2022-01-05
Attacco a Capitol Hill. La tesi del golpe traballa e la destra va al contrattacco
L'assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 (Getty Images)
I repubblicani indagano e denunciano molte opacità mentre la commissione nominata dai dem vuole la testa di Donald Trump.Si terrà domani l’anniversario dell’irruzione in Campidoglio. Per l’occasione, sono previsti discorsi di Joe Biden e Kamala Harris, mentre la speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha annunciato una veglia di preghiera. La commissione parlamentare d’inchiesta frattanto va avanti e promette di inchiodare Donald Trump alle sue responsabilità. «Il cerchio si stringe», ripetono alcuni. Ma siamo sicuri che le cose stiano così? Forse la situazione è un po’ più complessa. Innanzitutto i repubblicani stanno conducendo una controinchiesta. È in questo contesto che lunedì il deputato Rodney Davis ha inviato una lettera alla Pelosi, accusando i dem di faziosità e denunciando l’opacità della speaker. In particolare, Davis lamenta il fatto che i funzionari della Camera si sono rifiutati di consegnare alcuni documenti dell’autorità preposta alla sicurezza della Camera stessa, il Sergeant at arms, che risponde direttamente alla speaker: i repubblicani chiedono di avere accesso alle comunicazioni intercorse tra la Pelosi e l’allora Sergeant at arms della Camera, Paul Irving, il 6 gennaio e nei giorni precedenti. Ricordiamo che, secondo una lettera firmata a febbraio dall’ex capo della polizia del Campidoglio, Steven Sund, Irving sarebbe stato il principale oppositore - il 4 gennaio 2021- al dispiegamento della Guardia nazionale a protezione del Campidoglio per il giorno 6 (quando il Congresso avrebbe dovuto certificare la vittoria elettorale di Biden). La Pelosi aveva avuto un peso sulla scelta di Irving? Ma soprattutto perché c’è questo muro di gomma davanti alle richieste di documentazione dei repubblicani? Va detto che Irving condividesse la responsabilità della scelta con l’allora Sergeant at arms del Senato, Michael Stenger, che rispondeva invece all’allora leader della maggioranza in Senato, il repubblicano Mitch McConnell. Tuttavia, secondo Sund, fu Irving il primo a opporsi a quel dispiegamento. E comunque, se non c’è nulla da nascondere, non si capisce per quale ragione non si possa avere accesso a quella documentazione. Un altro elemento da sottolineare è che, nonostante la retorica di certi media, non si configurano al momento prove di golpismo. Cbs News ha riferito l’altro ieri che, su oltre 700 individui sotto accusa per i fatti del Campidoglio, nessuno è stato finora accusato di «sedizione». Del resto, come rivelato da Reuters, ad agosto, l’Fbi ha trovato «scarse prove» a sostegno della tesi che l’irruzione fosse un «complotto organizzato». Questo non toglie che quell’evento è stato gravissimo e deprecabile. Però, fatti alla mano, bisognerebbe forse essere un po’ più cauti prima di parlare semplicisticamente di golpismo. Qualcuno obietterà forse che l’ormai famoso Power point presente nei documenti dell’ex capo dello staff della Casa Bianca, Mark Meadows, provi l’intento sovversivo. Non è esattamente così: una versione di quel Powerpoint era infatti stata diffusa su Twitter il 5 gennaio 2021 (cioè il giorno prima dell’irruzione) dalla giornalista conservatrice Lara Logan. Ne consegue che il piano del golpe sarebbe stato pubblicato su Twitter 24 ore prima del golpe stesso, a opera - per giunta - di una giornalista che non si suppone ostile al presunto capo dei congiurati: dove sarebbe la logica in tutto questo? Infine, che la commissione parlamentare agisca in nome della ricerca della verità, è tutto da dimostrare. Ricordiamo che essa è costituita da 9 membri (sette dem e due repubblicani), tutti nominati dalla stessa Pelosi. Un’anomalia avvenuta dopo che la speaker, con una mossa senza precedenti, aveva posto il veto su alcuni dei componenti che erano stati scelti dal capogruppo repubblicano, Kevin McCarthy. Una circostanza che ha portato lo stesso McCarthy a ritirare in polemica la sua intera delegazione. Ebbene: è possibile, in una democrazia liberale, che i componenti di una commissione parlamentare d’inchiesta siano tutti nominati dal leader del partito di maggioranza? Forse, prima di prendere per oro colato tutto quello che esce da quest’organo, due domande bisognerebbe farsele. Nel frattempo, prosegue lo scontro tra la commissione e Trump, con la prima che chiede al secondo di consegnare documenti riservati sul 6 gennaio. L’ex presidente si è rifiutato, invocando il privilegio dell’esecutivo. Il caso sarà presto valutato dalla Corte suprema, mentre finora le corti inferiori hanno dato torto a Trump. Ora, val la pena evidenziare che, dei quattro giudici che si sono espressi a favore della commissione, tre sono stati nominati da Obama e uno da Biden. Non solo: nella motivazione della sentenza d’appello si sostiene che l’ex presidente repubblicano non avrebbe fornito argomenti convincenti per soverchiare le ragioni espresse dallo stesso Biden nel respingere il ricorso al privilegio dell’esecutivo (quando è infatti un ex presidente a chiedere di non divulgare documenti, deve pronunciarsi anche il presidente in carica). Può anche darsi che Trump abbia qualcosa da nascondere. Resta però il sospetto che, alla base della posizione di Biden, non ci sia una valutazione degli equilibri tra poteri costituzionali ma la volontà di procedere alla resa dei conti con un nemico politico. Una china pericolosa, che rischia di creare un precedente problematico. Per fare realmente luce sui fatti del Campidoglio servirebbe spirito bipartisan e rispetto delle istituzioni: non un gioco al massacro, in nome di strumentalizzazioni elettorali.
Manifestazione a Roma di Ultima Generazione (Ansa)