2022-02-13
C’è un «sacerdote» a Porta Venezia venuto dalle paludi della Louisiana
Il cipresso calvo dei giardini Montanelli di Milano
Nei giardini Montanelli di Milano vive da quasi due secoli un cipresso calvo originario del Sud degli States. Svetta sul resto del parco e i due rami principali biforcati ricordano le braccia aperte di un prete sull’altare. E talora si dice che coloro che capiscono meglio, che vedono più a fondo, siano stranieri in cerca di qualcosa, individui che hanno dovuto tagliare il legame profondo con quel che li definiva e dopo un viaggio, dopo un trauma, lentamente cercano di innestarsi come una specie di melo raro e antico su un tronco intagliato a fondo, dalle mani esperte di un contadino ottuagenario. Magari c’è bisogno di un sostegno, o di una fasciatura stretta, e di tempo per cicatrizzare la ferita, per adattare la propria carne a quella che ci ospiterà, per farsi terra di terra. E così capita che per capire la New York dei nostri giorni non basti soltanto uno sguardo attento e ironico di chi in questo crogiuolo ci è nato ed è cresciuto, come ad esempio Woody Allen e Paul Auster, ma possano ben capirlo, cogliendone sfumature, ambiguità, unicità, bizzarrie anche un Hart Crane, nato e cresciuto altrove, o un Walt Whitman, che dopo la città troverà respiro nei paesaggi remoti e nelle campagne vaste e popolate di voci ordinarie, lavoranti, affittacamere, generali in pensione dopo la guerra civile, per non parlare del cinema dove lo straniero affascinato diventa spesso più radicato di chi in quel luogo è sempre stato. E chi meglio dei cari amici alberi per riconfermare un andamento psicologico, se non psichiatrico. E nei giardini di Milano, quelli che un tempo, quando vennero abbozzati a fine XVIII secolo, caratterizzavano il primo spazio verde della città, volto a oriente, verso San Marco e le sue gondole annerite, sui bastioni di Porta Venezia, cresce uno straniero oramai milanesizzato. Tanto da esserne diventato uno dei testimoni muti più longevi, forse addirittura bicentenario. Cresce a pochi rami da un ponticciolo su un laghetto, e le sue chiome che si innalzano sopra le altre piante attorno, ricadono e sbirciano ora in direzione del museo di storia naturale, ora in direzione del planetario Hoepli.Il vegliardo appartiene alla specie Taxodium disticum, tassodio o cipresso delle paludi o anche cipresso calvo, poiché cresce spesso con le radici sott’acqua e in autunno, come qualsiasi latifoglia, inizia a scurire il denso fogliame aghiforme e poi lo perde quasi completamente. Luogo d’origine sono la Louisiana e altri stati del mezzogiorno di quella confederazione nota come Stati Uniti d’America. La sua corteccia brunita, scura, in parte sembrerebbe suggerirlo. Il suo tronco, a un metro e una spanna da terra, misura 636 cm di circonferenza; si apre nella sua crescita che risale per alcune decine di metri e si spalanca in due ramificazioni laterali che imitano la postura iconica di un prete che ammonisce, un Savonarola per dire, o un san Carlo Borromeo.L’area umida è immersa oramai in un tentativo di foresta tassodica, decine gli esemplari, e alcuni non piccoli proprio a fianco, in fila indiana, del Sacerdote dei Giardini Montanelli. Oltre una staccionata alcune panchine e il corso dei passanti che vanno e che vengono. Lo raggiungo la mattina all’alba, quando l’area è meno frequentata e non corro rischi di essere disturbato, o deriso. Mi accuccio al suo tronco e lo ascolto. «Buongiorno caro albero».«Buongiorno a lei», risponde.«Quest’anno l’inverno è mite, ha nevicato poco niente».«Esatto, infatti già sentiamo le linfe pronte a ricominciare a innervare rami e nuove foglie».«Immagino, sua maestà. Quanto è cambiata la città dalle stagioni della sua giovinezza!».«Oh, ne abbiamo viste caro lei che nemmeno le potremmo raccontare».«Che cosa mi dice della sua vita da albero? Che cosa le piace qui, dove è cresciuto, dove le fa compagnia questa compagine di suoi compatrioti più giovani?»«Cosa vuole che le diciamo, alla nostra età meno accade e meglio si sta. Qui ci piace riposare, ci piace osservare le folaghe e le anatre che si fanno i dispetti, magari per niente. E ogni tanto ci piace spiare le parole zuccherose di qualche giovane coppia di amanti che qui viene a sedere, proprio su quelle panchine. Quel vostro strano strusciarvi addosso, l’abbracciarvi, con le vostre ramificazioni che si contorcono. Noi non potremmo mai. Molti nemmeno si accorgono di noi. Taluni invece si girano e come lei ci vengono a disturbare. Anche a misurare, come se fossimo una statua col suo cavallo o un’altra attrazione da turisti. Per fortuna a noi la pazienza non manca».