
A Torino, una ragazza nigeriana paga un'organizzazione di connazionali per scappare dalle strutture dello Stato ma poi viene sbattuta sul marciapiede. È anche così che finiscono i 4.800 migranti divenuti «irreperibili» dopo essere stati accolti.Ieri il Viminale ha diffuso i dati riguardanti le richieste d'asilo degli immigrati esaminati negli ultimi mesi dalle commissioni competenti. Da quando Matteo Salvini ha emesso la «direttiva asilo» imponendo un giro di vite, i tempi di valutazione delle varie domande si sono effettivamente ridotti. Dal 5 luglio al 31 agosto sono state smaltite 14.467 pratiche. Appena il 7% degli stranieri (1.041) ha ottenuto lo status di rifugiato. Solo 538 (4%) ha avuto la protezione sussidiaria, mentre la protezione umanitaria l'hanno ottenuta 2.759 persone (19%). 8.147 richieste d'asilo, poi, sono state respinte. Sono numeri confortanti, anche se ovviamente non bastano. «Ora siamo al lavoro per aumentare le espulsioni, cosa che chi mi ha preceduto purtroppo non ha fatto», ha detto il ministro dell'Interno. Il nodo, a ben vedere, è proprio questo, ma ci vorrà qualche tempo per ottenere buoni risultati.Dal comunicato del Viminale, tuttavia, emerge anche un altro dato interessante. Ci sono, infatti, 4.858 migranti che risultano «irreperibili». Non si sa dove siano, poiché sono scomparsi dal sistema dell'accoglienza. A spiegare, in parte, tale cifra è una vicenda di cronaca che mostra dove finiscano gli stranieri e le straniere che si danno alla macchia. I carabinieri della compagnia Torino Mirafiori, assieme a quelli di Borgo Dora, hanno arrestato una nigeriana di 33 anni, residente a Torino, che ha reclutato e indotto alla prostituzione due sue connazionali. O, meglio: due sono quelle accertate, perché la signora faceva parte di un business in cui sono state coinvolte circa cento ragazze. Di storie simili, purtroppo, se ne leggono ogni giorno. Da questa vicenda, tuttavia, emergono alcuni particolari piuttosto rilevanti. A svelarli è una delle due vittime, una ragazza che chiameremo B. Viveva e lavorava in Nigeria, nel negozio di sua sorella. Nell'estate del 2016, è stata avvicinata da una donna che le ha fatto una proposta allettante. Le ha offerto la possibilità di arrivare in Italia e di frequentare un corso di studi che le avrebbe garantito un rapido accesso al mondo del lavoro. B. ci ha pensato un po' su, poi ha accettato. Così, il meccanismo spietato si è messo in moto. B. ha ricevuto indicazioni telefoniche dalla «maman» nigeriana che viveva a Torino. Costei l'ha messa in contatto con un trafficante di uomini. Una figura che nel settore dello schiavismo si chiama «connection man». L'uomo gestiva un centinaio di ragazze. Il suo lavoro consisteva nel condurle - passando via terra dal Niger - fino in Libia. Giunto a Tripoli, il trafficante passava il testimone a un secondo uomo, un arabo, che si occupa del trasporto via mare in Italia. Per questo viaggio - già organizzato e meno rischioso di quelli affrontati da altri migranti - la nostra B. ha dovuto pagare la bella somma di 25.000 euro.I soldi, ovviamente, non li aveva. Li ha sborsati per lei, dall'Italia, la «maman». B. era convinta che avrebbe saldato il conto una volta trovato lavoro in Italia ma, arrivata qui, ha scoperto che per lei non c'erano corsi di formazione né impieghi onesti. Per racimolare i 25.000 euro avrebbe dovuto battere il marciapiede a Torino. Veniamo però al particolare decisivo della storia. La ragazza che abbiamo chiamato B. è arrivata a Lampedusa nell'ottobre del 2016. È stata soccorsa e portata in un centro della Croce rossa italiana. Poi, l'hanno trasferita in un un centro accoglienza a Settimo Torinese. La rete dei trafficanti si estendeva fino a lì, all'interno del centro profughi. B., sempre guidata telefonicamente dalla maman, ha preso contatto con un altra giovane nigeriana, che l'ha aiutata a fuggire. Dopo aver pagato altri 100 euro, B. è stata accompagnata di nascosto fuori dal centro di accoglienza e accompagnata a casa della «maman». La quale, da subito, l'ha sbattuta sulla strada, costringendola a prostituirsi con botte e vessazioni di vario tipo (comprese minacce di morte alla famiglia della ragazza in Nigeria). È in questo modo che alcune migranti escono dal sistema dell'accoglienza per entrare nel fetido universo criminale. Nel marzo scorso, sempre a Torino, è stata scoperta un altro giro di prostituzione: anche in quel caso le «maman» reclutavano ragazze in Nigeria, aspettavano che arrivassero in Italia, poi le facevano uscire dai centri di Bologna, Borgo Mezzanone, Isola Capo Rizzuto e dal Cara di Mineo. Dopo tutto, in questi centri i migranti non sono detenuti: possono muoversi liberamente, non c'è sorveglianza come in una prigione.Questo, finora, è stato il modello italiano. Un modello di cui gli stessi criminali si fanno beffe. Lo dimostra la storia di tale Henry Arehobor, membro di una banda nigeriana che nei mesi scorsi ha creato scompiglio a Ferrara. Costui, ricercato dalla polizia, è riuscito a fuggire in Francia. Gli investigatori lo hanno intercettato mentre, assieme a uno dei suoi compari, commentava le malefatte compiute qui: «Solo in Italia», diceva, «si può fare tutto questo, perché se lo fai in un altro Paese dell'Europa ti prendono e ti mettono in carcere per poi mandarti in Nigeria». Salvini promette che ora l'aria cambierà, e che i rimpatri aumenteranno. Beh, è il caso che la promessa venga mantenuta, e presto.
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





