
La maggior parte delle trasmissioni bocciate dal pubblico non sono condotti da fuoriclasse, ma da figure che devono ancora crescere. La tv di Stato sconta però anche la cancellazione delle reti.L’autunno dei flop. Verrà ricordata così questa stagione dalle parti della tv pubblica, sulle sorti della quale, sotto l’altisonante intestazione «Stati generali della Rai», oggi e domani esperti e analisti si eserciteranno alla ricerca della formula magica per liberarla dal controllo della politica (non sbellicatevi). Alcuni programmi sono già malinconicamente caduti al suolo per inesistenza di pubblico. L’altra Italia di Antonino Monteleone (Rai 2) ha chiuso, mentre di Se mi lasci non vale di Luca Barbareschi (Rai 2) ieri sera è andata in onda l’ultima puntata. Altri, come Lo stato delle cose di Massimo Giletti (Rai 3) e La confessione di Peter Gomez (Rai 3) penzolano dai rami come foglie esposte al vento. Probabilmente sopravviveranno, malgrado l’esiguità delle platee affezionate, raramente sopra il 4% di share. Attenzione, non si sta parlando della débâcle di fuoriclasse della televisione italiana. Non hanno clamorosamente floppato Michele Santoro o Giovanni Minoli, guardando al passato, Enrico Mentana e Bruno Vespa, per stare al presente. No, in fondo, con l’eccezione di Giletti, si tratta di figure non ancora consacrate che registrano una battuta d’arresto nel loro percorso.Chi soffre maggiormente l’autunno freddo del pubblico è la Rai stessa, nel suo complesso. Dalla sua cattedra, Aldo Grasso ha prospettato tre ipotesi fra le cause dei tonfi. La difficoltà a fare programmi di successo in un contesto mediale in evoluzione, l’incapacità dei dirigenti scelti dalla destra di governo e, tra il qui lo dico e qui lo nego, la mediocrità dei conduttori citati. Inutile dire che giornaloni e siti antigovernativi hanno sposato la tesi più facile: tutta colpa di TeleMeloni. Che, in fondo, è un modo più brutale di attribuire i flop all’incapacità dei dirigenti scelti dalla destra. Probabilmente, qualcosa c’è, e ci arrivo tra un po’. Ma forse si tratta solo di un concorso di colpa a una causa strutturale che viene da lontano. Mi riferisco alla famigerata riforma per generi della Rai. Quella ideata nel 2019 dall’allora amministratore delegato Fabrizio Salini e concretamente attuata dal suo successore Carlo Fuortes in pieno governo Draghi. Perché anche nella tv pubblica vigono le formule e le tempistiche valide per politica. Palazzo Chigi e Viale Mazzini ereditano quello che lasciano i governi e le governance precedenti. Se i dirigenti apicali, dall’amministratore delegato Giampaolo Rossi al direttore generale Roberto Sergio, i direttori delle testate e delle strutture produttive sono stati definiti - non tutti, eh! - da questa maggioranza politica, l’attuale assetto produttivo della Rai è nato con la riforma dei generi. Una riforma che sta palesando tutti i suoi limiti, mentre i pregi rimangono molto presunti o impliciti. Con la creazione delle strutture produttive orizzontali che forniscono intrattenimento, fiction, cinema, approfondimenti, documentari, sport e cultura sono state abolite le reti e la suddivisione verticale che comportavano.In un intervento pubblicato dal Fatto quotidiano nel novembre 2021 significativamente intitolato «Fine delle trasmissioni» Carlo Freccero si chiedeva che cosa avrebbe prodotto il nuovo piano editoriale? «La fine della televisione generalista e l’affermazione della logica delle piattaforme, grandi “magazzini” indifferenziati di prodotti omologati», si rispondeva nella sua proverbiale visione apocalittica l’ex direttore di Rai 2. Con la creazione delle aree produttive per genere sarebbero sparite «le strutture che differenziano la tv tradizionale dagli altri media e da altri contenitori». Da «primo editoriale delle reti» e «scansione della vita sociale», il palinsesto sarebbe diventato «l’esposizione del magazzino», un serbatoio «di materiali interscambiabili e, come tali, privi di una specifica destinazione».È esattamente ciò che sta accadendo. L’abolizione delle reti ha estinto le rispettive linee editoriali corrispondenti alle diverse identità culturali delle reti stesse, in favore di una proposta di televisione liquida, indistinta, da pensiero debole. Non esistendo più il direttore di rete, viene a mancare il confronto quotidiano tra i conduttori e il responsabile del palinsesto. Mancano gli aggiustamenti, le correzioni, il work in progress. Per fare un esempio, un direttore di Rai 2 che negli anni, al giovedì sera che fu di Michele Santoro, ha visto stentare o chiudere in anticipo Virus di Nicola Porro, Nemo di Enrico Lucci, Popolo sovrano di Alessandro Sortino, Seconda linea di Francesca Fagnani e Alessandro Giuli e Che c’è di nuovo di Ilaria D’Amico avrebbe bruciato in quella serata già presidiata da Diritto e rovescio su Rete 4 e Piazzapulita su La7 l’ex Iena che fino ad allora non aveva mai condotto un programma in proprio? O magari l’avrebbe fatto crescere in altri giorni o in altre fasce orarie? E, in fondo, questo non è un errore simile a quello commesso un anno fa con Nunzia De Girolamo, catapultata senza esperienza giornalistica e familiarità con il pubblico di Rai 3 al timone di Avanti popolo in una serata già satura di approfondimenti come il martedì? E sempre parlando di consuetudine con i telespettatori, che dire della prevedibile fatica di Giletti su Rai 3 con Lo stato delle cose? A differenza delle piattaforme, con la loro fruizione in streaming, cui il consumatore attinge come agli scaffali del supermercato prelevando i prodotti a sua scelta, la tv generalista implica un rapporto più caldo e propositivo tra editore e telespettatore.Ora tornare indietro non è facile. Però, forse, è il caso di cominciare a riflettere. Non si costruiscono successi a dispetto dei target. Come i giornalisti non possono essere trattati da tassisti usandoli per dire ciò che preme ai dirigenti senza accettare il confronto, così i programmi e i palinsesti non sono interscambiabili. E i conduttori non sono figurine da spostare a piacimento. Per quanto possa sembrare paradossale e romantico, pubblico, conduttori e reti hanno un’anima, una storia e un’identità che vanno rispettate e valorizzate. Per costruire un coro a più voci che soddisfi le diverse platee. L’alternativa è una televisione anonima e impersonale prossima alla resa allo strapotere delle piattaforme globali.
L’Ue vuole sovvenzionare l’Ucraina con altri 140 miliardi, ma non sa da dove tirarli fuori. Sul rischioso uso degli asset russi confiscati c’è il muro del Belgio, mentre l’indebitamento della Commissione o degli Stati esporrebbe troppo mercati e bilanci.
«Le esigenze di finanziamento dell’Ucraina non sono solo elevate, ma anche urgenti». Sono state queste le inequivocabili parole del Commissario Ue, Valdis Dombrovskis, in occasione della conferenza stampa di giovedì dopo il Consiglio Ecofin.
Ansa
Il generale Fabio Mini: «Qualsiasi attacco contro la Russia impatta solo sul breve periodo».
Nella roccaforte ucraina del Donetsk, a Pokrovsk, si fa sempre più concreto il rischio che l’esercito di Kiev abbia i giorni contati, nonostante le varie rassicurazioni dei vertici militari ucraini.
A confermare la situazione drammatica sul campo è il generale di corpo d’armata dell’Esercito italiano, Fabio Mini, che ne ha parlato con La Verità. «Zelensky sa benissimo che le unità del suo esercito sono state circondate» ha detto il generale. Non sono state «ancora eliminate» perché i russi «stanno sempre contrattando e trattando per un ritiro, visto che non hanno bisogno di fare prigionieri». Dunque «le sacche sono chiuse», ha proseguito Mini, sottolineando che dalle fonti «dell’intelligence statunitense e inglese» è evidente «che non ci sia più la grande speranza di una vittoria». Quel che resta è la possibilità «di una sconfitta onorevole».
Bruxelles: «Chiediamo tolleranza zero sulla corruzione». Lo scandalo agita pure il governo. Matteo Salvini: «I nostri soldi vanno ai criminali?». Guido Crosetto: «Non giudico per due casi». E Antonio Tajani annuncia altri aiuti.
«Mi sembra che stiano emergendo scandali legati alla corruzione, che coinvolgono il governo ucraino, quindi non vorrei che con i soldi dei lavoratori e dei pensionati italiani si andasse ad alimentare ulteriore corruzione»: il leader della Lega, Matteo Salvini, pronuncia queste parole a Napoli a margine di un sopralluogo al porto, a proposito dell’acquisto di ulteriori armamenti dagli Usa da inviare in Ucraina. «La via di soluzione», aggiunge Salvini, «è quella indicata dal Santo Padre e da Trump, ovvero dialogo, mettere intorno a un tavolo Zelensky e Putin e far tacere le armi. Non penso che l’invio di altre armi risolverà il problema e mi sembra che quello che sta accadendo nelle ultime ore, con l’avanzata delle truppe russe, ci dica che è interesse di tutti, in primis dell’Ucraina, fermare la guerra. Pensare che mandare armi significa che l’Ucraina possa riconquistare i terreni perduti è ingenuo quantomeno».
Volodymyr Zelensky
Pronto un altro pacchetto di aiuti, ma la Lega frena: «Prima bisogna fare assoluta chiarezza sugli scandali di corruzione». E persino la Commissione europea adesso ha dubbi: «Rivalutare i fondi a Kiev, Volodymy Zelensky ci deve garantire trasparenza».
I nostri soldi all’Ucraina sono serviti anche per costruire i bagni d’oro dei corrotti nel cerchio magico di Volodymyr Zelensky. E mentre sia l’Ue sia l’Italia, non paghe di aver erogato oltre 187 miliardi la prima e tra i 3 e i 3 miliardi e mezzo la seconda, si ostinano a foraggiare gli alleati con aiuti economici e militari, sorge un interrogativo inquietante: se il denaro occidentale ha contribuito ad arricchire i profittatori di guerra, che fine potrebbero fare le armi che mandiamo alla resistenza?




