
Per il passaggio del Milan a Investcorp manca il prestito
La due diligence è praticamente terminata, l’accordo sulla cifra è stato trovato da tempo (intorno a 1 miliardo e 100 milioni di euro) ma la scadenza (venerdì era l’ultimo giorno) dell’esclusiva ha in parte raffreddato l’ottimismo sulla chiusura dell’operazione che dovrebbe portare il Milan dal fondo Elliott a Investcorp.
Altre manifestazione di interesse per il club rossonero non sono mancate neanche di recente, ma non è questo il punto che sta frenando il deal, l’oggetto del contendere riguarda l’operazione di finanziamento con la quale la società del Bahrain intende trovare la liquidità necessaria per arrivare poi al closing.
Nulla di strano o particolare. È consuetudine dei private equity concludere affari di queste dimensioni con una parte di debito e questo potrebbe anche non interessare Elliott. L’hedge fund della famiglia Singer però vuole evitare in ogni modo che questo debito vada a riversarsi sul Milan, vuole cioè delle rassicurazioni sul fatto che nel veicolo che Investcorp creerà ad hoc per acquistare il club rossonero non vada a finire la leva finanziaria usata per portare a termine l’operazione.
Si tratta di un’ulteriore dimostrazione della serietà con la quale il fondo ha gestito il club rossonero in questi anni. Secondo le informazioni raccolte da Verità&Affari Goldman Sachs fa da capofila e arranger in un’operazione di financing che coinvolge alcuni fondi internazionali. Si parla di una leva non inferiore a un quarto dell’operazione complessiva ma su questo non sono arrivate conferme dai soggetti interessati. Superato questo scoglio l’affare dovrebbe risolversi. Anche a breve.
Non è quindi escluso che possa esserci un’accelerazione in un senso o nell’altro già nella prossima settimana. Il rischio - fanno notare i più maliziosi - è che alcune cordate rimaste tagliate fuori dall’acquisto del Chelsea possano decidere di riversare parte di quella liquidità sul club di Milano. Visto che la situazione è quella ora delineata, diventa ancora più difficile dare peso alla ridda di nomi che in questi giorni ha riguardato allenatore, direttore sportivo e calciatori. Centrale è invece il discorso stadio, del resto la difficoltà nel costruire il nuovo impianto è uno dei principali motivi che ha indotto il fondo Elliott a pensare di fare un passo indietro.
Ed è vero che se fosse per i potenziali acquirenti del Bahrein il trasloco da San Siro potrebbe farsi già prima del match con la Fiorentina. Insomma è un aspetto cruciale. I 30 “miseri” milioni che arrivano dall’attuale struttura sono considerati un “minus” se si vuole competere ai livelli delle squadre di premier. Premesso quindi che qualunque sarà la proprietà l’addio a San Siro è scontato, c’è da dire che per adesso quella di Sesto resta l’ipotesi più concreta.
Rispondono, invece, al vero le voci su una richiesta di risarcimento avanzate dal misterioso ex proprietario cinese, Yonghong Li, ma non dovrebbero condizionare in alcun modo l’esito di qualsiasi trattativa. Anche perché come correttamente evidenziato dal sito Calcio e Finanza, nel bilancio di Project Red Black - la società lussemburghese cui fa capo attraverso Rossoneri Luxembourg il Milan – esistono ancora contenziosi con le società attraverso le quali Li controllava il club rossonero.
Finalmente abbiamo compreso quale sia il grande problema delle trattative di pace in Medio Oriente. Non il difficoltoso disarmo di Hamas, non le esecuzioni pubbliche compiute dai jihadisti, non la foga espansionista dei coloni israeliani o il grilletto facile dell’Idf. Il problema è che a discutere di tregua a Sharm el-Sheikh non ci sono abbastanza donne. Lo abbiamo compreso perché - con mirabile womansplaining (cioè col piglio saputo delle donne che spiegano cose ai maschi inetti) - ce lo ha chiarito ieri su Avvenire Antonella Mariani.
«Di un mondo “maschiocentrico” abbiamo assaggiato un antipasto lunedì sera, con la assai discussa photo-opportunity che ritrae i leader radunati dal presidente Trump in Egitto per la cerimonia della firma dell’accordo: 32 uomini, paludati nelle grisaglie nere o nelle tuniche immacolate», scrive l’editorialista del quotidiano dei vescovi. «E poi lei, l’unica donna, la premier italiana Giorgia Meloni, peraltro un po' isolata al margine esterno, come a rimarcare anche fisicamente una separazione di genere. Assenti le altre leader europee che avrebbero almeno un po’ riequilibrato il gap, Ursula von der Leyen e Kaja Kallas non erano state invitate, il fermo immagine riflette la scarsità di donne che arrivano ai vertici della politica, ne rimangono escluse per i meccanismi ben noti di conservazione del potere o per vere e proprie discriminazioni (a Sharm erano presenti molti Paesi del mondo arabo)».
La Mariani si domanda con preoccupazione se quegli uomini in grisaglia o in divisa saranno capaci di fare davvero gli interessi dei loro popoli, cosa che sarebbe assicurata se al tavolo ci fossero più donne. «Premi Nobel e mediatrici internazionali ci hanno raccontato la loro esperienza e confermato che le donne, quando siedono ai tavoli, portano anche altre questioni oltre al rilascio degli ostaggi, i confini, la demilitarizzazione e il disarmo…», spiega la firma di Avvenire. «Se applichiamo questa evidenza alle trattative in corso per il Medio Oriente, possiamo prevedere che la mancanza di mediatrici donne comporterà una ferita al futuro dei popoli di questa parte del mondo. Tutti quegli uomini ai tavoli - generali, spie, funzionari, politici - metteranno a tema la ricostruzione del sistema scolastico, l’accesso all’acqua, la sicurezza dei civili, i processi di riconciliazione, le politiche per una parità di genere?».
Ora, certo non sappiamo dire se i maschi presenti a Sharm riusciranno davvero a portare la pace nella martoriata Palestina. Sappiamo tuttavia un paio di altre cose. La prima è che a Giorgia Meloni è presente, e non defilata come suggerisce Avvenire, non in quanto femmina ma in quanto guida di una nazione ritenuta affidabile e rilevante nel processo di pacificazione, motivo per cui è un filo ridicolo cercare di sminuirne il ruolo. La seconda verità che ci sentiamo di esporre è che una maggioranza di donne non potrebbe fare granché di diverso in Egitto come altrove. Anzi, forse addirittura peggiorerebbe la situazione. E non perché le donne non siano in grado di trattare, ma perché conosciamo fin troppo bene le esponenti politiche europee per fingere che possano applicare dolcezza materna a qualsivoglia conflitto.
La Mariani si strugge per l’assenza di Kallas e von der Leyen. Dimentica forse di stare parlando di due delle più determinate guerrafondaie degli ultimi decenni. Ancora pochi giorni fa, la Kallas ha ribadito il fulcro del suo pensiero: «Il modo migliore per prevenire la guerra è essere indiscutibilmente pronti a vincerla». Sono anni che lei e Ursula spingono per uno spaventoso aumento della spesa militare nell’Ue e si oppongono a qualsiasi ammorbidimento dell’ostilità nei confronti della Russia. Se queste due donne non siedo ai tavoli mediorientali, dunque, non è per via di una presunta discriminazione di genere, ma per la loro incompetenza.
Sono state totalmente incapaci di avviare anche solo mezzo tentativo di dialogo con la Russia al fine di risolvere la crisi ucraina, anzi a dirla tutta continuano da fin troppo tempo a versare benzina sul fuoco. Quanto alla partita palestinese, di nuovo non risultano pervenute. Dunque in virtù di quale merito si dovrebbe coinvolgerle in processi che non hanno contribuito a sostenere o peggio che hanno ostacolato?
Più in generale, non si capisce perché le donne in quanto tali dovrebbero garantire relazioni più pacifiche. Per smentire tale affermazione basterebbe citare due parole: Hillary Clinton. Ma possiamo anche chiamare in causa personaggi meno rilevanti per le sorti del mondo. Un interessante esempio di discussione al femminile sul problema palestinese ci è stato offerto negli ultimi giorni da Francesca Albanese, che anche ieri accusava la stampa italiana di essere «filo sionista». E non parliamo delle baruffe che la hanno opposta a Liliana Segre e hanno poi opposto quest’ultima a Eugenia Roccella (altro esempio di concordia femminile). Parliamo banalmente dell’insistenza con cui continua a dire che non si può chiamare pace l’accordo in corso perché «è sia un insulto che una distrazione. [...] Israele dovrà affrontare giustizia, sanzioni, disinvestimenti e boicottaggi fino a quando l’occupazione, l’apartheid e il genocidio non saranno finiti e ogni crimine non sarà stato reso conto». Come a dire: il conflitto non può certo fermarsi qui.
L’amara realtà è che la politica estera si gioca sui rapporti di forze, e non sulla morale. Non esistono solo giuste o sbagliate, ma solo soluzioni possibili o impossibili. Finora tutte le radiose donne ai vertici della politica mondiale, assieme a tanti uomini dell’élite, non hanno fatto nulla di concreto per salvare vite in Ucraina, in Palestina e altrove. Ci sta provando ora un maschio brutto e cattivo, Donald Trump. E certo lo fa per i suoi interessi, non per bontà d’animo. Ma almeno uno spiraglio si è aperto. Solo che una bella fetta di intellettuali, commentatori e politici - maschi e femmine - ce la stanno mettendo tutta per otturarlo, quello spiraglio. Preferiscono guerra e morte alla caduta dei loro pregiudizi. Non ammettono che la pace è buona in quanto pace, e non per altro. Non vogliono la pace di Trump: vogliono la «pace giusta». Ovvero quella che non arriva mai.
Ieri, numeri alla mano, abbiamo dimostrato che l’Italia sta importando poveri. Infatti, mentre le statistiche dell’Istat da un lato registrano una sostanziale stabilità del numero di indigenti rispetto agli anni scorsi, dall’altro segnalano una diminuzione della percentuale di italiani alla canna del gas e un aumento degli stranieri che non hanno un reddito sufficiente a garantire a sé stessi e alla propria famiglia una vita dignitosa. In pratica, stiamo aprendo le porte a un’immigrazione che vive ai margini e non parliamo di clandestini, ma di extracomunitari che in gran parte hanno un lavoro, però non adeguatamente pagato. Per necessità molti accettano un salario ai minimi e a volte per calcolo preferiscono sfruttare il sistema di welfare italiano, ottenendo alloggi gratis, sussidi e contributi per le bollette, oltre ad assistenza sanitaria e scolastica.
Fin qui la situazione italiana, che però è molto simile a quella di altri Paesi, in particolare della Gran Bretagna, dove dopo tanto tempo si fanno i conti con un’immigrazione disordinata, che insieme a centinaia di migliaia di stranieri si porta appresso anche innumerevoli problemi. Il principale è stato rivelato, forse senza neppure volerlo, dall’ex primo ministro Boris Johnson. Il quale, durante un’intervista, ha candidamente ammesso che la politica di apertura agli immigrati fu messa in atto per contenere l’inflazione. Vi state chiedendo che cosa c’entri il caro vita con i profughi? La risposta è semplice. Chi arriva da Paesi le cui condizioni di vita sono inferiori a quelle dello Stato di approdo in genere è disposto a fare sacrifici per integrarsi. E di solito, oltre a lavorare di più con meno garanzie, accetta anche condizioni salariali inferiori. Chi ha bisogno è disposto perfino a farsi sfruttare: l’importante è ottenere uno stipendio minimo, che consenta di sopravvivere in attesa di tempi migliori.
Boris Johnson dice di aver puntato proprio sugli immigrati per contenere la spirale inflazionistica. Importando manodopera a basso prezzo, il premier britannico ha tenuto bassi i salari e questo sarebbe servito a contenere i rincari dei prezzi. Meno soldi in tasca alle fasce più a basso reddito della popolazione, meno quattrini da spendere nei supermercati. Ma anche una spinta più contenuta per far crescere gli stipendi. In pratica, quella di Johnson è stata una misura anti inflazionistica, di cui però ora, visti gli effetti, l’esponente conservatore pare un po’ pentito, perché non solo non è servita a riequilibrare i conti pubblici della Gran Bretagna, ma ha anche generato una serie di squilibri. Il primo riguarda la sicurezza, con le sue ricadute politiche che stanno premiando il grande avversario dei Tory, Nigel Farage. Il secondo attiene invece alla situazione delle famiglie, che con meno denaro in tasca vivono al minimo, senza avere possibilità di sgarrare.
Al di là delle ricadute a Londra e dintorni, il caso inglese è interessante per capire che quanto successo di là dalla Manica può capitare anche qui. Anzi, sta già capitando. La forte immigrazione sta alimentando flussi di manodopera in alcuni settori, in particolare nell’agricoltura, con conseguente sfruttamento dei flussi in entrata per ridurre i prezzi e aumentare i profitti.
A dire il vero, avevamo già intuito quale fosse il disegno di imprenditori e politici che sollecitano le porte aperte. E da tempo puntavamo il dito sul tema dei salari, contenuti a colpi di immigrazione. Adesso la percezione è confermata dai fatti. In Gran Bretagna l’importazione di immigrati è servita a contenere i salari. E in Italia la situazione non è certo diversa. L’aspetto curioso è che le forze politiche che si lamentano per le paghe basse sono le stesse che insistono per spalancare le porte a centinaia di migliaia di stranieri. In altre parole, la sinistra è la principale responsabile della mancata crescita degli stipendi. Le politiche dei compagni infatti, hanno depresso il mercato del lavoro, con il risultato a tutti noto.
Adesso milioni di lavoratori sanno con chi prendersela se il loro salario è ai minimi.