2023-01-16
La Cgil ama l’Urss, ma il problema è che volta le spalle ai lavoratori
La vicenda dell’inno sovietico a Bologna è eloquente. Il sindacato ha avallato politiche terribili, ma nessuno gliene chiede conto: sono «rossi», quindi buoni. E Lula può persino essere filo Putin senza temere scomuniche.La grottesca vicenda della Cgil di Bologna che «per errore» (sic) fa partire l’inno nazionale dell’Unione Sovietica onde celebrare l’elezione del nuovo segretario locale ha almeno un aspetto positivo. Ci restituisce un quadro piuttosto dettagliato dell’impazzimento ideologico e iconografico in cui siamo precipitati, e ci permette di coglierne con più lucidità alcuni dettagli. Il fatto è che dalle nostre parti continuiamo a leggere il racconto politico secondo categorie che non esistono più o che, se esistono, hanno totalmente mutato definizione rispetto al passato.Basta osservare con attenzione le reazioni alla pubblicazione del video in cui si vede il segretario nazionale del sindacato, Maurizio Landini, tutto sorridente mentre il coro dell’Armata rossa celebra a pieni polmoni la potente Urss. Secondo alcuni, è del tutto naturale che ciò sia avvenuto: la Cgil è comunista, si dice, e non ha fatto altro che manifestare con chiarezza la propria appartenenza ideologica. In realtà non è affatto così semplice. Vero, gli esponenti del sindacato sono ancora legati all’iconografia del socialismo sovietico: esibiscono pugni chiusi, si chiamano compagni, diffondono con gli altoparlanti l’Internazionale o l’inno che resiste dai tempi di Stalin. Però, allo stesso tempo, vanno a braccetto con Mario Draghi, che in altri tempi sarebbe stato considerato un portavoce del padronato. Ne hanno approvato persino le misure restrittive che hanno causato la sospensione dal lavoro di decine di migliaia di persone. Si impegnano, da anni, a sostenere posizioni tipiche di quella che - semplificando all’estremo - potremmo definire agenda globalista, la stessa utilizzata dai grandi capitali internazionali. Dunque si, forse la Cgil ha davvero qualcosa in comune con l’Urss, ma soltanto per ciò che riguarda la soppressione delle libertà, il controllo sociale e l’elitarismo spinto che ne ha ferocemente caratterizzato alcuni periodi. Ma se si segue la distinzione fra destra e sinistra che ancora domina l’immaginario politico italiano, ci si accorge che il sindacato viaggia su tutt’altre direttrici rispetto al socialismo tradizionale, imperniato sulla sacralità del popolo e del lavoro. A occuparsi di tali questioni, oggi, è per lo più la destra identitaria che dai più è definita fascista. Curioso, ma vero. A ulteriore dimostrazione di questa deflagrazione ideologica possiamo citare l’editoriale di Maurizio Molinari uscito ieri su Repubblica. Egli sostiene - che originalità- che il populismo generi violenza. «L’assalto alle istituzioni di Brasilia da parte dei seguaci dell’ex presidente Jair Bolsonaro e la lacerazione del partito repubblicano americano sull’elezione di Kevin McCarthy a presidente della Camera dei Rappresentanti Usa dimostrano che nei due giganti dell’Emisfero Occidentale il populismo resta una minaccia contro i principi democratici nonostante la chiara sconfitta politica dei suoi leader più carismatici», scrive Molinari. Il direttore di Repubblica tira in ballo anche il presunto complottone di estrema destra contro il governo tedesco scoperto a fine dicembre e conclude il suo ragionamento con toni allarmistici: «Il fronte populista-sovranista è riuscito a sopravvivere alle sconfitte politiche subite negli ultimi anni, è diventato più violento e minaccia ancor più la sicurezza delle nostre democrazie. Non solo nelle Americhe ma anche in Europa».Ecco che si ripropone la consueta divisione: da una parte ci sono le forze progressiste impegnate a lavorare per il bene dell’umanità, ovviamente rispettando la democrazia. Dall’altro c’è una temibile Spectre sovranista che unisce leader fascistoidi (o direttamente fascisti) come Trump, Bolsonaro, Orbán, Putin, Le Pen, e persino Salvini e Meloni. È il solito paradigma: il bene sta a sinistra, il male a destra. Peccato che, di nuovo, il quadro sia estremamente più complesso. Prendiamo il Brasile. Dalle nostre parti si è corsi a formulare la più scontata equazione: Bolsonaro è di destra, dunque fascista e cattivo. Lula di sinistra quindi parente del Pd per cui buono. Eppure, Lula è stato tra i padri costituenti del gruppo dei Brics con Russia e Cina, anche di recente ha rilasciato interviste per lo meno scettiche verso una delle icone della sinistra italiana, ovvero Volodymyr Zelensky. Già: il sinistrorso Lula - che pure inveisce contro il bolsonarismo fascista e golpista - chiede la pace in Ucraina. Ma contemporaneamente viene lodato dai commentatori britannici di orientamento blairiano per le posizioni più «riformiste», dunque più filo americane, assunte negli ultimi anni. E - ennesima contorsione - imbastisce una reazione poliziesca capillare per tenere sotto controllo le nutrite fasce popolari che simpatizzano per il cristiano Bolsonaro. Insomma, da una parte Lula appare come un esponente del progressismo mondialista oggi prevalente. Dall’altro, almeno secondo le nostre categorie, dovrebbe apparire come un pericoloso putiniano. A destra, qualcuno potrebbe persino trovate calzante la definizione. C’è infatti chi sostiene che Putin sia una sorta di nuovo Stalin e vada combattuto come si combatté l’Urss. Solo che questa narrazione non collima con la tesi prevalente secondo cui Putin è come Hitler e rientri fra quei leader populisti i quali, a detta di Molinari, generano violenza. Non a caso, la Cgil non ha perso tempo ed è corsa a dichiarare che l’inno trasmesso al suo congresso bolognese era proprio quello sovietico, non quello della Russia dello Zar Vladimir. Riecco la semplificazione ridicola: Urss di sinistra dunque buona, Putin fascista dunque cattivo. Di esempi potremmo portarne molti altri. Potremmo parlare dello scambio di accuse di fascismo andato in scena nei giorni bui del Covid. O, per restare su fatti più recenti, potremmo citare l’atteggiamento mantenuto nei confronti dei cosiddetti «eco guerrieri». Questi ultimi vengono giustificati dai progressisti: sono ambientalisti, dunque di sinistra, dunque bravi anche se a volte sbagliano modi. Eppure, nei fatti, appoggiano il «capitalismo green» gradito alle compagnie transnazionali, e si scontrano con le istituzioni proprio come alcuni dei pericolosi populisti temuti da Molinari. Come vedete, grande è la confusione sotto il cielo, e per qualcuno la situazione è eccellente. Destra e sinistra oggi sono categorie elastiche, del tutto prive di significato, che possono essere utilizzate dal potere per screditare o incensare politici e movimenti che risultano utili all’interesse del momento, a prescindere dalle loro reali posizioni. Finché andrà avanti questa pietosa pantomima, finché continueremo a baloccarci con l’idea che la mortadella è comunista e il prosciutto cotto di destra, proseguiremo ad alimentare una messa in scena che serve soltanto a farci perdere di vista i veri pericoli per la democrazia. Il caso Cgil lo dimostra: il problema non è tanto che abbia mandato l’inno sovietico. Il problema è che abbia agito contro i lavoratori. E questo non è di destra o di sinistra: è soltanto vigliacco.
Sehrii Kuznietsov (Getty Images)