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2021-11-24
Giuseppe Massimo e Natale De Grazia: eroi della Capitaneria di Porto
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Natale De Grazia, la Jolly Rosso e nel riquadro truppe tedesche all'Isola d'Elba nel 1943 (Ansa)
Portoferraio, isola d'Elba. 16 settembre 1943. Maggiore di Porto Giuseppe Massimo (MAVM)
Giuseppe Massimo (Bojano, Campobasso, 12 maggio 1892 - Mauthausen 22 aprile 1945), Maggiore di Porto della cittadina elbana, si trovò solo a difendere i suoi uomini quando il rumore di morte dei cacciabombardieri Junkers Ju/88 della Luftwaffe riempì il cielo di Portoferraio. Era il 16 settembre del 1943. L'Elba, in zona di guerra ma fino ad allora relativamente ai margini del conflitto, stava per essere gettata, dopo l'armistizio, in una spirale di fuoco e sangue che sarebbe durata per più di un anno. Quelli che erano stati fino al giorno prima gli alleati, da quel momento erano diventati i nemici più pericolosi. L'ufficiale della Capitaneria, all'Elba dal 1941, vide il cielo farsi nero e arancione per il carico di bombe vomitato dai bimotori sulla città e sul porto. La contraerei italiana era pressoché inesistente, i danni finali di quell'incursione pesantissimi perché la popolazione fu avvisata troppo tardi dalla sirena degli stabilimenti siderurgici Ilva, poi pesantemente colpiti dalle bombe. Quarantasette morti, decine di feriti anche gravi e abitazioni spazzate via dalla furia venuta dal cielo.
Fu chiaro al maggiore Massimo e al suo attendente Rodolfo Vona che la prossima mossa germanica sarebbe stata l'occupazione dell'isola dell'arcipelago toscano, difesa solo da un esiguo numero di soldati italiani e isolata dalla terraferma e dai rifornimenti via mare. Nonostante il pesante ammonimento, la consegna per gli Italiani era rimasta la stessa: difesa dell'isola da qualunque tentativo di sbarco nemico. Non passarono neppure 24 ore dall'incursione che i comandi tedeschi fecero scattare l'occupazione dell'Isola d'Elba con l'operazione "fagiano dorato" (Goldfasan in tedesco). I timori sull'occupazione dell'Elba erano più che fondati e diventarono una realtà la mattina del giorno successivo al bombardamento, il 17 settembre 1943. Di nuovo il cielo fu ingombro di aeroplani con la croce di ferro della Luftwaffe, che fecero fuoco nuovamente sulle postazioni italiane che quasi non risposero. Questa volta però, assieme ai cacciabombardieri c'erano gli aerei da trasporto Junkers Ju-52 dai quali piovvero i paracadutisti tedeschi del III/7 FJR armati fino ai denti. Tranne qualche scontro isolato, per il controllo dell'isola non vi fu partita, anche perchè in molti casi la batterie erano costituite da italiani richiamati in età avanzata, che in molti casi non opposero resistenza ai tedeschi che dilagarono senza quasi colpo ferire. L'attività di Giuseppe Massimo come militare fedele alle consegne di difesa si interruppe bruscamente con l'arrivo a Portoferraio della Wehrmacht. Secondo le fonti locali, il maggiore entrò in contatto in quei drammatici giorni con alcuni personaggi importanti dell'Elba che cercarono di costituire una sorta di comitato civico di difesa che entrò in contatto anche con la esigua resistenza locale. La sua attività clandestina si svolse in una fase della guerra durante la quale l'Elba rimarrà sostanzialmente tranquilla sotto l'occupante tedesco, ignara di quanto sarebbe successo una volta sbarcate le truppe marocchine comandate dai Francesi al seguito della seconda occupazione dell'isola nel giugno del 1944, segnata da violenze, uccisioni e stupri ai danni di civili. La storia racconta che Giuseppe Massimo lasciò l'isola clandestinamente per la terraferma. Il maggiore passò un periodo di clandestinità a Firenze fino alla sua cattura avvenuta il 6 maggio 1944. Trasferito dapprima a Ravenna presso il carcere della Milizia della Rsi, sarà successivamente rinchiuso a Bologna nel carcere di San Giovanni in Monte, gestito dalla Sipo-Sd (Sicherheitpolizei und Sichereitdienst di cui faceva parte la Gestapo). Da quelle celle, se non si veniva fucilati prima, si usciva soltanto per il viaggio verso il campo di concentramento. Questa fu la sorte che toccò anche a Giuseppe Massimo, che il 6 giugno 1944 lasciò Bologna prima per il campo di Fossoli e quindi per quello di transito di Bolzano. Due mesi dopo, a bordo di un vagone piombato, fu trasferito nel lager di Mauthausen, campo di Gusen, dove stavano i detenuti militari e politici. Qui ricevette lo status di schutz e la matricola 82421. Il 22 aprile 1945, tre giorni prima dell'arrivo degli Americani, risulta deceduto all'interno del campo. A lui è oggi dedicato un pontile del porto della cittadina che cercò di difendere fino all'ultimo: Portoferraio.
Pronto soccorso dell'ospedale di Nocera Inferiore (Salerno), 12 dicembre 1995. Capitano di Fregata Natale De Grazia (Medaglia al Merito della Marina)
Le speranze di milioni di italiani onesti e degli inquirenti del pool di Reggio Calabria sfumarono insieme alla vita di un uomo di 39 anni innamorato del mare e della sua salvaguardia, di un servitore dello Stato alla ricerca della verità e della giustizia, di un padre di famiglia, di un amico e di un collega. Svanì tutto quel maledetto pomeriggio del 12 dicembre 1995 sull'asfalto dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria, a poca distanza dal casello autostradale di Nocera Inferiore, mentre con alcuni colleghi del pool investigativo che si stava occupando delle cosiddette "navi a perdere" o "navi dei veleni" stava viaggiando verso La Spezia, dove avrebbe dovuto incontrare una fonte confidenziale riguardo all'indagine in corso. Poco prima, senza aver mostrato alcun segno di malessere, aveva pranzato nel ristorante "Da Mario" di Campagna (Salerno) assieme agli stessi colleghi.
Quando arriva in ambulanza al pronto soccorso dell'ospedale di Nocera Inferiore il Capitano di Fregata della Guardia Costiera Natale De Grazia è già spirato. Dal momento della sua morte si apre uno dei casi più inquietanti della storia repubblicana, che intreccia omicidi e stragi famigerate, dalla morte della giornalista Ilaria Alpi e dell'operatore Miran Hrovatin fino all'omicidio di Mauro Rostagno giungendo a far ipotizzare un legame con le stragi di Ustica e Bologna.
Quel corpo esanime, contro cui si erano accanite come le onde del mare di Calabria in tempesta le forze della criminalità internazionale, apparteneva ad un uomo che del mare aveva fatto la propria ragione di vita. Natale De Grazia era un marittimo di lungo corso, imbarcato prima su naviglio commerciale e quindi dopo l'accademia navale di Livorno nella Marina Militare con la quale partecipò nel 1983 alla missione in Libano. Passò successivamente alla Capitaneria di Porto di Reggio Calabria (dove era nato nel 1956), a quella di Vibo Valentia e infine fu nominato comandante della Guardia Costiera di Carloforte. Dal 1991 era rientrato in sevizio nella sua città natale dove era stato chiamato quale esperto di marina commerciale dalla procura di Reggio guidata dal procuratore capo Francesco Scuderi. L'oggetto dell'indagine inizialmente non riguardava il mare, bensì i boschi dell'Aspromonte. Nelle zone impervie e carsiche della catena calabra si erano concentrate le indagini del pool investigativo di Reggio, a seguito di una denuncia da parte di Legambiente per voce di Nuccio Barillà. Siamo nel 1994 e Natale De Grazia entra in gioco in quanto esperto di traffico marittimo e dei carichi del naviglio commerciale, perché era verosimile che i carichi di sostanze tossiche fossero arrivati in Calabria via nave e solo successivamente sarebbero stati trasportati su gomma verso le grotte e gli anfratti più reconditi dell'Aspromonte. Con la Procura di Reggio collabora il nucleo ambientale del Corpo Forestale dello Stato di Brescia, capitanato dal colonnello Rino Martini. Del pool, affidato al magistrato Francesco Neri, fanno parte anche i Carabinieri Domenico Scimone, Nicolò Moschitta e Rosario Francaviglia. Questi ultimi erano nell'auto con De Grazia il giorno della sua morte improvvisa.
Il 1994 è anche l'anno dell'omicidio della giornalista Rai Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin avvenuto a Mogadiscio il 20 marzo di quell'anno. La Alpi stava indagando su un traffico d'armi e materiali tossici tra Somalia e Italia controllato dai "signori della guerra", attorno ai quali gravitavano figure di faccendieri e contractors italiani e somali. Senza il controllo dello Stato sulle coste del paese del corno d'Africa, le acque erano diventate una discarica di materiali inquinanti di ogni tipo, anche nucleari. Il collegamento con la 'ndrangheta fu individuato in una compagnia di navigazione commerciale, la Shifco, che aveva in uso una flotta regalata ai Somali da Bettino Craxi. Attorno alla società gravitava il faccendiere italiano Giancarlo Marocchino, un uomo vicino al signore della guerra Ali Mahdi. Il viaggio della Alpi e di Hrovatin nella città portuale di Bosaso, considerata il fulcro del traffico di sostanze tossiche e di armi e dove la Shifco aveva la propria base logistica fu l'ultimo per la giornalista ed il suo accompagnatore prima di essere assassinati a Mogadiscio e aprire in seguito alla loro morte un iter giudiziario pieno di incongruenze procedurali, omissioni e un condannato, Hashi Hassan, che dieci anni più tardi verrà scagionato e risarcito. Per quanto riguarda la convergenza dell'omicidio Rostagno sulla vicenda del capitano De Grazia sono emersi negli anni molti elementi che riconducono il delitto al traffico di sostanze tossiche dalla Somalia alle coste italiane. Mauro Rostagno, ex esponente di Lotta Continua e fondatore della comunità Saman, fu ucciso in Sicilia, a Lenzi di Valderice (Trapani) il 26 settembre 1988 da sicari mafiosi. Il filo conduttore che porta al traffico di armi e sostanze tossiche fu individuato nell'attività di Saman impegnata in aiuti umanitari proprio in Somalia e in due figure ambigue che gravitavano attorno al fondatore Rostagno, Francesco Cardella e Giuseppe Camisa detto "Jupiter", che saranno a Mogadiscio il giorno dell'omicidio della Alpi e di Hrovatin. Ma soprattutto Rostagno era stato un testimone scomodo. Poco prima della sua morte, infatti, aveva visto scaricare casse di armi da un aereo militare atterrato nell'aeroporto abbandonato di Kinisia (Trapani), una vecchia pista d'atterraggio utilizzata durante la guerra. Di questo episodio il fondatore di Saman parlò proprio ad Ilaria Alpi poco prima di essere trucidato. Anche il maresciallo del Sismi Vincenzo Li Causi (uno dei liberatori del generale Dozier dalla prigione delle Brigate Rosse) sapeva di Kinisia e aveva scoperto un arsenale nel territorio di Alcamo. Li Causi aveva partecipato alla missione italiana in Somalia e aveva avuto rapporti con la Alpi. Fu ucciso in un imboscata a Balad nel novembre 1993. Il giorno successivo avrebbe dovuto comparire di fronte al giudice Felice Casson per riferire su Gladio, l'operazione Stay Behind e il traffico di armi e scorie dalla Somalia. Addirittura nel quadro del traffico di scorie nucleari si chiama in causa anche la strage di Ustica. Secondo una tesi portata avanti dal libro Avvelenati, gli autori Giuseppe Baldassarre e Manuela Iatì sostengono che il Dc-9 Itavia avrebbe avuto a bordo materiale nucleare proveniente dal centro Enea di Rondella in viaggio verso i paesi del Medio Oriente dopo l'imbarco clandestino a Bologna.
Tutte queste piste che conducevano in Somalia, i personaggi coinvolti nelle indagini, si ritrovarono nei documenti in possesso del capitano De Grazia. Studiando le carte nautiche e le rotte delle navi "a perdere" affondate al largo delle coste calabresi, i documenti di carico e le rotte, il Capitano di Fregata arrivò in provincia di Pavia, nel comune di Garlasco anche in seguito alla segnalazione degli investigatori di Brescia. Qui aveva sede la O.D.M., una società presieduta dall'ingegnere Giorgio Comerio, che si era specializzata nel campo dello smaltimento dei rifiuti radioattivi tramite il brevetto di speciali siluri che sarebbero stati "sparati" a 40 metri sotto il fondale marino con garanzia di tenuta per 20mila anni. L'azienda dell'ingegnere originario di Busto Arsizio riguardava però anche il settore degli armamenti ed aveva allo studio le "telemine", un sistema d'arma innovativo per cui si erano interessate le forze armate di diversi Paesi del mondo.
Natale di Grazia arrivò a Garlasco dopo aver studiato approfonditamente le storie, le rotte ed i carichi delle "navi a perdere" (nel 1994 era arrivato a indicarne 23 tutte affondate dolosamente). Interrogò anche i registri dei Lloyd londinesi, le grandi compagnie di assicurazione navali e cominciò ad annotare evidenti discrepanze sui percorsi e sui carichi di alcune di esse. Nel 1990 sulla costa nei pressi di Amantea (Cosenza) si era spiaggiata la nave "Jolly Rosso" della flotta di Ignazio Messina. Costruita nel 1968, la nave ro-ro (in termini comuni un ex traghetto) era stata oggetto di un'ispezione della Capitaneria di Porto di Vibo Valentia che aveva rilevato presenza di sostanze radioattive. Tra le carte di bordo furono trovati documenti che rimandavano alla società dell'ingegner Comerio. Poco prima della sua morte, il capitano De Grazia stava indagando sull'affondamento di una nave cargo, la Rigel, un cargo battente bandiera maltese che si inabissò il 21 settembre 1987 venti miglia al largo di Capo Spartivento. Durante la perquisizione nella casa di Comerio a Garlasco, De Grazia scoprì che tra le carte era conservato un appunto che alla data dell'affondamento del cargo recitava in inglese "lost the ship" ossia la nave è persa. Tra gli altri documenti scottanti, il pool investigativo scoprì una copia della constatazione di decesso di Ilaria Alpi, redatto inizialmente a Mogadiscio a bordo della nave della Marina Militare "Garibaldi". Il viaggio verso La Spezia era stato programmato proprio per approfondire le indagini sulla nave fantasma Rigel e per l'incontro con una fonte confidenziale che avrebbe potuto rivelare il punto esatto dove si trovava il relitto. In quei mesi del 1995 tuttavia il carattere del capitano De Grazia era mutato improvvisamente. Appariva impaurito, diffidente e silente. Aveva confidato ai colleghi di sentirsi pedinato, osservato. Erano i giorni precedenti al tragico 12 dicembre 1995 che terminerà all'ospedale di Nocera Inferiore. Sorprende ancora oggi quello che fu l'iter legato all'esame autoptico sul corpo del capitano della Guardia Costiera. L'autopsia venne svolta dalla dottoressa Simona del Vecchio, allora da poco specializzata in medicina legale. Il referto non fece alcun cenno alla possibilità di un avvelenamento o di una ipotetica morte in seguito a violenza. Si limitò ad archiviare il caso come arresto cardiocircolatorio improvviso dovuto ad un collasso cardiaco. Caso chiuso. Non per la famiglia di De Grazia, che per bocca del cognato portò avanti la domanda di un nuovo esame autoptico anche alla luce della personale testimonianza sul cadavere del capitano, sul cui corpo avrebbe ravvisato segni apparentemente compatibili con la tortura. Incredibilmente, alla riesumazione del corpo del capitano, la seconda autopsia fu affidata nuovamente alla Del Vecchio, che ovviamente non si contraddisse e confermò anche di aver già ravvisato e refertato un cuore ipotrofico e in sofferenza. Il quadro clinico parve molto strano considerando l'età (39 anni) e la forma atletica di De Grazia. La dottoressa Del Vecchio sarà in seguito condannata per una serie di autopsie fantasma stilate durante il servizio presso la Asl di Imperia. Anche il cammino per il riconoscimento ufficiale del sacrificio compiuto da Natale De Grazia è stato lungo e pieno di ostacoli. Non essendo ufficialmente avvallata la morte per causa di servizio in quanto contrastante con la causa naturale del decesso (!) la pratica fu più volte respinta, e la medaglia al Valore arriverà solo nel 2004 per mano di Carlo Azeglio Ciampi. Ancor più doloroso l'iter per il riconoscimento dei benefici riconosciuti alla famiglia del capitano morto in servizio. La domanda fu respinta dall'allora Presidente Giorgio Napolitano e sarà accolta solo nel 2013, quando De Grazia sarà considerato ufficialmente vittima del dovere. Alla sua morte il pool di Reggio Calabria subì un colpo durissimo, tanto che le indagini subiranno uno stallo e il gruppo si scioglierà poco dopo. Il sacrificio del Capitano di Fregata Natale De Grazia attende ancora giustizia.
Per un ulteriore approfondimento sulla vicenda di Natale De Grazia è disponibile il volume di Giampiero Cazzato e Marco di Milla Navi Mute (All Around Editore).
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Le storie di due ufficiali della Guardia Costiera. Due vicende lontane tra loro nel tempo e nelle circostanze, ma accomunate dal sacrificio estremo nell'adempimento del dovere nell'interesse del Paese e della giustizia. Da Mauthausen alla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e le navi dei veleni al largo delle coste calabresi.Portoferraio, isola d'Elba. 16 settembre 1943. Maggiore di Porto Giuseppe Massimo (MAVM)Giuseppe Massimo (Bojano, Campobasso, 12 maggio 1892 - Mauthausen 22 aprile 1945), Maggiore di Porto della cittadina elbana, si trovò solo a difendere i suoi uomini quando il rumore di morte dei cacciabombardieri Junkers Ju/88 della Luftwaffe riempì il cielo di Portoferraio. Era il 16 settembre del 1943. L'Elba, in zona di guerra ma fino ad allora relativamente ai margini del conflitto, stava per essere gettata, dopo l'armistizio, in una spirale di fuoco e sangue che sarebbe durata per più di un anno. Quelli che erano stati fino al giorno prima gli alleati, da quel momento erano diventati i nemici più pericolosi. L'ufficiale della Capitaneria, all'Elba dal 1941, vide il cielo farsi nero e arancione per il carico di bombe vomitato dai bimotori sulla città e sul porto. La contraerei italiana era pressoché inesistente, i danni finali di quell'incursione pesantissimi perché la popolazione fu avvisata troppo tardi dalla sirena degli stabilimenti siderurgici Ilva, poi pesantemente colpiti dalle bombe. Quarantasette morti, decine di feriti anche gravi e abitazioni spazzate via dalla furia venuta dal cielo. Fu chiaro al maggiore Massimo e al suo attendente Rodolfo Vona che la prossima mossa germanica sarebbe stata l'occupazione dell'isola dell'arcipelago toscano, difesa solo da un esiguo numero di soldati italiani e isolata dalla terraferma e dai rifornimenti via mare. Nonostante il pesante ammonimento, la consegna per gli Italiani era rimasta la stessa: difesa dell'isola da qualunque tentativo di sbarco nemico. Non passarono neppure 24 ore dall'incursione che i comandi tedeschi fecero scattare l'occupazione dell'Isola d'Elba con l'operazione "fagiano dorato" (Goldfasan in tedesco). I timori sull'occupazione dell'Elba erano più che fondati e diventarono una realtà la mattina del giorno successivo al bombardamento, il 17 settembre 1943. Di nuovo il cielo fu ingombro di aeroplani con la croce di ferro della Luftwaffe, che fecero fuoco nuovamente sulle postazioni italiane che quasi non risposero. Questa volta però, assieme ai cacciabombardieri c'erano gli aerei da trasporto Junkers Ju-52 dai quali piovvero i paracadutisti tedeschi del III/7 FJR armati fino ai denti. Tranne qualche scontro isolato, per il controllo dell'isola non vi fu partita, anche perchè in molti casi la batterie erano costituite da italiani richiamati in età avanzata, che in molti casi non opposero resistenza ai tedeschi che dilagarono senza quasi colpo ferire. L'attività di Giuseppe Massimo come militare fedele alle consegne di difesa si interruppe bruscamente con l'arrivo a Portoferraio della Wehrmacht. Secondo le fonti locali, il maggiore entrò in contatto in quei drammatici giorni con alcuni personaggi importanti dell'Elba che cercarono di costituire una sorta di comitato civico di difesa che entrò in contatto anche con la esigua resistenza locale. La sua attività clandestina si svolse in una fase della guerra durante la quale l'Elba rimarrà sostanzialmente tranquilla sotto l'occupante tedesco, ignara di quanto sarebbe successo una volta sbarcate le truppe marocchine comandate dai Francesi al seguito della seconda occupazione dell'isola nel giugno del 1944, segnata da violenze, uccisioni e stupri ai danni di civili. La storia racconta che Giuseppe Massimo lasciò l'isola clandestinamente per la terraferma. Il maggiore passò un periodo di clandestinità a Firenze fino alla sua cattura avvenuta il 6 maggio 1944. Trasferito dapprima a Ravenna presso il carcere della Milizia della Rsi, sarà successivamente rinchiuso a Bologna nel carcere di San Giovanni in Monte, gestito dalla Sipo-Sd (Sicherheitpolizei und Sichereitdienst di cui faceva parte la Gestapo). Da quelle celle, se non si veniva fucilati prima, si usciva soltanto per il viaggio verso il campo di concentramento. Questa fu la sorte che toccò anche a Giuseppe Massimo, che il 6 giugno 1944 lasciò Bologna prima per il campo di Fossoli e quindi per quello di transito di Bolzano. Due mesi dopo, a bordo di un vagone piombato, fu trasferito nel lager di Mauthausen, campo di Gusen, dove stavano i detenuti militari e politici. Qui ricevette lo status di schutz e la matricola 82421. Il 22 aprile 1945, tre giorni prima dell'arrivo degli Americani, risulta deceduto all'interno del campo. A lui è oggi dedicato un pontile del porto della cittadina che cercò di difendere fino all'ultimo: Portoferraio.Pronto soccorso dell'ospedale di Nocera Inferiore (Salerno), 12 dicembre 1995. Capitano di Fregata Natale De Grazia (Medaglia al Merito della Marina)Le speranze di milioni di italiani onesti e degli inquirenti del pool di Reggio Calabria sfumarono insieme alla vita di un uomo di 39 anni innamorato del mare e della sua salvaguardia, di un servitore dello Stato alla ricerca della verità e della giustizia, di un padre di famiglia, di un amico e di un collega. Svanì tutto quel maledetto pomeriggio del 12 dicembre 1995 sull'asfalto dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria, a poca distanza dal casello autostradale di Nocera Inferiore, mentre con alcuni colleghi del pool investigativo che si stava occupando delle cosiddette "navi a perdere" o "navi dei veleni" stava viaggiando verso La Spezia, dove avrebbe dovuto incontrare una fonte confidenziale riguardo all'indagine in corso. Poco prima, senza aver mostrato alcun segno di malessere, aveva pranzato nel ristorante "Da Mario" di Campagna (Salerno) assieme agli stessi colleghi. Quando arriva in ambulanza al pronto soccorso dell'ospedale di Nocera Inferiore il Capitano di Fregata della Guardia Costiera Natale De Grazia è già spirato. Dal momento della sua morte si apre uno dei casi più inquietanti della storia repubblicana, che intreccia omicidi e stragi famigerate, dalla morte della giornalista Ilaria Alpi e dell'operatore Miran Hrovatin fino all'omicidio di Mauro Rostagno giungendo a far ipotizzare un legame con le stragi di Ustica e Bologna. Quel corpo esanime, contro cui si erano accanite come le onde del mare di Calabria in tempesta le forze della criminalità internazionale, apparteneva ad un uomo che del mare aveva fatto la propria ragione di vita. Natale De Grazia era un marittimo di lungo corso, imbarcato prima su naviglio commerciale e quindi dopo l'accademia navale di Livorno nella Marina Militare con la quale partecipò nel 1983 alla missione in Libano. Passò successivamente alla Capitaneria di Porto di Reggio Calabria (dove era nato nel 1956), a quella di Vibo Valentia e infine fu nominato comandante della Guardia Costiera di Carloforte. Dal 1991 era rientrato in sevizio nella sua città natale dove era stato chiamato quale esperto di marina commerciale dalla procura di Reggio guidata dal procuratore capo Francesco Scuderi. L'oggetto dell'indagine inizialmente non riguardava il mare, bensì i boschi dell'Aspromonte. Nelle zone impervie e carsiche della catena calabra si erano concentrate le indagini del pool investigativo di Reggio, a seguito di una denuncia da parte di Legambiente per voce di Nuccio Barillà. Siamo nel 1994 e Natale De Grazia entra in gioco in quanto esperto di traffico marittimo e dei carichi del naviglio commerciale, perché era verosimile che i carichi di sostanze tossiche fossero arrivati in Calabria via nave e solo successivamente sarebbero stati trasportati su gomma verso le grotte e gli anfratti più reconditi dell'Aspromonte. Con la Procura di Reggio collabora il nucleo ambientale del Corpo Forestale dello Stato di Brescia, capitanato dal colonnello Rino Martini. Del pool, affidato al magistrato Francesco Neri, fanno parte anche i Carabinieri Domenico Scimone, Nicolò Moschitta e Rosario Francaviglia. Questi ultimi erano nell'auto con De Grazia il giorno della sua morte improvvisa. Il 1994 è anche l'anno dell'omicidio della giornalista Rai Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin avvenuto a Mogadiscio il 20 marzo di quell'anno. La Alpi stava indagando su un traffico d'armi e materiali tossici tra Somalia e Italia controllato dai "signori della guerra", attorno ai quali gravitavano figure di faccendieri e contractors italiani e somali. Senza il controllo dello Stato sulle coste del paese del corno d'Africa, le acque erano diventate una discarica di materiali inquinanti di ogni tipo, anche nucleari. Il collegamento con la 'ndrangheta fu individuato in una compagnia di navigazione commerciale, la Shifco, che aveva in uso una flotta regalata ai Somali da Bettino Craxi. Attorno alla società gravitava il faccendiere italiano Giancarlo Marocchino, un uomo vicino al signore della guerra Ali Mahdi. Il viaggio della Alpi e di Hrovatin nella città portuale di Bosaso, considerata il fulcro del traffico di sostanze tossiche e di armi e dove la Shifco aveva la propria base logistica fu l'ultimo per la giornalista ed il suo accompagnatore prima di essere assassinati a Mogadiscio e aprire in seguito alla loro morte un iter giudiziario pieno di incongruenze procedurali, omissioni e un condannato, Hashi Hassan, che dieci anni più tardi verrà scagionato e risarcito. Per quanto riguarda la convergenza dell'omicidio Rostagno sulla vicenda del capitano De Grazia sono emersi negli anni molti elementi che riconducono il delitto al traffico di sostanze tossiche dalla Somalia alle coste italiane. Mauro Rostagno, ex esponente di Lotta Continua e fondatore della comunità Saman, fu ucciso in Sicilia, a Lenzi di Valderice (Trapani) il 26 settembre 1988 da sicari mafiosi. Il filo conduttore che porta al traffico di armi e sostanze tossiche fu individuato nell'attività di Saman impegnata in aiuti umanitari proprio in Somalia e in due figure ambigue che gravitavano attorno al fondatore Rostagno, Francesco Cardella e Giuseppe Camisa detto "Jupiter", che saranno a Mogadiscio il giorno dell'omicidio della Alpi e di Hrovatin. Ma soprattutto Rostagno era stato un testimone scomodo. Poco prima della sua morte, infatti, aveva visto scaricare casse di armi da un aereo militare atterrato nell'aeroporto abbandonato di Kinisia (Trapani), una vecchia pista d'atterraggio utilizzata durante la guerra. Di questo episodio il fondatore di Saman parlò proprio ad Ilaria Alpi poco prima di essere trucidato. Anche il maresciallo del Sismi Vincenzo Li Causi (uno dei liberatori del generale Dozier dalla prigione delle Brigate Rosse) sapeva di Kinisia e aveva scoperto un arsenale nel territorio di Alcamo. Li Causi aveva partecipato alla missione italiana in Somalia e aveva avuto rapporti con la Alpi. Fu ucciso in un imboscata a Balad nel novembre 1993. Il giorno successivo avrebbe dovuto comparire di fronte al giudice Felice Casson per riferire su Gladio, l'operazione Stay Behind e il traffico di armi e scorie dalla Somalia. Addirittura nel quadro del traffico di scorie nucleari si chiama in causa anche la strage di Ustica. Secondo una tesi portata avanti dal libro Avvelenati, gli autori Giuseppe Baldassarre e Manuela Iatì sostengono che il Dc-9 Itavia avrebbe avuto a bordo materiale nucleare proveniente dal centro Enea di Rondella in viaggio verso i paesi del Medio Oriente dopo l'imbarco clandestino a Bologna.Tutte queste piste che conducevano in Somalia, i personaggi coinvolti nelle indagini, si ritrovarono nei documenti in possesso del capitano De Grazia. Studiando le carte nautiche e le rotte delle navi "a perdere" affondate al largo delle coste calabresi, i documenti di carico e le rotte, il Capitano di Fregata arrivò in provincia di Pavia, nel comune di Garlasco anche in seguito alla segnalazione degli investigatori di Brescia. Qui aveva sede la O.D.M., una società presieduta dall'ingegnere Giorgio Comerio, che si era specializzata nel campo dello smaltimento dei rifiuti radioattivi tramite il brevetto di speciali siluri che sarebbero stati "sparati" a 40 metri sotto il fondale marino con garanzia di tenuta per 20mila anni. L'azienda dell'ingegnere originario di Busto Arsizio riguardava però anche il settore degli armamenti ed aveva allo studio le "telemine", un sistema d'arma innovativo per cui si erano interessate le forze armate di diversi Paesi del mondo. Natale di Grazia arrivò a Garlasco dopo aver studiato approfonditamente le storie, le rotte ed i carichi delle "navi a perdere" (nel 1994 era arrivato a indicarne 23 tutte affondate dolosamente). Interrogò anche i registri dei Lloyd londinesi, le grandi compagnie di assicurazione navali e cominciò ad annotare evidenti discrepanze sui percorsi e sui carichi di alcune di esse. Nel 1990 sulla costa nei pressi di Amantea (Cosenza) si era spiaggiata la nave "Jolly Rosso" della flotta di Ignazio Messina. Costruita nel 1968, la nave ro-ro (in termini comuni un ex traghetto) era stata oggetto di un'ispezione della Capitaneria di Porto di Vibo Valentia che aveva rilevato presenza di sostanze radioattive. Tra le carte di bordo furono trovati documenti che rimandavano alla società dell'ingegner Comerio. Poco prima della sua morte, il capitano De Grazia stava indagando sull'affondamento di una nave cargo, la Rigel, un cargo battente bandiera maltese che si inabissò il 21 settembre 1987 venti miglia al largo di Capo Spartivento. Durante la perquisizione nella casa di Comerio a Garlasco, De Grazia scoprì che tra le carte era conservato un appunto che alla data dell'affondamento del cargo recitava in inglese "lost the ship" ossia la nave è persa. Tra gli altri documenti scottanti, il pool investigativo scoprì una copia della constatazione di decesso di Ilaria Alpi, redatto inizialmente a Mogadiscio a bordo della nave della Marina Militare "Garibaldi". Il viaggio verso La Spezia era stato programmato proprio per approfondire le indagini sulla nave fantasma Rigel e per l'incontro con una fonte confidenziale che avrebbe potuto rivelare il punto esatto dove si trovava il relitto. In quei mesi del 1995 tuttavia il carattere del capitano De Grazia era mutato improvvisamente. Appariva impaurito, diffidente e silente. Aveva confidato ai colleghi di sentirsi pedinato, osservato. Erano i giorni precedenti al tragico 12 dicembre 1995 che terminerà all'ospedale di Nocera Inferiore. Sorprende ancora oggi quello che fu l'iter legato all'esame autoptico sul corpo del capitano della Guardia Costiera. L'autopsia venne svolta dalla dottoressa Simona del Vecchio, allora da poco specializzata in medicina legale. Il referto non fece alcun cenno alla possibilità di un avvelenamento o di una ipotetica morte in seguito a violenza. Si limitò ad archiviare il caso come arresto cardiocircolatorio improvviso dovuto ad un collasso cardiaco. Caso chiuso. Non per la famiglia di De Grazia, che per bocca del cognato portò avanti la domanda di un nuovo esame autoptico anche alla luce della personale testimonianza sul cadavere del capitano, sul cui corpo avrebbe ravvisato segni apparentemente compatibili con la tortura. Incredibilmente, alla riesumazione del corpo del capitano, la seconda autopsia fu affidata nuovamente alla Del Vecchio, che ovviamente non si contraddisse e confermò anche di aver già ravvisato e refertato un cuore ipotrofico e in sofferenza. Il quadro clinico parve molto strano considerando l'età (39 anni) e la forma atletica di De Grazia. La dottoressa Del Vecchio sarà in seguito condannata per una serie di autopsie fantasma stilate durante il servizio presso la Asl di Imperia. Anche il cammino per il riconoscimento ufficiale del sacrificio compiuto da Natale De Grazia è stato lungo e pieno di ostacoli. Non essendo ufficialmente avvallata la morte per causa di servizio in quanto contrastante con la causa naturale del decesso (!) la pratica fu più volte respinta, e la medaglia al Valore arriverà solo nel 2004 per mano di Carlo Azeglio Ciampi. Ancor più doloroso l'iter per il riconoscimento dei benefici riconosciuti alla famiglia del capitano morto in servizio. La domanda fu respinta dall'allora Presidente Giorgio Napolitano e sarà accolta solo nel 2013, quando De Grazia sarà considerato ufficialmente vittima del dovere. Alla sua morte il pool di Reggio Calabria subì un colpo durissimo, tanto che le indagini subiranno uno stallo e il gruppo si scioglierà poco dopo. Il sacrificio del Capitano di Fregata Natale De Grazia attende ancora giustizia. Per un ulteriore approfondimento sulla vicenda di Natale De Grazia è disponibile il volume di Giampiero Cazzato e Marco di Milla Navi Mute (All Around Editore).
Laurent Vinatier (Ansa)
Vinatier, 49 anni, a giugno 2024 era stato arrestato dalle forze di sicurezza russe con l’accusa di spionaggio: non si era registrato come «agente straniero» mentre raccoglieva informazioni sulle «attività militari e tecnico-militari» della Russia, che avrebbero potuto essere utilizzate a scapito della sicurezza nazionale. All’epoca il francese, la cui moglie è di origine russa, era consulente dell’Ong svizzera Centro per il dialogo umanitario e aveva stabilito nell’ambito del suo lavoro contatti con politologi, economisti, funzionari ed esperti militari.
A ottobre 2024 era arrivata la condanna «amministrativa» a Vinatier, tre anni di reclusione per la mancata registrazione nell’elenco degli agenti stranieri. La difesa aveva chiesto una multa per l’errore che l’imputato ha riconosciuto di aver commesso «per ignoranza», mentre l’accusa chiedeva 3 anni e 3 mesi. Lo scorso 24 febbraio, questa condanna estremamente severa è stata confermata in appello sulla base della legislazione contro i presunti agenti stranieri.
Nell’agosto 2025, un fascicolo sul sito web del tribunale del distretto di Lefortovo a Mosca ha rivelato che un cittadino francese è accusato di spionaggio. Rischia fino a vent’anni di carcere ai sensi dell’articolo 276 del codice penale russo. «Il caso Vinatier ha ottenuto visibilità solo dopo che il giornalista di TF1 Jérôme Garraud, durante la conferenza stampa annuale del presidente russo Vladimir Putin il 19 dicembre, ha chiesto al capo dello Stato: “Sappiamo che in questo momento c’è molta tensione tra Russia e Francia, ma il nuovo anno si avvicina. La sua famiglia (di Laurent Vinatier, ndr) può sperare in uno scambio o nella grazia presidenziale?”. Il presidente russo ha risposto di non sapere nulla del caso ma ha promesso di indagare», sostiene TopWar.ru sito web russo di notizie e analisi militari. Putin ha aggiunto che «se esiste una possibilità di risolvere positivamente questa questione, se la legge russa lo consente, faremo ogni sforzo per riuscirci».
Il politologo è attualmente detenuto nella prigione di Lefortovo, penitenziario di massima sicurezza. Prima era «in un altro carcere a Mosca e poi per un mese a Donskoy nella regione di Tula, a Sud della capitale», ha riferito la figlia Camille alla rivista Altraeconomia spiegando che il padre «si occupa di diplomazia “secondaria”, ha studiato la geopolitica post-sovietica e negli ultimi anni si è occupato della guerra tra Russia e Ucraina» e che il secondo processo, dopo quello relativo a questioni amministrative è per accuse di spionaggio. Sarebbe vittima delle tensioni tra Mosca e Parigi a causa della guerra in Ucraina.
«Questo arresto e le accuse sono davvero mosse da una scelta politica e avvengono in un contesto specifico di crescenti tensioni tra Francia e Russia […] la chiave di tutto questo sta nella politica, non nella legge», concludeva la figlia, confermando l’ipotesi di uno scambio di prigionieri come possibile chiave di svolta della vicenda Vinatier.
L’avvocato della famiglia, Frederic Belot, ha affermato che sperano nel rilascio entro il Natale ortodosso del 7 gennaio. Uno scambio di prigionieri è possibile, ma vuole essere «estremamente prudente».
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
A confermare il bilaterale, dopo l’indiscrezione lanciata da Axios, è stato lo stesso leader di Kiev: «Abbiamo un programma ampio e l’incontro si terrà questo fine settimana, credo domenica», ha detto ai giornalisti, non escludendo la partecipazione, in collegamento da remoto, dei rappresentanti dei Paesi europei. D’altronde, le conversazioni tra Kiev e la Casa Bianca non si sono fermate nemmeno il giorno di Natale: Zelensky ha avuto una lunga telefonata con l’inviato americano, Steve Witkoff, e con il genero di Trump, Jared Kushner, per approfondire «i formati, gli incontri e le tempistiche» per fermare la guerra. A quel colloquio telefonico sono poi seguiti ulteriori «contatti» tra il capo negoziatore ucraino, Rustem Umerov, e «la parte americana».
Al centro del dialogo con il tycoon ci saranno «alcune sfumature» sulle garanzie di sicurezza, ma soprattutto i nodi irrisolti per arrivare alla pace: il controllo del Donbass e dei territori orientali rivendicati dalla Russia e la gestione della centrale nucleare di Zaporizhzhia. Sul tavolo ci sono dunque le questioni più delicate e il significato del meeting, a detta di Zelensky, è «finalizzare il più possibile» visto anche che alcuni temi «possono essere discussi solo a livello di leader». A rivelare ulteriori dettagli è stato il presidente ucraino in un’intervista telefonica rilasciata ad Axios. Per la prima volta si è detto disposto a indire un referendum sul piano americano qualora Mosca accettasse un cessate il fuoco di 60 giorni. Pare però, secondo un funzionario americano, che la Russia sia disposta a concedere una tregua più breve. Riguardo alle garanzie di sicurezza, Zelensky ha affermato che servono discussioni sulle «questioni tecniche». In particolare, Washington ha proposto un patto di 15 anni che può essere rinnovato, ma secondo il presidente ucraino «il bisogno» sarà «per più di 15 anni». In ogni caso, l’incontro tra i due leader, come riferito da Axios, rifletterebbe «i progressi significativi dei colloqui». Vero è che Trump aveva dato la sua disponibilità solo qualora fosse vicino il raggiungimento di un accordo. Un’ulteriore conferma dei «progressi» emerge dalle parole di Zelensky, che ha dichiarato: «Il piano di 20 punti su cui abbiamo lavorato è pronto al 90%. Il nostro compito è assicurarci che tutto sia pronto al 100%. Non è facile, ma dobbiamo avvicinarci al risultato desiderato con ogni incontro, con ogni conversazione». Un membro della delegazione ucraina, Sergiy Kyslytsya, ha rivelato al Financial Times che le posizioni della Casa Bianca e di Kiev sarebbero piuttosto vicine. Ed è dunque arrivato «il momento» che i due presidenti «benedicano, modifichino e calibrino, se necessario» il piano di pace.
In vista dell’incontro in Florida, Zelensky ha già iniziato a consultarsi con i partner. Ieri pomeriggio ha avuto «un’ottima conversazione» con il primo ministro canadese, Mark Carney, per aggiornarlo «sullo stato di avanzamento» del «lavoro diplomatico» ucraino «con gli Stati Uniti». Zelensky ha poi aggiunto: «Nei prossimi giorni si potrà ottenere molto sia a livello bilaterale fra Ucraina e Stati Uniti, sia con i nostri partner della coalizione dei Volenterosi». Anche il segretario generale della Nato, Mark Rutte, è stato consultato dal presidente ucraino per discutere «degli sforzi congiunti per garantire la sicurezza» e «coordinare le posizioni» prima dei colloqui con il tycoon. La maratona telefonica del leader di Kiev ha incluso anche il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, e il primo ministro danese, Mette Frederiksen.
Nel frattempo, proseguono i contatti anche tra il Cremlino e la Casa Bianca. A rivelarlo è stato il portavoce russo, Dmitry Peskov: «Dopo che Kirill Dmitriev ha riferito al presidente sui risultati del suo viaggio in America e sui suoi contatti con gli americani, queste informazioni sono state analizzate e, su indicazione del presidente Putin, si sono già verificati contatti tra i rappresentanti delle amministrazioni russa e statunitense». A guidare le conversazioni telefoniche, da parte di Mosca, è stato il consigliere presidenziale russo, Yuri Ushakov. Riguardo alle questioni territoriali, secondo la rivista russa Kommersant, Putin, durante una riunione con gli imprenditori avvenuta la vigilia di Natale, ha dichiarato che potrebbe essere disposto a rinunciare a parte del territorio ucraino controllato dai soldati di Mosca, ma non è disposto a fare marcia indietro sul Donbass. Lo zar, nel meeting, ha affrontato anche la gestione della centrale nucleare di Zaporizhzhia. E, stando a quanto rivelato da Kommersant, Putin ha comunicato che non prevede la partecipazione ucraina, ma solamente una gestione congiunta con gli Stati Uniti con cui sono in corso le trattative. Sul piano di pace, il viceministro degli Esteri russo, Sergei Ryabkov, è tornato a sbilanciarsi. Nel talk show 60 minuti, trasmesso dalla tv russa Rossija-1, ha affermato che il piano di pace rivisto dall’Ucraina è «radicalmente diverso dai 27 punti» su cui ha lavorato Mosca. E pur annunciando che la fine della guerra è «vicina», Ryabkov ha accusato l’Ucraina e l’Europa di aver «raddoppiato gli sforzi» per «affossare» l’accordo di pace.
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