
Iginio Massari, uno dei più rinomati pasticcieri italiani, può documentare che il Bresciano riserva diverse squisite sorprese.Esplorare le diverse tentazioni golose della Leonessa d’Italia ha portato a un viaggio inatteso, frutto di molte scoperte in quella terra che si riteneva a dieta circoscritta, casonsei, spiedo e poco altro. Leonessa coerente quindi anche al dolce commiato. Negli ultimi anni si è imposto all’attenzione nazionale il bossolà che ha come ambasciatore e testimone uno dei più rinomati pasticcieri italiani, Iginio Massari. Bossolà che affonda le sue radici nella semplicità di una società che si accontentava di poco, facendo tesoro di quanto dispensa offriva. Simile ad un’alta ciambella, ma più soffice e vaporosa, frutto di una paziente lavorazione, inizialmente con due lievitazioni prima di essere passato al forno. Sull’etimo e le origini varie teorie, tra storia (poco) documentata e leggenda. Massari sostiene che la forma a spirale è un rimando ai celti e a uno dei loro miti, il serpente attorcigliato, besolat in bresciano, simbolo di forza e rigenerazione. Per altri la forma rinvia alla buccina, la tromba ricurva dei legionari romani e buccellaro (besolat) l’addetto alla sua distribuzione fra i vari reparti. Venti secoli di storia tutti da dimostrare. È storico il rapporto fra le terre bresciane e Venezia (guarda caso lo stesso Massari è titolare della Pasticceria Veneto) e questo favorisce la nostra indagine etimologica. Con la battaglia di Meclodio, del 1427, le truppe bresciane permisero a Venezia di sconfiggere definitivamente le mire espansionistiche dei Visconti di Milano. In quell’occasione il conte di Carmagnola, nome di battaglia di Francesco Bussone, volle offrire alle sue truppe un semplice dolce lievitato che apparteneva alla tradizione di famiglia. In suo onore il nome conseguente: bussolà. Su questa ipotesi di primogenitura si innesta un’indagine ben documentata di Alberto Cougnet, una singolare figura di medico gourmet, autore di diverse pubblicazioni di storia della cucina. In una di queste si era preso la briga di analizzare i listini dei panettieri nazionali del XV secolo. Ecco allora il pan forte a Siena, il pan pepal a Bologna e il bussolato a Brescia. Al termine di questa lotteria tra storia e leggenda forse la miglior sintesi è quella di Emilio Dal Bono, già sindaco della città. «Il bossolà è una potente madeleine. Il gusto delicato è il segreto della sua bontà. Riflette il carattere della sua gente, tutto sostanza e concretezza, senza inutili orpelli». Dal Novecento in poi, quindi, il bussolà risulta ben documentato in una ricca bibliografia con importanti firme di storia locale o affermate a livello nazionale, una per tutti Anna Gosetti della Salda, che ne descrive una variante un po' barocca, simil panettona, con granella di zucchero e mandorle tritate. Era iniziato il tempo del riscatto, della sfida al più blasonato panettone meneghino. Nel frattempo il bussolà era uscito dai forni delle cucine domestiche, tanto che la prima pasticceria bresciana, quella fondata da Carlo Chiappa nel 1836, aveva come cavalli di battaglia golosa il bossolà e la persicata. Nel 1862 si affianca la pasticceria Piccinelli. Il bossolà varca i confini locali, facendosi conoscere dai palati curiosi, grazie anche al fatto che venne premiato da re Vittorio Emanuele II in visita alla città da poco entrata a far parte del Regno d’Italia. Il ciambellone detto bussolà cresce di fama e di altezza, in quanto nelle pasticcerie professionali questo ciambellone cavo al centro viene fatto lievitare all’interno di quello stampo che Anthelme Brillat-Savarin si inventò per lavorare un originalissimo timballo di riso, mentre invece le donne di casa si accontentavano di porre una scodella al centro della classica tortiera. Il rivoluzionario Iginio Massari aggiunse il suo tocco di originale creatività alla consolidata tradizione. Con lui le lievitazioni passato da due a tre, prima del passaggio finale in forno. Non solo, ma lo sdogana anche dal calendario, un po’ come proposto da Davide Paolini con il suo panettone ideale a Ferragosto, sotto l’ombrellone. Se prima di Massari il bussolà allietava le tavole dall’autunno a Natale, lui lo propone a tutto calendario. «Se è un dolce così buono, perché limitarsi a mangiarlo pochi mesi all’anno?». La proclamazione di Brescia capitale italiana della Cultura, assieme a Bergamo, ha dato un ulteriore spinta alla promozione e valorizzazione del bussolà. In una interessante ricerca ben documentata da Giovanni Brondi è emerso come il bussolà sia ancora poco conosciuto al di fuori dei confini provinciali e come sia ben radicato nella memoria collettiva delle classi più mature, molto meno tra i giovani. Ecco, quindi, che c’è molto da… far lievitare, a dimensione di bussolà. Ambasciatore di una filiera dolce che ha molto altro da far scoprire e apprezzare, ad iniziare dalla persicata, una squisita marmellata solida ricoperta da un velo di zucchero, «oro colato da mettere in bocca», Iginio Massari docet. Si usano le pregiate pesche di Collebeato raccolte a fine stagione. Avevano conquistato Gabriele D’Annunzio che, nella sua reggia del Vittoriale a Gardone Riviera, poteva interrompere i suoi leggendari digiuni davanti ad un vassoio di persicata. Leggenda vuole che siano nate da cuore di mamma nel corso della Grande Guerra. Vedendo il figlio partire per il fronte, volle trasmettergli la memoria e i gusti della loro Val Trompia. Fu così che si inventò una particolare lavorazione, sorta di barrette di pescosa gelatina zuccherata, resistenti al tempo e a condizioni non ideali di conservazione lungo il trasporto. Altra dolce curiosità bresciana le bertoldine. L’arte del riuso portata alla virtù godereccia. Bertoldo è sempre stato il simbolo del giovane contadino svelto d’ingegno e creatività applicata. Nelle case contadine era il miglior riutilizzo della pasta residua nella madia, preferibilmente stelline e altri formati di piccolo taglio. Sorta di frittelle combinate con latte e farina spadellate e poi zuccherate. Ovviamente di forme diverse secondo quanto la memoria di casa poteva tramandare dai quaderni delle nonne. Curiosi ravioli dolci i fiadoni. Le prime tracce in uno dei capolavori della letteratura volgare bresciana del XVI secolo, «La Massera de bè» (la massaia previdente) di Galeazzo dagli Orzi. Ricco di aromi e spezie, dalla cannella alla menta come maggiorana o zafferano per i più fortunati, con un ripieno di datteri o quant’altro si aveva a disposizione. Pur se le sue origini sono mantovane, la torta di rose vive una seconda giovinezza quale «regina dell’estate sulle rive del Garda», come ben sottolinea Carola Fiora. Creata per celebrare al meglio il matrimonio tra Isabella d’Este e Federico Gonzaga, nel 1490. Da un’idea di Cristoforo di Messisbugo, omaggio che voleva ricordare un mazzo di rose, per la forma data ai riccioli in superficie, farciti di burro generoso che a Desenzano festeggiano in abbinamento con il brodo di giuggiole. La meritata citazione della staffa alla camuna focaccia di Breno, spongada per tutti. Citata già nel 1817 da Giovanni Melchiorri, che ne fa risalire il nome dal latino sponga, per la sua consistenza morbida e spugnosa. Legata alla Pasqua, per la presenza delle uova, un’ideale croce incisa sulla superficie, pennellata con chiara d’uovo. Leggenda vuole che, un giorno, un mendicante entrò da un fornaio, chiedendo un piccolo aiuto. Gli venne regalata l’ultima pagnotta che lui nascose sotto il mantello. Poco dopo la offrì, trasformata in gustosa dolcezza, a dei bambini che incontrò lungo il suo cammino. Molti videro in lui il volto di Cristo. Entrò subito nella tradizione, come ben racconta Giacomo Ducoli «tanto che si offriva ai poveri e agli ammalati in segno di salute e augurio nel periodo pasquale». Così radicata nella tradizione che ogni anno, a Breno, si assegna la «Spongada d’oro» al miglior pasticcere amatoriale.
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