Il calcio ipotecato: così fondi e banche hanno messo le mani sul futuro dei club

Mentre i tifosi guardano il campo, il futuro del pallone si gioca su altri tavoli lontano dai riflettori. Fondi e banche finanziano stadi e mercato, ma incassano oggi su ricavi di domani. Il denaro arriva subito. Il peso delle scelte resta a chi deve poi sostenerle.
Il vero vincitore della trasformazione finanziaria del calcio europeo non scende in campo. Non indossa una maglia. E non porta un numero sul retro. Non sta in panchina. Non festeggia sotto la curva. Perché ormai nel mondo del pallone moderno il vincitore è sempre di più il capitale che presta, struttura e garantisce. Sono i fondi di credito privato e gli intermediari finanziari che monetizzano il tempo, l’urgenza e la volatilità di un’industria sempre più ossessionata dal risultato immediato.
Mentre i tifosi discutono di moduli e acquisti, su quotidiani sportivi sempre più sdraiati, i i club di tutta Europa si stanno riconfigurando come asset finanziari complessi. Il calcio resta spettacolo. Ma diventa anche una catena di flussi di cassa futuri già promessi. I bilanci assomigliano sempre meno a quelli di società sportive tradizionali e sempre più a quelli di aziende altamente indebitate, con ricavi stagionali, costi rigidi e un bisogno costante di liquidità.
Il debito non è più un incidente. È diventato una strategia. Serve a finanziare stadi e infrastrutture. Serve a sostenere il capitale circolante. Serve a stabilizzare ricavi che dipendono da una qualificazione europea, da un sorteggio favorevole, da un infortunio evitato. La banca commerciale arretra. Il fondo specializzato avanza. Accetta più rischio. Pretende più garanzie. Incassa rendimenti più alti.
Dentro questo passaggio c’è una figura che resta spesso invisibile. L’advisor. La banca d’affari. Il consulente che struttura l’operazione, valuta gli asset, imposta le garanzie, mette in contatto club e capitale. È qui che la partita diventa asimmetrica. Perché l’advisor viene pagato quando l’operazione si chiude. Non quando il modello regge nel tempo.
Il primo esempio è Barcellona. Tra il 2022 e il 2023 il club attiva le cosiddette “leve finanziarie” per oltre 800 milioni di euro. Vende circa il 25 per cento dei diritti televisivi della Liga per 25 anni, incassando poco più di 500 milioni. Cede quasi la metà di Barça Studios per altri 200 milioni. Ottiene cassa immediata per iscriversi ai campionati, registrare giocatori, sostenere il mercato. In cambio rinuncia a una parte rilevante dei ricavi futuri. Gli advisor incassano commissioni subito. Il costo reale emerge solo nel tempo.
Poi arriva lo stadio. Il progetto Espai Barça vale circa 1,5 miliardi di euro. Nel 2023 una parte del debito viene ristrutturata con un’emissione obbligazionaria da 424 milioni, a un tasso medio superiore al 5 per cento e con rimborsi rinviati negli anni. Il club compra tempo. Il mercato applaude. Il rischio resta concentrato sulla capacità di generare ricavi extra per decenni.
Il secondo esempio è il Real Madrid. La ristrutturazione del Bernabéu viene finanziata con una struttura di project finance che cresce nel tempo. Il primo prestito, nel 2019, vale 575 milioni di euro. Nel 2021 viene aumentato di altri 225 milioni. Nel 2023 la linea complessiva arriva a circa 1,17 miliardi. I rimborsi iniziano nella stagione 2023-24. A metà 2025 il debito residuo supera ancora 1,1 miliardi. L’operazione è solida solo se lo stadio produce flussi continui da eventi, hospitality e utilizzo non calcistico. Le banche d’affari svolgono più ruoli. Strutturano il debito. Lo collocano. Incassano commissioni. Il rischio sportivo resta in capo al club.
Il terzo esempio è Tottenham. Il nuovo stadio costa circa 1,2 miliardi di sterline. Nel 2021 il club rifinanzia una parte rilevante del debito con un collocamento istituzionale da 250 milioni. La durata media supera i vent’anni. Una tranche arriva a trent’anni, con scadenza nel 2051. L’operazione riduce la pressione di breve periodo e allinea il debito alla vita dell’infrastruttura. Gli advisor chiudono il deal. Il club resta obbligato a massimizzare ogni giorno l’utilizzo commerciale dello stadio.
Il quarto esempio è Inter ed è il più rivelatore. Nel 2021 il club ottiene un finanziamento da circa 275 milioni di euro, con un costo complessivo che supera il 12 per cento annuo. La garanzia è la holding di controllo. Nel 2024 il rimborso complessivo, tra capitale e interessi, arriva a circa 395 milioni. Il pagamento non viene effettuato. Il creditore escute la garanzia e prende il controllo del club. Advisor legali e finanziari avevano certificato la sostenibilità dell’operazione tre anni prima. Le parcelle erano già state pagate. La proprietà cambia. Il tifoso scopre che il debito non era solo una leva, ma una porta.
Il quinto esempio è il Manchester United. A metà 2025 il club dichiara oltre 165 milioni di sterline di debiti a breve termine, contro poco più di 35 milioni un anno prima. A questi si sommano più di 500 milioni di debito a lungo termine legato a vecchie emissioni obbligazionarie. Le linee di credito servono a coprire il capitale circolante. I costi finanziari crescono. Le grandi banche d’affari seguono il dossier come consulenti per una possibile vendita, come finanziatori e come analisti. Ogni ruolo genera valore per l’intermediario. Nessuno dipende dai risultati sportivi.
Il sesto esempio riguarda la fascia più fragile del sistema. Club di medio-bassa classifica inglese ricorrono a prestiti da 70–80 milioni di sterline, con tassi che arrivano all’8 o 9 per cento annuo. Le garanzie includono stadi e immobili. Il finanziamento serve a restare competitivi. Se arriva la retrocessione, i ricavi crollano. Il fondo resta protetto. Il club entra in difficoltà. L’advisor ha già chiuso l’operazione.
In questo quadro le banche d’affari non sono semplici spettatrici. Sono architetti del sistema. Creano strumenti su misura per un’industria che vive di reputazione e aspettative. Spesso consigliano lo stesso club su più fronti. Ristrutturazione del debito. Ricerca di investitori. Valutazione degli asset. Ogni passaggio genera parcelle che, anche su percentuali minime, valgono milioni. Il movimento è premiato più della stabilità.
Il regolatore osserva e rincorre. Le nuove regole UEFA stanno provando a limitare la spesa per salari e cartellini in rapporto ai ricavi. Ma non entrano nel merito della qualità del debito. Non distinguono tra investimenti e rincorsa sportiva. Non guardano al ruolo degli intermediari. Il sistema resta legale. Non sempre resta sano.
Le conseguenze sul mercato sono evidenti. I trasferimenti diventano strumenti finanziari. I contratti si allungano per diluire i costi. Le plusvalenze diventano ossigeno contabile. I giovani diventano asset liquidi. Le scelte sportive rispondono sempre più spesso a vincoli scritti nei contratti di finanziamento, non solo alle idee dell’allenatore.
Cambia anche l’identità dei club. Lo stadio non è più solo casa. È una garanzia. I diritti televisivi non sono più solo ricavi. Sono promesse anticipate. La maglia non è più solo simbolo. È una linea di business da valorizzare. Il tifoso percepisce il cambiamento quando il prezzo sale, quando l’orario cambia, quando il club parla più il linguaggio degli investitori che quello della città.
Alla fine la domanda è semplice solo in apparenza. Questo modello rende il calcio più solido o solo più dipendente dal capitale che lo finanzia? Quando il debito serve a costruire infrastrutture che producono ricavi stabili, il sistema regge. Quando serve a inseguire risultati immediati, il rischio viene solo spostato in avanti.
In questa partita silenziosa, mentre l’attenzione resta sul campo, una cosa è già chiara. I fondi che prestano e i consulenti che strutturano hanno già vinto. Incassano prima. Incassano comunque. Tutti gli altri, club compresi, giocano a credito. E nel calcio, come nella finanza, il credito non è mai neutrale. Decide chi comanda quando il risultato non basta più.
















