2024-02-05
Io, menato e in catene. Quali lezioni vogliamo dare a Viktor Orbán?
Nel riquadro Carmelo Musumeci immortalato mentre è in arresto (Ansa)
Un ex ergastolano, Carmelo Musumeci, diventato scrittore, interviene in margine al caso di Ilaria Salis: «Molti ritengono che il carcere sia una medicina ma è la malattia della società, una gabbia di odio».Caro direttore, a proposito del caso Ilaria Salis vorrei dire che l’Italia è tra i Paesi che non possono certo dare lezioni sulle condizioni carcerarie. Qui da noi molti pensano che il carcere sia la medicina. Non è vero, perché il carcere in Italia rappresenta piuttosto una malattia della società, la gabbia dell’odio e della rimozione sociale. In luoghi come questi non si migliora, ma si peggiora. Nella maggioranza dei casi l’istituzione penitenziaria opera ai margini del diritto, in assenza di ogni controllo democratico, nell’arbitrio amministrativo e nell’indifferenza generale. Per questo io mi definisco un fallimento per il sistema penitenziario in Italia, perché non è riuscito a peggiorarmi come accade nella stragrande maggioranza dei casi.In breve la mia storia. A causa delle mie scelte devianti e criminali e in conseguenza di una guerra fra bande rivali per il predominio di attività illecite nel territorio, nel 1991 fui arrestato. Nel 1992, dopo la morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fu istituito il 41 bis e anch’io, arrestato per reati associativi, fui sottoposto per un periodo al regime del carcere duro e trasferito all’isola dell’Asinara. Qui topi, talponi e ogni specie di insetto mi facevano compagnia. Delle cimici non parlo, perché sono il male minore in quasi tutti i materassi delle carceri dove sono stato.Dicevo, la mia storia. Fui condannato alla pena dell’ergastolo ostativo a qualsiasi beneficio e fui sottoposto pure a un anno e sei mesi d’isolamento totale. Un brutto giorno vennero a prendermi dalla stanzetta che condividevo con altri ergastolani.Mi portarono nella sezione d’isolamento, mi buttarono dentro una cella, mi chiusero il cancello, il blindato, lo spioncino e per un anno e sei mesi non potei più vedere e parlare con altri detenuti. Le condizioni igieniche sanitarie erano disastrose, mancava l’acqua potabile ed entravano i topi dal buco del bagno alla turca: ci mettevo sopra una bottiglia di plastica tagliata a metà per non farli entrare.Smisi anche di fare colloqui con la mia compagna e i miei due figli perché era straziante vederli piangere e battere la manina sul vetro. Caddi in depressione, in quel periodo pensai spesso al suicidio. D’altronde, chi è quell’ergastolano che non pensa di fare uscire dal carcere almeno il suo corpo? Un giorno, un insegnante in pensione mi scrisse e mi propose di riprendere gli studi. Gli risposi chiedendo come avrei potuto studiare se in quel regime e in quel carcere non potevo ricevere libri. Mi rispose di non trovare scuse, che mi avrebbe strappato pagine di libri e me le avrebbe mandate per lettera.E così iniziai a studiare, solo che avevo la censura e a volte mi bloccavano le lettere. Le difficoltà che trovai nello studiare da autodidatta e senza libri mi diedero il motivo per uscire dalla depressione. Presi la terza media, mi diplomai e in seguito mi laureai in Scienze giuridiche, poi in Giurisprudenza e nel 2016 in Filosofia.Un giorno lessi su un libro queste parole di don Lorenzo Milani che mi avevano colpito: «Siete proprio come vi vogliono i padroni, servi, chiusi e sottomessi. Se il padrone conosce 1.000 parole e tu ne conosci solo 100 sei destinato a, essere sempre servo».tornare a studiareQueste parole mi diedero l’energia e la forza di studiare e di non arrendermi nelle difficoltà che trovavo a istruirmi da solo e senza libri. Prima l’ho fatto per rimanere umano, dopo per sopravvivere alla fine per vivere.Studiare mi è costato anni di regimi duri, punitivi e d’isolamento perché spesso mi impedivano persino di avere quaderni o una penna per scrivere. E in certi casi mi lasciavano la penna, ma mi levavano la carta perché non c’è cosa peggiore, per l’istituzione carceraria, di un prigioniero che studia, pensa, scrive e si difende. Perché inizi a conoscere i tuoi diritti e a chiederli, inizi a fare istanze al magistrato di sorveglianza.E così inizi a diventare un detenuto. Andavo dal direttore del carcere con l’ordinamento penitenziario in mano e intuivo che lui mi guardava in modo ironico, come se mi volesse dire: «Ma cosa vuole ‘sto criminale?».Ho vissuto per più di un quarto di secolo con l’ergastolo ostativo, condannato a essere cattivo e colpevole per sempre, sicuro che di me, dal carcere, sarebbe uscito solo il mio cadavere. Fino a quando, dopo vari tentativi, un tribunale di sorveglianza trasformò il mio ergastolo ostativo in ordinario, dandomi la possibilità di uscire prima in permesso premio, poi in semilibertà e, alla fine, in libertà condizionale.In 24 anni di prigione ininterrotti, ho subito molti trasferimenti per punizione perché, nelle varie carceri in cui andavo a finire, reclamavo i miei diritti. E tentavo di far conoscere l’inferno che gli uomini hanno creato e che mal governano, scrivendo al di là del muro di cinta.Mi ricordo di quella volta, tanti anni fa, quando dal carcere di massima sicurezza di Voghera mi trasferirono nel carcere di Sulmona. Quella notte mi ero addormentato tardi e stavo sognando il paradiso degli ergastolani. Mi trovavo in un luogo senza sbarre, cancelli e blindati. E invece che dalle guardie in divisa ero circondato da tanti alberi e fiori.Poi all’improvviso sentii dei rumori metallici. Aprii gli occhi. E mi venne un colpo perché vidi la mia cella circondata da guardie vestite di blu. Ebbi subito timore che fossero entrati in cella per darmi una scarica di calci e pugni perché qualche giorno prima mi ero preso a parole con il comandante.il trasferimento«Musumeci... Sveglia, è in partenza! Può portare con sé solo cinque chili di indumenti». Staccai con tenerezza le foto dei miei due figli dal muro.A quel punto, ero abbastanza sicuro che le guardie non mi avrebbero picchiato, sia per il viaggio da affrontare, sia perché di solito le prendi nel nuovo carcere dove arrivi. Un anno prima, nell’isola del carcere dell’Asinara, ne avevo prese così tante che il mio cuore me lo rinfacciava ancora.Attraversai il corridoio con lo zaino sulle spalle. Ero stranamente calmo. E con il cuore disilluso. Avevo un brigadiere davanti. Due guardie ai miei fianchi. E tre alle spalle. Sentivo il loro respiro pesante sul collo. E l’eco dei loro passi nelle orecchie. Non potei salutare nessuno dei miei compagni. Avevano ancora tutti i blindati chiusi. E le guardie avevano serrato anche gli spioncini per impedirmi di scambiare un cenno di saluto con chiunque.Mi portarono all’Ufficio matricola. Mi fecero firmare delle scartoffie. Poi mi chiusero nella cella «liscia». La chiamano così perché non c’è dentro nulla. E, di solito, le guardie la usano per massacrare i detenuti.C’era odore di chiuso, ma anche di qualcos’altro. Qualcosa di familiare. Chiusi gli occhi. E sentii meglio il puzzo di quella cella. Era l’odore di sofferenza che conoscevo molto bene. Andai a mettermi in un angolo in fondo. In carcere non si sa mai cosa può accadere. Ed è meglio sempre avere le spalle al muro. Nell’attesa che arrivasse la scorta mi accesi una sigaretta. E mi misi ad ascoltare le solite lamentele del mio cuore.In quel momento avrei dato qualsiasi cosa per bere un caffè caldo. Per gustarmi meglio la sigaretta mi sforzai di non pensare a niente.la paura che cresceAll’improvviso sentii l’inconfondibile sbatacchiare delle manette. E i rumori dei passi degli anfibi delle guardie. Spensi la sigaretta.E non mi mossi fin quando non vidi il cancello aprirsi. Si affacciò il caposcorta. «Musumeci...». Mi fissò dritto negli occhi: «Venga». Poi lo vidi arrotolare una tavoletta di gomma americana. «Siamo in ritardo». E ficcarsela in bocca. «E abbiamo tanta strada da fare». Scrollai le spalle. «Se deve andare a pisciare lo faccia adesso perché non faremo fermate».Pensai che non sarebbe stato un bel viaggio. Prima di arrivare al blindato c’era da fare un piccolo tratto a cielo aperto. Con manette e guinzaglio. Mi accorsi che scendeva una pioggia leggera, quasi non bagnava. E invece avrei dato qualsiasi cosa perché aumentasse, per potermi inzuppare di pioggia e sentirmi meno prigioniero.Arrivai al blindato. Mi fecero salire. E mi chiusero nella celletta interna senza togliermi neppure le manette per tutto il viaggio.Arrivai nel carcere di Sulmona distrutto dalla stanchezza, dalla fame e dalla sete. E mi stavo anche pisciando addosso. Erano ore che la tenevo. Mi dolevano tutte le ossa. E avevo i polsi sanguinanti dalle manette. Quello che mi preoccupava ora, però, era l’accoglienza che mi avrebbero fatto.E non mi sbagliavo. Mi sforzai d’ignorare la paura del mio cuore, ma sapevo che quando vieni sballato da un carcere, in quello dove arrivi le prendi di santa ragione. Dopo il passaggio obbligato nell’Ufficio matricola e quello in magazzino, le guardie mi fecero strada verso le celle di punizione. E mi sbatterono in una cella in cui non c’era nulla, a parte lo sporco.Mi misi in fondo. Accanto alla finestra. La cella puzzava di umido, ferro e ruggine.Poi li sentii arrivare. Ogni carcere ha la sua «squadretta» di guardie che fanno il lavoro sporco. E quelle del carcere di Sulmona erano famose per tutti i detenuti che avevano massacrato di botte.Udii i loro passi strascicare nel corridoio. Trattenni il respiro. E tesi le orecchie. Il mio cuore emise una serie di gemiti. Mi esplorai la bocca con la lingua alla ricerca di un po’ di saliva per fare coraggio a me stesso.Mi entrarono in cella in quattro. Il più grosso e più alto mi si parò subito davanti. Ebbi subito voglia di mollargli un pugno. Sentii che gli puzzava il fiato di grappa. Pensai che non me ne andava bene una, perché da ubriache le guardie picchiano più forte. Per qualche istante rimanemmo tutti in silenzio.Sembrava un banchetto funebre. Per non pensare ai calci e ai pugni che presto sarebbero arrivati, tesi le orecchie per concentrarmi sul rumore del rubinetto che gocciolava.All’improvviso mi arrivò un diretto che mi fece sbattere contro la parete di fronte. Rimasi un attimo impalato. Le prime botte hanno un effetto analgesico. Poi capii che non ce l’avrei fatta a rimanere in piedi. Mi si annebbiò la vista. Capii che stavo perdendo conoscenza. Mi rannicchiai in un angolo.le percosseDecisi che non mi dovevo muovere. Non potevo fare altro. Non mi conveniva. Non dovevo muovermi. E basta. Fin quando non si fossero stancati. Sperai che non mancasse molto. Mi arrivarono una cascata di pugni e calci. Chiusi gli occhi e desiderai morire. Per un attimo, mi sembrò che la vita mi stesse abbandonando. E sperai che arrivasse la morte e mi portasse via.Non ho mai odiato nessuno, anche se ci sono andato spesso vicino. Forse l’ho fatto per principio, perché solo i deboli odiano. E io ho sempre voluto essere forte.Quella volta, però, ci andai molto vicino, a odiare quegli uomini in divisa che mi massacravano di botte.Poi le guardie si stancarono di picchiarmi. Andarono via. E io mi sentii triste da morire.
Francesco Nicodemo (Imagoeconomica)
(Ansa)
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Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano (Ansa)