
Il bovino di Carrù, enormi natiche e cosce muscolose, mette il turbo al piatto di cui andavano ghiotti Camillo Benso di Cavour e Vittorio Emanuele II. Frutto di una mutazione genetica spontanea avvenuta nel 1886, ha reso speciale la fassona piemontese.C'è chi si chiama Trono, e si aggiudica il podio di vincitore dall'alto dei suoi 1.400 chilogrammi di stazza, ma non gli è da meno Usignolo, pur nella discrezione dei suoi 11 quintali. Questi sono solo alcuni tra i nomi dei buoi grassi di Carrù che, ogni anno, si aggiudicano la prestigiosa Gualdrappa di vincitore in quella che l'inglese The Guardian ha considerato tra le 50 più importanti fiere della gastronomia internazionale. Stiamo parlando della Fiera del bue grasso, una manifestazione che ha le radici nel lontano dicembre del 1910 e che, da allora, ogni anno, il secondo giovedì di dicembre, rappresenta l'orgoglio dei piccoli allevatori della razza piemontese. Per i carruesi è il giorno più atteso dell'anno: «Prendono il tabarro e lo indossano come fosse la loro storia». Una serie di riti che comincia all'alba, con allevatori e curiosi che si ritrovano al Bue's Stadium (un contenitore da oltre 700 posti) e lungo i locali del paese. Colazione d'ordinanza a base di trippe in brodo e un calice (o più) di Barbera, tanto per combattere i primi freddi invernali. La chiamano anche la Colazione del Tocau (l'antico bastone con cui si governava il pio bove). Ma procediamo con ordine, in questa storia che parte da lontano, anzi dal quaternario. Sembra infatti che quella che oggi viene definita razza piemontese derivi dall'intrappolamento, bloccato tra frane e acquitrini in una zona compresa tra le Alpi e gli Appennini, di un tipo di bovino cui poi, secondo alcuni storici, si aggiunse una contaminazione di mandrie provenienti dal Pakistan. Si tratta di bestie caratterizzate da una buona adattabilità all'allevamento in zone altimetriche diverse, dalla pianura al pascolo. Mentre nella pianura si privilegiava l'allevamento da latte, in collina erano bestie da lavoro e successivamente da carne. Alcuni tra gli allevatori intuirono che, quando l'animale oramai era spossato dalla fatica sui campi, lo si poteva rinvigorire, una volta a riposo, con una dieta che «lo rimettesse in carne». Caratteristica della razza piemontese, infatti, è quella di avere un'ossatura sottile, una buona dotazione muscolare e un'ottimale distribuzione tra fibra e grasso, tanto che, i moderni studi, ne hanno esaltato anche le virtù dietetiche. Ricca di ferro, «leggera» di colesterolo. Già nel 1300 i primi capi presero la via dei mercati lombardi e genovesi. Carrù era al centro di queste dinamiche, tanto che, dal 1473, si ha notizia dei primi mercati settimanali. Nel 1635 il Duca Vittorio Amedeo I di Savoia concesse di tenere una fiera annuale. Il veterinario Carlo Lessona, nell'Ottocento, giunse alla conclusione che la fassona piemontese poteva essere migliorata al suo interno senza ricorrere ad apporti genetici esterni. Non solo, ma la «forzatura» tesa a migliorare la resa carnea dell'animale era possibile solo con questa razza e non con altre. La svolta avvenne nel 1886, quando in alcune cascine di Guarene nacque qualche toro dalle enormi natiche e dalle cosce molto muscolose. «Si trattò di una mutazione genetica spontanea», ricorda Franco Cazzamali, macellaio che ha valorizzato la fassona come pochi «all'inizio vennero considerati dei mostri, ma qualcuno degli allevatori capì invece che erano una preziosa risorsa su cui puntare per il futuro». La variante del bue grasso venne certificata dal veterinario Luciano Enlo nel 1903. I «vitelli» della coscia» divennero i migliori ambasciatori della razza piemontese. «La selezione di quello che diventerà il bue grasso, avviene nella stalla» continua Cazzamali «l'allevatore esperto sa riconoscere quale, tra i vitellini, andrà privilegiato in tal senso, conoscendo anche l'origine della madre. Nella disciplinare della fassona esiste la linea diretta vacca vitello. L'allattamento procede fino allo svezzamento, posto tra i 5 e i 6 mesi. Mentre per il vitellino normale la castratura naturale è prevista verso i 2 mesi, con dei legacci, per quello che diventerà bue grasso vi sono dei veterinari specializzati che usano il burdizzo, una sorta di tenaglia che procede ad una naturale castrazione previo lo stacco dei condotti seminali». Un cenno particolare merita Sergio Capaldo che, anima e motore del consorzio La Granda, ha fatto diventare adulta la razza fassona. Su tutto la valorizzazione del ruolo dell'allevatore produttore, salvaguardando le piccole produzioni. Dopo essere stato seguito con attenzione particolare sino ai 4 anni di età, il bue grasso è pronto, da concorso (e per il mercato). La Fiera del bue grasso «è un bagno di vera piemontesità», come ha ricordato Carlin Petrini. Con le facce degli allevatori, i volti arrossati dal sole e le barbe ispide. Le bestie che, prima della sfilata davanti alla giuria, vengono curate che neanche a Miss Universo. Alle 11 la giuria premia i vincitori, suddivisi per diverse categorie. Al miglior bue grasso viene assegnata la Gualdrappa, una specie di coperta di lusso, riccamente ornata, nata nel 1917 dall'estro di Luigi Borra, una singolare figura di musicista e pittore, cui poi sono succeduti importanti artisti locali. Vincere la Gualdrappa, per un allevatore delle Langhe, è come aggiudicarsi lo scudetto. Per la bestia un po' meno: che si chiami Attila o Pavone, il destino è segnato, a dar gioia terrena a coloro che gusteranno le sue carni. Carrù, patria di Luigi Einaudi, ha molti segnali legati al bue testimonial della sua identità. Vi è la scultura a lui dedicata, opera di Raffaele Mondazzi ma, soprattutto, vi è la Casa museo della razza bovina piemontese, il primo di questo tipo in Italia, il secondo in Europa, dopo quello della Charolaise in Francia. È a tavola che la fassona, con il turbo del bue grasso, fa letteralmente il botto. Molti i piatti che esaltano il gusto della tradizione. Su tutti il Gran bollito alla piemontese. Un piatto di cui andavano ghiotti Camillo Benso di Cavour e Vittorio Emanuele II, ma che era radicato in ogni famiglia, ognuna con i suoi piccoli segreti. Descritto per la prima volta in un testo da Giovanni Vialardi, nel 1887. Tuttavia a mettere ordine ci pensò Giovanni Goria, figura storica dell'Accademia Italiana della Cucina, che codificò la «regola del 7», ovvero degli ingredienti principali. Posto che un buon bollito è una sinfonia in cui tutti i vari componenti devono accordarsi tra loro. Ecco allora i sette tagli principali (rigorosamente di bue grasso): si va dal cappello del prete alla punta di petto, passando per il tenerone. «La carne, ben frollata, va tutta cotta assieme, così certi pezzi sono più morbidi, altri più croccanti». Dopo lungo bollore si «ritocca alla fine» con dentro un mazzo di profumi diversi. «Attenzione alla gestione del brodo. Se si asciuga troppo, la carne rischia di essere salata, insipida se l'effetto contrario», ricorda lo chef stellato Davide Palluda. Seguono i sette ammennicoli o frattaglie. Qua entrano in gioco il vitello, il maiale, la gallina. Tuttavia la vera differenza in un grande bollito, posto che la materia prima vaccina è fuori discussione, lo fanno le sette salse di accompagnamento. In primis il bagnet verde, ma anche il bagnet ross o il cren, per non parlare della cugnà. Ma non finisce qui: la quadratura del 7, secondo il codice Goria, si completa con altrettante verdure. È chiaro che siamo davanti a un'inarrestabile odissea di gola, che richiede dedizione e tenacia, tanto che la Confraternita del bollito recita: «Il commensale si presenti ben vuoto, riposato e ben disposto. Non faccia calcoli di tempo e men che meno di calorie». Poche regole, ma precise. La benedizione finale arriva con una tazza di brodo ristretto e Barbera. Per chi non ha sufficiente cilindrata gastrica, al termine della corrida bollita, può sempre entrare in generoso soccorso la tintura sacra al rabarbaro, una mistura digestiva inventata dal farmacista locale, Mario Andreis, a fine Ottocento.
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
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Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.