L'Ue si prende gioco del Regno Unito, che invece merita totale rispetto perché tutela le scelte dei cittadini. E intanto l'economia tira.C'è qualcosa di sospetto nel tentativo del pensiero unico europeista di mettere in burla Brexit. Capi politici dell'Ue e mainstream media si sono mossi da tre anni come un sol uomo: prima quando avevano previsto (sbagliando) la vittoria del Remain, mostrando di non capire l'insofferenza degli elettori britannici verso il triangolo Berlino-Parigi-Bruxelles; poi quando avevano profetizzato, dopo il successo del Leave, sciagure economiche per l'Uk (che ovviamente non si sono verificate); e ora quando festeggiano lo stallo parlamentare a Westminster, dimenticando che lì ci sono 650 persone elette, mentre nessun cittadino europeo ha mai votato per conferire a Jean-Claude Juncker o a Michel Barnier le cariche da cui pontificano.In ogni caso, la situazione è ingarbugliata. Nelle scorse settimane, il piano (rinunciatario) di Theresa May è stato già bocciato tre volte. L'altra sera, in un labirinto di veti incrociati, sono state respinte pure quattro opzioni alternative. La prima puntava a mantenere Londra nell'unione doganale (sacrificando l'essenza di Brexit: e cioè la possibilità di fare accordi commerciali in totale autonomia) ed è stata bocciata per 3 voti. La seconda (uscita dall'Ue ma non dal mercato unico) ha perso per 21 voti. La terza (per un nuovo referendum) si è fermata a meno 12 dalla maggioranza. La quarta, per poter revocare l'articolo 50 (e quindi la richiesta di uscita) è stata strabattuta, con 101 voti di margine.Ieri la May ha riunito per 8 ore (e senza telefoni cellulari: praticamente un sequestro!) i suoi ministri, per poi rilasciare una dichiarazione vaga: «Dobbiamo trovare un compromesso, perché è meglio uscire con un accordo». Su questa base, ha proposto una breve estensione temporale a Bruxelles, e soprattutto un incontro al leader dell'opposizione Jeremy Corbyn. E francamente era stridente il contrasto tra la grande attesa creata dalla riunione e il carattere minimalista della dichiarazione finale. E non a caso, a discorso finito, l'anchorwoman di SkyNews Uk, Beth Rigby, vedendo uscire i ministri a uno a uno, si è messa a chiedere ad alta voce - in diretta - se si sarebbero dimessi o no. La sensazione è che la May cerchi un estremo tentativo di far votare il suo piano (riveduto e corretto d'intesa con l'opposizione, se ci riuscirà) per la quarta volta, in un ennesimo «meaningful vote». La premier continua a sostenere che la sua mediazione sia preferibile al no deal, cioè all'uscita senza accordo (che pure ieri sera la May non ha escluso del tutto). Quest'ultima - a ben vedere - sarebbe la soluzione più limpida e chiara, nonostante le demonizzazioni di cui è oggetto dentro e fuori la Gb. In Uk la sostengono, tra gli altri, l'ex ministro degli Esteri Boris Johnson e l'ex governatore della Bank of England, Mervyn King. Ma ormai è una posizione maggioritaria nella compagine parlamentare Tory (non nel governo, però), come mostra la lettera in cui oltre 170 deputati chiedono che Londra esca dall'Ue il 12 aprile «con o senza accordo».Comunque - inutile girarci intorno - si sta consumando uno scontro al calor bianco dentro il partito conservatore. Sarebbe sbagliato ridurre la contesa a una questione (che pure esiste) di rivalità e ambizioni per sostituire una May al capolinea. C'è molto altro: la questione nevralgica del rapporto con l'Europa continentale, che da sempre vede una divisione tra l'ala più thatcheriana (insofferente alle logiche burocratiche di Bruxelles) e le componenti più eurofile del partito. La vera delusione è stata la May. Pur avendo a suo tempo votato Remain, era divenuta premier promettendo una vera attuazione di Brexit («Brexit means Brexit», aveva detto), e invece ha gestito tutta la partita non per sfruttare le opportunità di Brexit, ma vivendola come un danno da limitare. Risultato? Un negoziato umiliante, con Londra presa in giro dall'Ue. E infatti, nel medio termine, la vera soluzione del rebus si avrà solo con nuove elezioni generali in cui i conservatori possano sfidare con un nuovo leader un candidato impresentabile come Corbyn, un tipetto che oscilla tra collettivismo economico e aperto antisionismo.Intanto, anche ieri Bruxelles ha riversato su Londra la consueta miscela di insulti e bullismo. Ecco Guy Verhofstadt: «Una hard Brexit diventa quasi inevitabile. Il Regno Unito ha l'ultima possibilità di rompere lo stallo o di affrontare l'abisso». Poi il solito Juncker: «Una sfinge è un libro aperto a paragone del parlamento britannico». In fotocopia, il capo negoziatore Ue Michel Barnier: «Se l'Uk vuole ancora lasciare l'Ue in modo ordinato, l'accordo di divorzio resta l'unico modo». Con la minaccia finale: «Non tutto andrà liscio, ci saranno problemi». Non siamo lontani da quell'inferno che Donald Tusk aveva augurato ai pro Brexit. E al coro non si è sottratto nemmeno Emmanuel Macron: «L'Ue non si farà prendere ostaggio dalla crisi politica in Uk».Tutte dichiarazioni da cui trapela che ad essere preoccupati dal no deal sono proprio Berlino-Parigi-Bruxelles, che si ritroverebbero una Global britain definitivamente sganciata dal giogo europeo, e con forti chances di realizzare una super-intesa commerciale con gli Usa di Donald Trump. In ogni caso, il Regno Unito merita totale rispetto. Perché lì la volontà degli elettori è sacra: non dispiaccia ai mandarini di Bruxelles, i quali preferiscono sentenziare che «gli elettori sbagliano», e sono abituati ad andare avanti bypassando la volontà popolare. Perché lì il Parlamento è un corpo vivo, non un luogo di ratifica. E votare due, tre, quattro volte, è parte di una dinamica parlamentare a cui troppi si sono disabituati dalle nostre parti. E - su un altro piano - perché lì, a dispetto dei profeti di sventura, l'economia continua a tirare: per citare gli ultimi indicatori, la disoccupazione in Gb è ai minimi, e l'indice Pmi manifatturiero è salito da 52,1 a 55,1, mentre in Germania è sceso da 47,6 a 44,1 (record negativo dal 2012).
Un frame del video dell'aggressione a Costanza Tosi (nel riquadro) nella macelleria islamica di Roubaix
Giornalista di «Fuori dal coro», sequestrata in Francia nel ghetto musulmano di Roubaix.
Sequestrata in una macelleria da un gruppo di musulmani. Minacciata, irrisa, costretta a chiedere scusa senza una colpa. È durato più di un’ora l’incubo di Costanza Tosi, giornalista e inviata per la trasmissione Fuori dal coro, a Roubaix, in Francia, una città dove il credo islamico ha ormai sostituito la cultura occidentale.
Scontri fra pro-Pal e Polizia a Torino. Nel riquadro, Walter Mazzetti (Ansa)
La tenuità del reato vale anche se la vittima è un uomo in divisa. La Corte sconfessa il principio della sua ex presidente Cartabia.
Ennesima umiliazione per le forze dell’ordine. Sarà contenta l’eurodeputata Ilaria Salis, la quale non perde mai occasione per difendere i violenti e condannare gli agenti. La mano dello Stato contro chi aggredisce poliziotti o carabinieri non è mai stata pesante, ma da oggi potrebbe diventare una piuma. A dare il colpo di grazia ai servitori dello Stato che ogni giorno vengono aggrediti da delinquenti o facinorosi è una sentenza fresca di stampa, destinata a far discutere.
Mohamed Shahin (Ansa). Nel riquadro, il vescovo di Pinerolo Derio Olivero (Imagoeconomica)
Per il Viminale, Mohamed Shahin è una persona radicalizzata che rappresenta una minaccia per lo Stato. Sulle stragi di Hamas disse: «Non è violenza». Monsignor Olivero lo difende: «Ha solo espresso un’opinione».
Per il Viminale è un pericoloso estremista. Per la sinistra e la Chiesa un simbolo da difendere. Dalla Cgil al Pd, da Avs al Movimento 5 stelle, dal vescovo di Pinerolo ai rappresentanti della Chiesa valdese, un’alleanza trasversale e influente è scesa in campo a sostegno di un imam che è in attesa di essere espulso per «ragioni di sicurezza dello Stato e prevenzione del terrorismo». Un personaggio a cui, già l’8 novembre 2023, le autorità negarono la cittadinanza italiana per «ragioni di sicurezza dello Stato». Addirittura un nutrito gruppo di antagonisti, anche in suo nome, ha dato l’assalto alla redazione della Stampa. Una saldatura tra mondi diversi che non promette niente di buono.
Nei riquadri, Letizia Martina prima e dopo il vaccino (IStock)
Letizia Martini, oggi ventiduenne, ha già sintomi in seguito alla prima dose, ma per fiducia nel sistema li sottovaluta. Con la seconda, la situazione precipita: a causa di una malattia neurologica certificata ora non cammina più.
«Io avevo 18 anni e stavo bene. Vivevo una vita normale. Mi allenavo. Ero in forma. Mi sono vaccinata ad agosto del 2021 e dieci giorni dopo la seconda dose ho iniziato a stare malissimo e da quel momento in poi sono peggiorata sempre di più. Adesso praticamente non riesco a fare più niente, riesco a stare in piedi a malapena qualche minuto e a fare qualche passo in casa, ma poi ho bisogno della sedia a rotelle, perché se mi sforzo mi vengono dolori lancinanti. Non riesco neppure ad asciugarmi i capelli perché le braccia non mi reggono…». Letizia Martini, di Rimini, oggi ha 22 anni e la vita rovinata a causa degli effetti collaterali neurologici del vaccino Pfizer. Già subito dopo la prima dose aveva avvertito i primi sintomi della malattia, che poi si è manifestata con violenza dopo la seconda puntura, tant’è che adesso Letizia è stata riconosciuta invalida all’80%.






