Piero Amara: «Dai succhi ai milioni col petrolio. Anche io truffato da Mazzagatti»

The italian job è diventato un intrigo internazionale. L’agenzia di stampa Bloomberg, da alcune settimane, si sta dedicando agli affari petroliferi del manager calabrese Francesco Mazzagatti, il più pagato in Gran Bretagna (oltre 30 milioni di euro di stipendio nel 2024). Il suo tentativo di acquisire da Shell ed Exxon mobile, con la sua società Viaro Energy Ltd (controllata da Viaro investment Ltd), l’impianto di gas di Bacton, a nord-est di Londra, considerato la «spina dorsale» della struttura energetica inglese, ha attirato l’attenzione dell’agenzia governativa britannica Nsta (l’Autorità di transizione del Mare del Nord che regola l’attività delle industrie di petrolio e gas offshore). Ma anche l’acquisto della Rockerose energy ha portato all’apertura un’inchiesta.
Alcuni dei politici più importanti del Paese, tra cui Ed Miliband, ex segretario laburista ed ex segretario di Stato per l’energia e il cambiamento climatico, stanno contestando tali operazioni attraverso interviste e interrogazioni parlamentari.
Questa storia incrocia un controverso personaggio molto noto in Italia, l’ex avvocato Piero Amara, che, nel nostro Paese, ha patteggiato pene per reati che vanno dalla associazione a delinquere per reati contro l’amministrazione della giustizia alla corruzione in atti giudiziari e che di Mazzagatti è stato socio «occulto». Anche se adesso, tra i due, è guerra aperta e Amara si appresta a depositare presso il Tribunale di Milano una memoria (sotto forma di dichiarazioni spontanee) «sulla nascita» dei suoi rapporti con il trentanovenne Mazzagatti. Il quale, dopo la pubblicazione delle prime notizie sul suo conto, ha respinto le accuse.
«Da circa dieci anni il mio nome viene associato a quello di Mazzagatti sulla base della convinzione che io sia socio occulto nelle sue molteplici attività imprenditoriali di cui, lo posso giurare, ho solo condiviso i problemi e mai gli utili» esordisce, con un sorriso sardonico, Amara.
Come ha conosciuto Mazzagatti?
«Me lo presentò Filippo Paradiso, un ex funzionario del ministero dell’Interno, mio amico. Mazzagatti possedeva una piccola azienda chiamata Napag Italia s.r.l. che aveva un fatturato inferiore ai 30.000 euro l'anno. L’oggetto sociale della ditta era “commercio all’ingrosso di succhi di frutta”».
Perché Mazzagatti si era rivolto a lei?
«Voleva propormi un contratto di consulenza affinché assistessi la sua azienda nell’accreditamento nelle liste dei fornitori di Eni Spa (e società controllate) e per consentirgli l’acquisto di catalizzatori per la raffinazione dalla Versalis Spa. Grazie ai miei rapporti con diversi dirigenti dell’Eni, la maggior parte dei quali allontanati dal Cane a sei zampe, nel giro di un solo anno, tra il 2015 e il 2016, ho ottenuto l'accreditamento di Napag presso le principali società dell’Eni coinvolte nel commercio di prodotti petroliferi».
Ma Mazzagatti non aveva alcuna esperienza in quel settore…
«E, infatti, il suo accreditamento era solo il frutto delle mie relazioni personali: uno scandalo, a mio avviso».
Che cosa è successo quando, grazie a lei, Napag ha iniziato a fare affari con l’Eni?
«Tra il 2016 e il 2017 Mazzagatti mi propose di diventare suo socio. Io accettai di buon grado. Mi sono, quindi, occupato di modificare la struttura organizzativa della Napag per rendere la società adeguata a operare nel settore del trading dei prodotti petroliferi. Ho suggerito anche un aumento di capitale sociale sino al valore di 300.000 euro, a cui ho contribuito con 120.000 euro. Eppure, Mazzagatti, nonostante la mia insistenza, con scuse varie, non mi ha mai ceduto le quote della società, come era, invece, previsto dai nostri accordi».
Come versò quel denaro?
«Quarantamila euro tramite bonifico e 80.000 in contanti. Qualcuno ci scattò una foto davanti quei soldi impilati su un tavolino. Un’immagine che per primo, se non ricordo male, pubblicò Panorama. Adesso le ho svelato che cosa fossero e a cosa servissero quei denari».
Secondo diverse Procure lei e Mazzagatti siete diventati anche soci in un petrolchimico iraniano controllato dalla società Mehr…
«Come accertato, inizialmente, dal pm romano Stefano Fava, il primo a capire come stessero le cose, e, poi, dalla Procura di Milano, nel 2018, la Napag, dopo avere ricevuto da Eni circa 25.000.000 di euro per una fornitura di polipropilene ad alta densità prodotto dalla Mehr, acquisì, tramite società costituite ad hoc, il controllo della Alliance petrochemical investment che, a sua volta, controllava il 60% della raffineria iraniana (il resto è di proprietà statale, ndr). Anche quel pacchetto avrebbe dovuto essere suddiviso tra me, Mazzagatti e un socio locale appartenente alla famiglia Jahnanpour. Per questo, nel maggio 2018, quando uscii dal carcere, dove ero finito con l’accusa di frode fiscale, chiesi a Mazzagatti di cedermi le quote che mi spettavano. Lui mi promise che lo avrebbe fatto, ma non mantenne la parola. Oggi è accusato di appropriazione indebita in Iran per avere sottratto all’Api 140.000.000 di euro».
Una parte di quei soldi spettavano a lei?
«In base agli accordi io sarei dovuto diventare titolare del 20% della società Api e, indirettamente, del 12 della Mehr. Quindi a fronte della somma di 140.000.000, proveniente dal petrolchimico e sottratta da Mazzagatti, la mia parte sarebbe dovuta essere di quasi 17 milioni».
La Viaro investment dopo avere rilevato la Rockerose energy si accinge a prendere possesso del fondamentale impianto per il gas di Bacton. Che cosa sa di questa società?
«Quando iniziarono le indagini sulla Napag e io finii in prigione, con Mazzagatti decidemmo di costituire una compagnia di diritto inglese che sarebbe divenuta la futura Viaro investment. Ma anche di questa non ho mai ottenuto le quote che mi spettavano».
Mentre lei scontava la pena, ha mantenuto i contatti con Mazzagatti?
«No. Li ho ripresi solo nel 2023. Nell’occasione mi disse che si trovava in una situazione difficilissima a causa delle azioni legali che stavano intentando in Gran Bretagna nei suoi confronti un ex dirigente dell’Eni, Claudio Zacchigna, e l’avvocato Roberto Ripepi in veste di rappresentanti legali dell’Api. Si tratta del procedimento di cui si sta occupando la stampa internazionale. All’epoca Mazzagatti era enormemente preoccupato e mi chiese di far recedere Zacchigna, ma questi, che sarebbe stato vittima anche di atti di violenza, si rifiutò di tornare sui propri passi».
Ma perché era «enormemente preoccupato» Mazzagatti?
«In primo luogo perché aveva saputo che l’autorità giudiziaria iraniana stava per chiedere la sua detenzione per le somme di cui si era appropriato a spese dell’Api. Ed in effetti, al momento pendono due mandati di arresto (Amara ci mostra le “red notice” dell’Interpol, ndr) nei confronti di Mazzagatti e del suo sodale Francesco Dixit Dominus affinché gli stessi vengano sottoposti a processo».
Mazzagatti aveva notizie di altri procedimenti giudiziari?
«Sì. Aveva saputo che anche gli Emirati arabi si stavano muovendo nei suoi confronti perché nell’ambito dell’acquisizione di Rockerose energy, Mazzagatti, per dimostrare la sua capacità finanziaria, aveva allegato, a garanzia dell’acquisto, una sorta di falsa “lettera di credito” in favore della Viaro energy, apparentemente a firma dello sceicco Zayed Suroor Mohammad Khalifa Alnehayan, oltre a documentazione bancaria falsa da cui risultava che lo stesso sceicco avesse depositato oltre 300 milioni di euro su un conto corrente».
Il suo vecchio sodale non era in ansia per la Giustizia italiana?
«Sì, temeva un procedimento avviato dalla Procura di Roma in cui è accusato di falso in bilancio. Una contestazione concreta. Io rimasi basito quando Mazzagatti mi confessò che i conti di Napag Italia dell’anno 2017 erano stato da lui “gonfiati” con false fatture create con photoshop ed emesse dalla Napag nei confronti della società turca Impex».
A che punto è il processo?
«È fermo da anni perché non si riesce a effettuare la notifica dell’udienza preliminare a Mazzagatti e ad altri imputati».
Come è possibile non riuscire a raggiungere un personaggio conosciuto a livello internazionale?
«Condivido il suo stupore. Il dato è che, di fatto, per ragioni meramente procedurali, una vicenda giudiziaria tanto importante è ferma al palo, senza che se ne comprenda la ragione».
L’Eni aveva chiesto all’agenzia di investigazioni Equalize (successivamente finita nella bufera per presunti dossieraggi) di capire se Mazzagatti, l’imprenditore con cui alcuni suoi dipendenti infedeli avevano intrattenuto rapporti economici, avesse anche legami pericolosi con la criminalità organizzata…
«Mazzagatti era terrorizzato dalla possibilità che la società Equalize e, in particolare, l’ex super poliziotto Carmine Gallo, potesse scoprire che aveva effettuato, insieme con altri, da un conto di Dubai a lui riconducibile, una serie di pagamenti in favore di Antonino Cuzzocrea, un agricoltore che sta scontando in carcere una pena a 30 anni per l’omicidio del cugino Francesco, un soggetto condannato per ‘ndrangheta. All’origine dell’assassinio ci sarebbero dissidi famigliari. Se Gallo avesse trovato la prova di questi rapporti economici con un personaggio del genere per Mazzagatti sarebbe stato un problema anche perché non si capisce a che titolo siano stati effettuati quei pagamenti».
Quando sono stati fatti questi bonifici e qual era l’importo complessivo?
«Io ho traccia di sei trasferimenti avvenuti tra maggio e settembre 2021 per un valore complessivo di circa 50.000 euro. L’uccisione è del 2019, anche se l’arresto è scattato solo nel 2022. Dall’estratto conto risultano altri invii di denaro a uno storico avvocato della famiglia Piromalli, ma non conosco la causale. In ogni caso anche la Guardia di finanza ha accertato contatti sospetti di Mazzagatti. Per esempio, in passato, è stato controllato mentre era in compagnia di personaggi come Antonio Raso o Rocco Gioffrè, entrambi denunciati per associazione a delinquere di stampo mafioso ed è stato fermato anche con altri soggetti appartenenti a importanti famiglie ‘ndranghetiste come i Piromalli e i Barbaro. Non è finita. Tra le sue frequentazioni c’erano pure persone denunciate “solo” per tentato omicidio, truffa, estorsione, ricettazione, furto aggravato e spaccio. Ma nel “curriculum” di Mazzagatti non c’è solo questo».
Che cosa intende?
«È stato arrestato e processato per associazione per delinquere finalizzata alla truffa insieme con soggetti condannati per ‘ndrangheta. Ma per lui, alla fine, è arrivata l’assoluzione, seppur con “formula dubitativa”. Di recente un pentito è tornato a parlare in aula dei rapporti di una vecchia ditta di Mazzagatti con esponenti della criminalità organizzata. Inoltre, nel 2012, è finito alla sbarra per atti persecutori ai danni di una cittadina rumena che l’ex venditore di succhi di frutta aveva provato a costringere ad avere rapporti sessuali. La vittima gli ha attribuito frasi da vero cavaliere come questa: “Ti voglio sc….e e ti pago anche di più se mi fai un pomp…, grandissima putt… rumena! Non sei venuta qui per lavoro, sei venuta per scop…”. Alla fine il reato è stato prescritto».
Quella di Mazzagatti è una vita da film: senza significativi titoli di studio e con amicizie discutibili, è partito da una cittadina della Calabria, Gioia Tauro, ed è diventato uno dei manager internazionali più pagati… avrebbe sposato persino una donna ricchissima, Nadia Al Matrook…
«Vero, l’ho conosciuta personalmente e appartiene a una delle famiglie più importanti del Bahrein. Mi risulta che anche lei abbia sporto denuncia nei confronti dell’ex marito, in questo caso per furto di borse, telefoni e gioielli e per tale motivo sarebbe in corso un ulteriore procedimento penale contro Mazzagatti».
Torniamo al procedimento inglese: se fosse vero che Mazzagatti ha utilizzato, anche in parte, somme provenienti dall’appropriazione indebita iraniana per procedere all’acquisizione di Rockerose, ci troveremmo dinanzi a un’operazione di riciclaggio internazionale…
«Una grande operazione di riciclaggio internazionale e per questo Mazzagatti è, anche in questo caso, enormemente preoccupato».
Alla fine di questa intervista mi conceda una divagazione sulla sua tribolata vicenda giudiziaria. Lei ha lasciato il carcere a luglio e oggi vive a Spoleto. Ma le sue disavventure non sono finite: è tuttora sottoposto a diversi procedimenti, soprattutto per calunnia.
«In Umbria assisto persone che vivono condizione di disabilità. Il mio stile di vita è stato decisamente ridimensionato, ma sono molto sereno. A partire dal 2019 sono stato assolto o archiviato da numerose accuse di calunnia. In passato ho reso dichiarazioni in varie Procure non per risolvere i miei problemi giudiziari, ma perché ritenevo giusto farlo e non ho mai assecondato i desiderata dei magistrati neppure quando avrei potuto trarne grandi vantaggi».
Mi può fare un esempio?
«Durante l’indagine perugina nei confronti miei e di Luca Palamara, che io non ho mai accusato di corruzione anche quando sarebbe stato agevole e utile farlo, un pm, scherzosamente, si mise in ginocchio dinanzi a me, nel senso letterale del termine, e mi disse: “Avvocato mi faccia fare l’indagine della vita su Palamara (l’accusa era che il mio socio Giuseppe Calafiore gli avrebbe dato 40.000 euro per una nomina a procuratore). Io ho continuato a dire la verità e cioè che non avevo corrotto Palamara».
Chi era quel sostituto procuratore?
«Mario Formisano».
La sua è un’accusa grave…
«Ma riguardo a quell’episodio ci sono diversi testimoni: era il 12 giugno 2019 e con me c’erano i miei due avvocati, un maggiore e un luogotenente del Gico della Guardia di finanza…».
La richiesta sarà stata anche «scherzosa», ma lei in quel momento era sotto interrogatorio per una contestazione di corruzione, non eravate al bar davanti a uno spritz…
«Per me era un momento drammatico. Sorridevo ma sudavo freddo. Mi trovavo in estrema difficoltà e imbarazzo. In quei momenti hai paura che se non assecondi le aspettative del magistrato che ti interroga puoi pagarne le conseguenze. Occorre una grande forza d’animo per non farsi condizionare».
Si è mai sentito usato dalle toghe?
«A distanza di anni penso di essere stato uno strumento utilizzato per una resa dei conti all’interno della magistratura italiana. Non voglio assolutamente apparire come una vittima, non fa parte della mia natura, ma i fatti sono evidenti».

































