True
2023-07-30
«Chiariamoci». Marocchino sgozza la ex
In alto l'assassino, Zakaria Atqaoui. Sotto, la vittima Sofia Castelli (Ansa)
Due donne assassinate in modo spietato da due uomini di origine straniera che poi sono corsi in caserma a consegnarsi, sperando di liberarsi la coscienza. Uno a Cologno Monzese (Milano), l’altro a Rovereto (Trento). Una studentessa e una pensionata. Strappate via a coltellate la prima e a colpi d’ascia la seconda.
Sofia Castelli aveva solo 20 anni e il sogno di laurearsi in sociologia alla Bicocca mentre lavorava da cassiera in un market, si è accasciata in una pozza di sangue, sgozzata con un coltellaccio da Zakaria Atqaoui, 23 anni, nato a Rivoli, in provincia di Torino, ma di origini marocchine. Origini che rivendicava sui social, dove sono ben presenti le gif (foto animate) della stella verde su sfondo rosso, ovvero la bandiera del Marocco. Lei lo aveva lasciato, ma continuava a vederlo. E l’altra notte, che era da sola a casa perché i genitori erano in Sardegna per partecipare alla festa di un matrimonio, dopo una serata passata in discoteca con lui e con un’amica, ha commesso l’errore più grave: permettergli di salire nell’appartamento di Corso Roma a Cologno Monzese.
Zakaria durante una lite ha preso un coltellaccio e l’ha colpita al collo con più fendenti. Le ultime ore di vita della ragazza sono ricostruite nelle sue storie di Instagram. Alle 5.58, rientrando a casa, ha immortalato il cielo albeggiante sulla palazzina in cui viveva con i suoi. Ma probabilmente era già inquieta, visto che il sottofondo musicale che aveva scelto, una canzone del rapper Vegas Jones, nella quale l’artista manda a quel paese la gente che ha attorno e a cui sostiene di non dover rendere conto. Le ultime frasi sono: «Non ti permetto di metterci bocca, non l’ho mai lasciato fare a nessuno». Era probabilmente quello che Sofia avrebbe voluto dire a Zakaria. E forse, poi, una volta a casa l’ha fatto davvero. Ma di certo non immaginava che quel ragazzo che conosceva sin dall’adolescenza, e che i suoi genitori avevano accolto come un figlio, potesse arrivare a commettere quel gesto estremo.
Le poche foto che Sofia ha postato la descrivono come una delle tante ragazze della sua età: il selfie davanti allo specchio con l’iPhone in mano, l’abito dal corpetto scintillante da indossare in discoteca, una vacanza in Sicilia con le amiche. Fino a venerdì. Quella notte maledetta passata al Beach club, una discoteca milanese, alla quale Sofia ha dedicato due video. Aveva le ore contate. All’alba è scattato qualcosa nella testa di Zakaria. Qualcosa che non ha ancora spiegato.
Il movente, infatti, è già un rompicapo per i carabinieri di Cologno Monzese, che stanno cercando di ricostruire, passo dopo passo, la vicenda. Zakaria è corso al comando della polizia locale, ha confessato l’omicidio e per lui la Procura ha disposto un fermo di indiziato di delitto. Cosa sia accaduto tra le 5.58, ora dell’ultimo post della ragazza, e le 9 del mattino, quando Zakaria è arrivato in caserma, è ancora un mistero, che l’indagato non ha chiarito durante l’interrogatorio con il pm di Monza Emma Gambardella.
Il magistrato ha svolto anche un sopralluogo nell’appartamento, dove sono in corso i rilievi della sezione investigazioni scientifiche del Nucleo investigativo dell’Arma.
Mara Fait, infermiera caposala all’ospedale di Rovereto in pensione, invece, da anni subiva le angherie del vicino di casa albanese, Shehi Zyba Ilir, 48 anni, operaio. Pure lui dopo il delitto si è consegnato ai carabinieri e ha confessato. Ora è in carcere a Spini di Gardolo. Alle 20 di venerdì l’albanese, che occupava uno dei cinque appartamenti della palazzina di via Fontani davanti alla quale è avvenuto l’omicidio (gli altri quattro sono di proprietà della vittima), stava tornando dall’orto con un’accetta da taglialegna e, quando si è trovato Mara sulla sua strada, l’ha colpita alla testa davanti agli occhi dell’anziana madre, che si è trasformata nella testimone oculare del delitto.
I rapporti tra i due erano conflittuali da anni per questioni condominiali. E più volte erano sfociati in azioni legali. E Mara aveva chiesto perfino l’attivazione del Codice rosso, il programma di tutela delle donne che subiscono violenze e atti persecutori, ma è rimasta inascoltata. L’ultima denuncia risale allo scorso marzo, quando la donna ha denunciato l’albanese per aggressione. Temeva per la sua incolumità. E ieri è arrivata la prova che non si trattava di paranoie. Shehi ha brandito l’ascia, che poi ha buttato in un cespuglio (dove è stato ritrovato dai carabinieri), e si è diretto in caserma. Agli inquirenti ha detto di essere esasperato e di non ricordare cosa sia successo: «Quando l’ho vista non ho capito più nulla». Poi il black out. Le scene successive le ha raccontate ai carabinieri e al pm Viviana Del Tedesco la mamma della vittima. Il figlio della vittima si è affacciato alla finestra solo in un secondo momento, quando ha sentito le urla. Quando è corso in strada ha trovato il corpo di sua madre a terra e la nonna in lacrime.
Col mare calmo tornano gli sbarchi. A Lampedusa arrivano 330 migranti
C’era stato il mare mosso e gli sbarchi si erano fermati, poi il mare è tornato calmo e gli sbarchi sono ricominciati. Senza fine. Senza tregua. In una continua emorragia che scarica i migranti dal mare.
Dato aggiornato a ieri pomeriggio, i migranti approdati a Lampedusa erano 330 per un totale di 11 sbarchi. Per lo più subsahariani, qualche tunisino ed egiziano. Hanno detto di essere salpati da Sfax, città portuale della costa orientale della Tunisia. Tutti sono stati portati all’hotspot dell’isola, dove le presenze sono tornate a salire.
Ieri mattina erano 645, ma ieri pomeriggio, in seguito ai trasferimenti effettuati, erano poco meno di 600. Venerdì scorso erano 320. Ma il problema non è tanto l’hotspot di Lampedusa, dove la permanenza media di un migrante è di 28 ore, il problema è che questi poi vanno trasferiti, redistribuiti e non si sa più dove metterli. In alcune regioni d’Italia sono già apparsi i primi accampamenti e si rischia di tornare all’era delle tendopoli. A Verona per esempio, due settimane fa sono apparse le tende mimetiche dell’esercito perché la struttura della vecchia palazzina Nato, nella zona delle Torricelle, adibita a ospitare i «profughi», ha esaurito i posti disponibili. Stop. Finito. Non ci stanno più.
Quando i migranti arrivano a Lampedusa infatti, mettono piede sul molo scortati dalle barche della guardia costiera e della guardia di finanza, i sanitari poi prendono un braccialetto, danno ai richiedenti asilo un codice di arrivo e un documento dove viene indicata la nazionalità dichiarata, l’età approssimativa, e l’indicazione se il soggetto arriva in gruppo, in famiglia o da solo. Se il migrante ha necessità viene assistito medicalmente, altrimenti sale sul pullman e viene portato all’hotspot. Qui la procedura di identificazione dura ore, i migranti vengono chiamati per gruppo di sbarco e poi vengono smistati. Infatti, ieri in giornata ne sono stati trasferiti 345 e in serata 180.
Alle dieci di ieri mattina, i 345 migranti sono stati imbarcati sulla nave Galaxy, il traghetto di linea che collega Porto Empedocle con le isole Pelagie, e a scortarli sulla motonave c’erano due squadre del battaglione Sicilia e Puglia. Ma gli arrivi sono veramente tanti. Giusto per rendere l’idea. La settimana scorsa, nella notte tra venerdì e sabato, i barchini soccorsi dalla guardia di finanza e dalla capitaneria di porto, sono stati 7. E venerdì 21 luglio, sull’isola di Lampedusa ci sono stati ben 28 approdi per un totale di 936 persone. Numeri da far accapponare la pelle.
Sempre due settimane fa, c’è stato un momento in cui al centro della contrada Imbriacola c’erano 2501 ospiti, poi 760 sono stati scortati dalla polizia e trasferiti verso il porto. Tre giorni fa, AlarmPhone, la piattaforma nata per soccorrere i migranti in mare, alle 22.35 lanciava l’allarme per una «barca in pericolo con 100 persone a bordo tra Corfù e l’Italia». «Le autorità sono allertate», scrivevano, «e chiediamo loro di soccorrere senza indugio». E che vengano soccorsi, su questo non ci piove, a parlare sono i numeri. Ma a Catania in meno di tre mesi, in 15.000 sono stati accolti nella struttura di via Forcile, nei locali dell’ex mercato ortofrutticolo ed ex hub vaccinale. Impressiona soprattutto il numero di minori, ossia 700. E una decina di donne in gravidanza. Migranti provenienti soprattutto dalla Tunisia, ma anche eritrei, etiopi, afgani, egiziani, marocchini.
Nelle ultime settimane la struttura ha raggiunto picchi di 500 persone assistite al giorno, e ieri era previsto l’arrivo di altri 400 migranti provenienti da Porto Empedocle. Qui l’ospitalità dura di media dai due ai quattro giorni, poi gli ospiti vengono preparati per il trasferimento nelle varie regioni. E infatti arrivano ormai in tutta Italia. Da inizio anno ne sono sbarcati finora 83.439.
«Ammirevole lo sforzo di tanti catanesi che, facenti parte di varie associazioni», ha detto il vescovo Luigi Renna, «muovono un piccolo esercito di volontari per rispondere all’emergenza».
Continua a leggereRiduci
Orrore a Cologno Monzese: il giovane ha ucciso a coltellate la studentessa universitaria, poi è andato in caserma a confessare. A Rovereto una infermiera in pensione è stata ammazzata a colpi di ascia dal vicino albanese: «L’ho vista e ho perso la testa».Nuovi sbarchi a Lampedusa: I barchini sarebbero partiti dalla Tunisia. Hotspot al limite malgrado i trasferimenti.Lo speciale contiene due articoli.Due donne assassinate in modo spietato da due uomini di origine straniera che poi sono corsi in caserma a consegnarsi, sperando di liberarsi la coscienza. Uno a Cologno Monzese (Milano), l’altro a Rovereto (Trento). Una studentessa e una pensionata. Strappate via a coltellate la prima e a colpi d’ascia la seconda. Sofia Castelli aveva solo 20 anni e il sogno di laurearsi in sociologia alla Bicocca mentre lavorava da cassiera in un market, si è accasciata in una pozza di sangue, sgozzata con un coltellaccio da Zakaria Atqaoui, 23 anni, nato a Rivoli, in provincia di Torino, ma di origini marocchine. Origini che rivendicava sui social, dove sono ben presenti le gif (foto animate) della stella verde su sfondo rosso, ovvero la bandiera del Marocco. Lei lo aveva lasciato, ma continuava a vederlo. E l’altra notte, che era da sola a casa perché i genitori erano in Sardegna per partecipare alla festa di un matrimonio, dopo una serata passata in discoteca con lui e con un’amica, ha commesso l’errore più grave: permettergli di salire nell’appartamento di Corso Roma a Cologno Monzese. Zakaria durante una lite ha preso un coltellaccio e l’ha colpita al collo con più fendenti. Le ultime ore di vita della ragazza sono ricostruite nelle sue storie di Instagram. Alle 5.58, rientrando a casa, ha immortalato il cielo albeggiante sulla palazzina in cui viveva con i suoi. Ma probabilmente era già inquieta, visto che il sottofondo musicale che aveva scelto, una canzone del rapper Vegas Jones, nella quale l’artista manda a quel paese la gente che ha attorno e a cui sostiene di non dover rendere conto. Le ultime frasi sono: «Non ti permetto di metterci bocca, non l’ho mai lasciato fare a nessuno». Era probabilmente quello che Sofia avrebbe voluto dire a Zakaria. E forse, poi, una volta a casa l’ha fatto davvero. Ma di certo non immaginava che quel ragazzo che conosceva sin dall’adolescenza, e che i suoi genitori avevano accolto come un figlio, potesse arrivare a commettere quel gesto estremo. Le poche foto che Sofia ha postato la descrivono come una delle tante ragazze della sua età: il selfie davanti allo specchio con l’iPhone in mano, l’abito dal corpetto scintillante da indossare in discoteca, una vacanza in Sicilia con le amiche. Fino a venerdì. Quella notte maledetta passata al Beach club, una discoteca milanese, alla quale Sofia ha dedicato due video. Aveva le ore contate. All’alba è scattato qualcosa nella testa di Zakaria. Qualcosa che non ha ancora spiegato. Il movente, infatti, è già un rompicapo per i carabinieri di Cologno Monzese, che stanno cercando di ricostruire, passo dopo passo, la vicenda. Zakaria è corso al comando della polizia locale, ha confessato l’omicidio e per lui la Procura ha disposto un fermo di indiziato di delitto. Cosa sia accaduto tra le 5.58, ora dell’ultimo post della ragazza, e le 9 del mattino, quando Zakaria è arrivato in caserma, è ancora un mistero, che l’indagato non ha chiarito durante l’interrogatorio con il pm di Monza Emma Gambardella. Il magistrato ha svolto anche un sopralluogo nell’appartamento, dove sono in corso i rilievi della sezione investigazioni scientifiche del Nucleo investigativo dell’Arma. Mara Fait, infermiera caposala all’ospedale di Rovereto in pensione, invece, da anni subiva le angherie del vicino di casa albanese, Shehi Zyba Ilir, 48 anni, operaio. Pure lui dopo il delitto si è consegnato ai carabinieri e ha confessato. Ora è in carcere a Spini di Gardolo. Alle 20 di venerdì l’albanese, che occupava uno dei cinque appartamenti della palazzina di via Fontani davanti alla quale è avvenuto l’omicidio (gli altri quattro sono di proprietà della vittima), stava tornando dall’orto con un’accetta da taglialegna e, quando si è trovato Mara sulla sua strada, l’ha colpita alla testa davanti agli occhi dell’anziana madre, che si è trasformata nella testimone oculare del delitto.I rapporti tra i due erano conflittuali da anni per questioni condominiali. E più volte erano sfociati in azioni legali. E Mara aveva chiesto perfino l’attivazione del Codice rosso, il programma di tutela delle donne che subiscono violenze e atti persecutori, ma è rimasta inascoltata. L’ultima denuncia risale allo scorso marzo, quando la donna ha denunciato l’albanese per aggressione. Temeva per la sua incolumità. E ieri è arrivata la prova che non si trattava di paranoie. Shehi ha brandito l’ascia, che poi ha buttato in un cespuglio (dove è stato ritrovato dai carabinieri), e si è diretto in caserma. Agli inquirenti ha detto di essere esasperato e di non ricordare cosa sia successo: «Quando l’ho vista non ho capito più nulla». Poi il black out. Le scene successive le ha raccontate ai carabinieri e al pm Viviana Del Tedesco la mamma della vittima. Il figlio della vittima si è affacciato alla finestra solo in un secondo momento, quando ha sentito le urla. Quando è corso in strada ha trovato il corpo di sua madre a terra e la nonna in lacrime.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/chiariamoci-marocchino-sgozza-la-ex-2662568278.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="col-mare-calmo-tornano-gli-sbarchi-a-lampedusa-arrivano-330-migranti" data-post-id="2662568278" data-published-at="1690664409" data-use-pagination="False"> Col mare calmo tornano gli sbarchi. A Lampedusa arrivano 330 migranti C’era stato il mare mosso e gli sbarchi si erano fermati, poi il mare è tornato calmo e gli sbarchi sono ricominciati. Senza fine. Senza tregua. In una continua emorragia che scarica i migranti dal mare. Dato aggiornato a ieri pomeriggio, i migranti approdati a Lampedusa erano 330 per un totale di 11 sbarchi. Per lo più subsahariani, qualche tunisino ed egiziano. Hanno detto di essere salpati da Sfax, città portuale della costa orientale della Tunisia. Tutti sono stati portati all’hotspot dell’isola, dove le presenze sono tornate a salire. Ieri mattina erano 645, ma ieri pomeriggio, in seguito ai trasferimenti effettuati, erano poco meno di 600. Venerdì scorso erano 320. Ma il problema non è tanto l’hotspot di Lampedusa, dove la permanenza media di un migrante è di 28 ore, il problema è che questi poi vanno trasferiti, redistribuiti e non si sa più dove metterli. In alcune regioni d’Italia sono già apparsi i primi accampamenti e si rischia di tornare all’era delle tendopoli. A Verona per esempio, due settimane fa sono apparse le tende mimetiche dell’esercito perché la struttura della vecchia palazzina Nato, nella zona delle Torricelle, adibita a ospitare i «profughi», ha esaurito i posti disponibili. Stop. Finito. Non ci stanno più. Quando i migranti arrivano a Lampedusa infatti, mettono piede sul molo scortati dalle barche della guardia costiera e della guardia di finanza, i sanitari poi prendono un braccialetto, danno ai richiedenti asilo un codice di arrivo e un documento dove viene indicata la nazionalità dichiarata, l’età approssimativa, e l’indicazione se il soggetto arriva in gruppo, in famiglia o da solo. Se il migrante ha necessità viene assistito medicalmente, altrimenti sale sul pullman e viene portato all’hotspot. Qui la procedura di identificazione dura ore, i migranti vengono chiamati per gruppo di sbarco e poi vengono smistati. Infatti, ieri in giornata ne sono stati trasferiti 345 e in serata 180. Alle dieci di ieri mattina, i 345 migranti sono stati imbarcati sulla nave Galaxy, il traghetto di linea che collega Porto Empedocle con le isole Pelagie, e a scortarli sulla motonave c’erano due squadre del battaglione Sicilia e Puglia. Ma gli arrivi sono veramente tanti. Giusto per rendere l’idea. La settimana scorsa, nella notte tra venerdì e sabato, i barchini soccorsi dalla guardia di finanza e dalla capitaneria di porto, sono stati 7. E venerdì 21 luglio, sull’isola di Lampedusa ci sono stati ben 28 approdi per un totale di 936 persone. Numeri da far accapponare la pelle. Sempre due settimane fa, c’è stato un momento in cui al centro della contrada Imbriacola c’erano 2501 ospiti, poi 760 sono stati scortati dalla polizia e trasferiti verso il porto. Tre giorni fa, AlarmPhone, la piattaforma nata per soccorrere i migranti in mare, alle 22.35 lanciava l’allarme per una «barca in pericolo con 100 persone a bordo tra Corfù e l’Italia». «Le autorità sono allertate», scrivevano, «e chiediamo loro di soccorrere senza indugio». E che vengano soccorsi, su questo non ci piove, a parlare sono i numeri. Ma a Catania in meno di tre mesi, in 15.000 sono stati accolti nella struttura di via Forcile, nei locali dell’ex mercato ortofrutticolo ed ex hub vaccinale. Impressiona soprattutto il numero di minori, ossia 700. E una decina di donne in gravidanza. Migranti provenienti soprattutto dalla Tunisia, ma anche eritrei, etiopi, afgani, egiziani, marocchini. Nelle ultime settimane la struttura ha raggiunto picchi di 500 persone assistite al giorno, e ieri era previsto l’arrivo di altri 400 migranti provenienti da Porto Empedocle. Qui l’ospitalità dura di media dai due ai quattro giorni, poi gli ospiti vengono preparati per il trasferimento nelle varie regioni. E infatti arrivano ormai in tutta Italia. Da inizio anno ne sono sbarcati finora 83.439. «Ammirevole lo sforzo di tanti catanesi che, facenti parte di varie associazioni», ha detto il vescovo Luigi Renna, «muovono un piccolo esercito di volontari per rispondere all’emergenza».
iStock
Di fronte a questa ondata di insicurezza, i labour propongono più telecamere nelle città più importanti del Paese, applicando così, in modo massiccio, il riconoscimento facciale dei criminali. Oltre 45 milioni di cittadini verranno riconosciuti attraverso la videosorveglianza. Secondo la proposta avanzata dai labour, la polizia potrà infatti utilizzare ogni tipo di videocamera. Non solo quelle pubbliche, ma anche quelle presenti sulle auto, le cosiddette dashcam, e pure quelle dei campanelli dei privati cittadini. Come riporta il Telegraph, «le proposte sono accompagnate da un’iniziativa volta a far sì che la polizia installi telecamere di riconoscimento facciale “live” che scansionino i sospetti ricercati nei punti caldi della criminalità in Inghilterra e in Galles. Anche altri enti pubblici, oltre alla polizia, e aziende private, come i rivenditori, potrebbero essere autorizzati a utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale nell’ambito del nuovo quadro giuridico».
Il motivo, almeno nelle intenzioni, è certamente nobile, come sempre in questi casi. E la paura è tanta. Eppure questa soluzione pone importanti interrogativi legati alla libertà della persone e, soprattutto, alla loro privacy. C’è infatti già un modello simile ed è quello applicato in Cina. Da tempo infatti Pechino utilizza le videocamere per controllare la popolazione in ogni suo minimo gesto. Dagli attraversamenti pedonali ai comportamenti più privati. E premia (oppure punisce) il singolo cittadino in base ad ogni sua singola azione. Si tratta del cosiddetto credito sociale, che non ha a che fare unicamente con la liquidità dei cittadini, ma anche con i loro comportamenti, le loro condanne giudiziarie, le violazioni amministrative gravi e i loro comportamenti più o meno affidabili.
Quella che sembrava una distopia lì è diventata una realtà. Del resto anche in Italia, durante il Covid, è stato applicato qualcosa di simile con il Green Pass. Eri un bravo cittadino - e quindi potevi accedere a tutti i servizi - solamente se ti vaccinavi, altrimenti venivi punito: non potevi mangiare al chiuso, anche se era inverno, oppure prendere i mezzi pubblici.
Per l’avvocato Silkie Carlo, a capo dell’organizzazione non governativa per i diritti civili Big Brother, «ogni ricerca in questa raccolta di nostre foto personali sottopone milioni di cittadini innocenti a un controllo di polizia senza la nostra conoscenza o il nostro consenso. Il governo di Sir Keir Starmer si sta impegnando in violazioni storiche della privacy dei britannici, che ci si aspetterebbe di vedere in Cina, ma non in una democrazia». Ed è proprio quello che sta accadendo nel Regno Unito e che può accadere anche da noi. Il sistema cinese, poi, sta potenziando ulteriormente le proprie capacità. Secondo uno studio pubblicato dall’Australian strategic policy institute, Pechino sta potenziando ulteriormente la sua rete di controllo sulla cittadinanza sfruttando l’intelligenza artificiale, soprattutto per quanto riguarda la censura online. Un pericolo non solo per i cinesi, ma anche per i Paesi occidentali visto che Pechino «è già il maggiore esportatore mondiale di tecnologie di sorveglianza basate sull’intelligenza artificiale». Come a dire: ciò che stanno sviluppando lì, arriverà anche da noi. E allora non saranno solamente i nostri Paesi a controllare le nostre azioni ma, in modo indiretto, anche Pechino.
C’è una frase di Benjamin Franklin che viene ripresa in Captain America e che racconta bene quest’ansia da controllo. Un’ansia che nasce dalla paura, spesso provocata da politiche fallaci. «Baratteranno la loro libertà per un po’ di sicurezza». Come sta succedendo nel Regno Unito, dopo anni di accoglienza indiscriminata. O come è successo anhe in Italia durante il Covid. Per anni, ci siamo lasciati intimorire, cedendo libertà e vita. Oggi lo scenario è peggiore, visto l’uso massiccio della tecnologia, che rende i Paesi occidentali sempre più simili alla Cina. E non è una bella notizia.
Continua a leggereRiduci
Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
Continua a leggereRiduci
Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
Continua a leggereRiduci