, ma certe cose non le sopportava, diceva sempre che chi saliva al potere persegue gli affari propri e devo dire che aveva anche ragione». Prima parte drammatica nel 1972 in La violenza. Quinto potere di Florestano Vancini. A suo padre, a un certo punto, il genere comico-parodistico stava stretto?«Questo è il motivo per cui loro hanno sempre discusso e si sono separati. Lui voleva fare film, anche con Franco, anche comici, ma di un certo spessore, mentre Franco, che era un grande entusiasta, voleva che continuassero così. È stata una cosa che poi hanno pagato, perché un certo tipo di comicità passa. Insieme fecero Kaos (1984, ndr) dei Taviani, poi Franco morì. Avrebbero potuto evolversi e fare altre cose…». Franco provava un po’ d’invidia nei confronti di Ciccio?«Invidia no, ma devo dire che anche lui, secondo me, avrebbe voluto frequentare un altro tipo di cinema. Ci provò con Tango blu (di Alberto Bevilacqua, 1987, ndr), un film serio ma che non andò molto bene…». Lei ha conosciuto bene Franco. Che carattere aveva?«Mi ha visto nascere. Con lui ho anche lavorato. Quando mio padre fu operato, fu lui a proporre ai produttori che fossi io a sostituirlo a Grand Hotel di Mediaset. Fu bello, un successo. Franco era molto testardo, ma nel giusto. Era difficile lavorare con lui, rispettava il copione un po’ sì e un po’ no, lo diceva anche papà, ma loro avevano una sintonia pazzesca». Quando Costanzo li riappacificò, si capiva che tra i due c’era un profondo legame. «Sì volevano molto bene sì, sono nati a Palermo, si sono conosciuti e apprezzati, hanno condiviso il bene e il male della loro carriera. Mio padre ci rimase male per la morte di Franco, anche perché fu una cosa improvvisa». E il rapporto di suo padre con la moglie, Rosaria Calì?«Un rapporto fantastico, di quelli di una volta, che non esistono più. Mia madre gli è stata accanto fino alla fine». Le accade di sentire il desiderio di parlare con lui?«Sempre. Molte volte mi chiedo cosa avrebbe pensato papà del Covid, del cambiamento dell’umanità, dell’intelligenza artificiale. Mi chiedo se da lassù guarda e commenta assieme a Franco e molti altri. Mi piace pensare che sia così».
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