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2018-07-29
La Francia schiera Bernard Henri Lévy contro l'Italia: teme un'intelligence guidata da Savona
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È arrivato a Torino. «Cristiano Ronaldo?», vi domanderete. Ma no, altro che Cr7: è arrivato Bhl. Francese nato in Algeria, figlio di un multimiliardario, intellettuale, polemista, Bernard Henri Lévy dev'essere stato a lungo incerto se fare il filosofo, la rockstar o il santone laico: nel dubbio, ha deciso di fare tutte e tre le cose. La notizia è che da ieri ha iniziato la sua collaborazione con il quotidiano La Stampa.
Per comprendere Bhl, è indispensabile la massima di Oscar Wilde: «Solo i superficiali non giudicano dalle apparenze». Guardatelo in foto: solenne, cotonatissimo, capigliatura che avrebbe suscitato l'invidia di Maria Antonietta, camicia aperta svolazzante accuratamente spiegazzata (né troppo né troppo poco: ore di preparazione, capite bene…), espressione ispirata e sofferente, il tono costante di chi ti descrive l'abisso morale del nostro tempo dal quale soltanto lui potrà salvarti.
Filosoficamente parlando, il nostro, più che un guru, è da sempre un paraguru: è stato negli anni Settanta uno dei nouveaux philosophes, pensatori dal retroterra fritto misto (un po' di marxismo, un po' di maoismo, un po' di esistenzialismo), che poi hanno ripudiato il comunismo (bene) salvo però subito dopo passare gran parte del tempo a criticare capitalismo e conservatorismo (male).
Come dicevamo, siccome i tromboni italiani non erano abbastanza, da ventiquattr'ore il quotidiano di Torino si è assicurato le prestazioni del supertrombone francese. E che prestazioni! L'esordio è stata una difesa a corpo morto di Emmanuel Macron, sotto assedio perché il suo bodyguard prediletto, tale Benalla (super stipendio, super appartamento, super intimità con la coppia presidenziale), il primo maggio scorso ha malmenato alcuni manifestanti travestito da poliziotto. Ovviamente, un po' tutti in Francia hanno spiegazioni da chiedere a un Macron alle corde (come La Verità vi ha raccontato nel dettaglio nei giorni scorsi).
Meglio di un bodyguard, meglio di Benalla, arriva ora Bhl, che (a rischio di spettinarsi) insorge a difesa dell'Eliseo. Bhl non si dà pace, è sconvolto: «Macron è nella vasca dei piranha», siamo davanti a una «sequenza singolare e agghiacciante...». Sì, c'è stata una «sbavatura» (scrive testualmente il paraguru), perfino un «grave errore» (ammette, bontà sua), però da quel momento la vera vittima è stato il povero Macron: «la preda imperiale che i piranha vogliono spolpare fino all'osso», «ipotesi grottesche sulla vita privata della coppia presidenziale», «orde pettegole» scatenate sui «cosiddetti social network», il «fruscio dei tweet», i «sanculotti senz'anima», il «mondo impazzito», il «fascismo in ascesa».
Bhl è partito e capite bene che non lo si può fermare: è un flusso di coscienza. Ma attenzione: è arrivato al punto. I cattivoni se la prendono con Macron perché è l'unico «argine» contro «l'internazionale delle nuove tirannie» e gli immancabili «populisti». E qui occorre fermarsi un attimo a riflettere, perché viene fuori la seconda dimensione di Bhl. Finora abbiamo scherzato sugli aspetti scenografici e coreografici: trucco e parrucco, vanità sfacciata, pose da indossatore. Ma l'uomo non va affatto sottovalutato: perché va (o viene inviato, o si autoinvia: fate voi) ogni volta che c'è da salvare qualcuno o da destabilizzare qualcun altro. Sarà una coincidenza: ma quando c'è una missione delicata, arriva lui, in posa plastica.
Il primo esempio (ramo salvataggi) è quello che abbiamo finito di raccontare: questa disperata difesa dell'indifendibile Macron che, non scordiamocelo mai, fino a qualche mese fa era l'eroe assoluto degli euroentusiasti e degli eurolirici (ve lo ricordate il selfie di Enrico Letta durante i festeggiamenti postelettorali francesi e l'indimenticabile tweet di Paolo Gentiloni «una speranza s'aggira per l'Europa»?). Adesso, il loro campione è nei guai, e occorre rimetterlo in piedi per le elezioni europee.
Secondo esempio (ramo destabilizzazioni): Brexit, che invece a Bhl non piace. Figurarsi, il dogma europeista messo in discussione, e perfino per decisione degli elettori: una cosa intollerabile per Lévy, che ha scritto una caterva di articoli e ha messo in piedi perfino una strampalata performance teatrale per spiegare agli inglesi che «Brexit è un regresso di civiltà».
Terzo esempio (ramo destabilizzazioni, qualche anno fa): la Libia. In quel caso, Bhl, allora agiografo instancabile di Nicolas Sarkozy, non solo sostenne l'intervento, ma poi, in un docufilm da lui scritto, diretto e interpretato (l'uomo è multimediale oltre che multiautocelebrativo), rivendicò di aver avuto un ruolo negli incontri tra Sarkozy e i ribelli anti Gheddafi. Il quale era quello che era, sia ben chiaro: ma l'esito dell'operazione libica è sotto gli occhi di tutti.
C'è chi teme che la nuova attenzione per l'Italia di Bhl possa celare il desiderio di un «quarto esempio». È noto che a Parigi tanti auspicavano un esito elettorale diverso prima del 4 marzo, e, anche dopo - come male minore - un'intesa M5s-Pd: uno schema centrato sul Pd e ritenuto Oltralpe più funzionale alla difesa degli interessi politici e commerciali francesi. Ora in alcuni ambienti (lo ha raccontato ieri La Verità) è scattato una specie di piano B: occorre lavorare sulle faglie (vere o presunte, reali o supposte) tra il Mef e gli azionisti di maggioranza dell'esecutivo, tra il ministro Giovanni Tria e la coppia Salvini-Di Maio, tra il Quirinale e l'asse politico oggi prevalente.
Vero? Verosimile? Nessuno può dirlo con certezza: ma un Bhl in prima pagina può sempre tornare utile per le necessità estive (e soprattutto autunnali) di un certo establishment, italiano e non.
Daniele Capezzone
La Francia ha paura dell’intelligence guidata da Savona
Chiunque abbia letto un solo libro del professor Paolo Savona sa bene che l'ultima cosa che gli si possa imputare è quella di non essere un europeista. In ogni suo scritto concernente la comunitarizzazione delle istituzioni si trovano, sempre, insieme alle analisi dei problemi creati dal mercato comune anche le possibili soluzioni. Una volta appurata tale semplice verità, e compreso che dalla presenza attiva di Paolo Savona l'Europa avrebbe tutto da guadagnarci, se ne deduce che i continui attacchi al mancato ministro dell'Economia hanno ben altra natura. Il vero scopo di tale infinita gogna non è la sicurezza dell'Unione europea, ma l'ennesima destabilizzazione dell'Italia.
Il problema di Savona è il medesimo dell'Italia, ovvero quello di non disporre di un sistema che sappia gestire in maniera sistematica e coordinata una guerra economica e informativa per la quale i Paesi concorrenti, soprattutto la Francia, si sono organizzati da più di due decenni e di cui Paolo Savona, insieme al generale Carlo Jean, è uno dei massimi esperti. Negli anni Novanta del secolo precedente, constatato il cambio del paradigma geopolitico internazionale dovuto alla fine del bipolarismo, l'allora inquilino dell'Eliseo, Francoise Mitterand, diede compito a una commissione di esperti, presieduta da Henri Martre, di studiare il modo per far tornare la Francia strategicamente importante. Quella commissione, comprendendo che le guerre guerreggiate in un mondo altamente globalizzato facevano parte del passato e che la competizione geoeconomica poteva portare ben maggiori benefici o causare danni pesanti ai nemici, espose un progetto successivamente implementato nei minimi dettagli e noto agli esperti con il nome di intelligence economica. Si tratta di un sistema coordinato di collaborazione, ma soprattutto di scambio informativo, tra il settore privato e quello pubblico che permette alla Francia di perorare efficacemente, ovunque e in ogni momento, il proprio interesse nazionale. I servizi segreti della Repubblica e le aziende si scambiano continuativamente le informazioni, fissano i propri obiettivi e infine il governo vi cuce sopra la strategia di sostegno generale utilizzando qualora necessario agenzie esterne, apparentemente slegate dallo Stato, per operazioni di guerra cognitiva e psicologica con fini di destabilizzazione, controinformazione o propaganda. Tale struttura, Comitato per la competitività e la sicurezza economica, creata nel 1995, ha sede presso il segretariato generale per la difesa nazionale, è inglobata nel gabinetto del primo ministro e affidata di solito a un ex membro dei servizi segreti. L'intelligence economica è lo strumento con cui la Francia sostiene la competitività del proprio sistema Paese e strumentalmente destabilizza le nazioni concorrenti.
Poiché un sistema efficace ha anche bisogno di esperti preparati, a Parigi hanno pensato bene che la rete delle grandi scuole da cui esce l'élite di potere non fosse più sufficiente e hanno istituito anche una scuola di guerra economica, oggi diretta da Christian Harbulot, consigliere di Henri Martre ai tempi della commissione voluta da Mitterrand.
Il volume di Giuseppe Gagliano, Guerra economica. Stato e impresa nei nuovi scenari internazionali, uscito di recente, ben descrive come oggi gli Stati debbano rivedere il proprio ruolo nel mondo. Tuttavia, per noi, che con Savona e Jean abbiamo negli anni passati proposto all'Italia la formazione di una struttura di intelligence economica che permettesse al sistema Paese di ridivenire competitivo, è chiaro come il ministro per gli Affari europei sia principalmente sotto attacco dei servizi francesi e come il nostro Paese, non avendolo ascoltato, non ha gli strumenti per gestire il problema.
Savona è scomodo, non solo perché conosce le soluzioni ai problemi europei, ma soprattutto perché conosce i metodi della scuola francese, essendo stato il primo a studiarli comprendendone le dirompenti potenzialità. La Francia vuole continuare a indebolire il Belpaese, per acquisirne i gioielli economici e per mantenerla menomata a livello geopolitico. Il rapporto negativo su Fincantieri, uscito questo mese, preparato dalla società di consulenza Adit, non è altro che un pezzo di tale complicato puzzle, dato che la Adit altro non è che una società di consulenza strategica al servizio delle aziende d'Oltrealpe, il cui capitale è partecipato dallo Stato francese. In tale quadro s'inseriscono anche le decisioni del consiglio d'amministrazione di Generali, a guida transalpina, che ha deciso la vendita di diverse partecipate estere successivamente finite in mano francese e le decisioni dell'ad di Unicredit, Jean Pierre Mustier, un ex militare francese, che facilita la vendita dei fondi Pioneer - tra i più grandi in Europa - a Crédit agricole e senza i quali è assai più facile influire sullo spread Btp italiano, ovvero inventarsi una fusione con Société générale.
E per correttezza non possiamo dimenticare il continuo interessamento francese a Finmeccanica, della quale una relazione preparata dall'Università parigina Science Po, da sempre fucina degli uomini d'intelligence francesi e nella quale Enrico Letta - insignito commendatore della Legione d'onore da Francois Hollande nel 2016 - è direttore della Scuola per gli affari internazionali, ne suggeriva, poco prima che lo stesso Letta divenisse presidente del Consiglio, la vendita a società francesi in quanto incapace di creare da sola economie di scala.
L'Italia è sotto attacco. Paolo Savona è solo la punta dell'iceberg di un problema ben più grave. Se la politica gli permetterà di realizzare la struttura che ha in mente allora la Repubblica italiana avrà ancora qualche possibilità per recuperare il tempo perduto. In caso contrario, senza un dispositivo strategico d'intelligence capace di competere con i Paesi più avanzati, siamo destinati a diventare una colonia del mondo contemporaneo.
Laris Gaiser
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Per difendere Emmanuel Macron dall'assedio sbarca sulla Stampa l'intellettuale preferito dall'establishment. Il guru che ha sostenuto la guerra in Libia e criticato la Brexit ha un nuovo nemico da colpire: l'alleanza gialloblù.I servizi d'Oltralpe temono che il ministro metta a sistema una struttura strategica che difenda gli interessi dell'Italia .Lo speciale contiene due articoli. È arrivato a Torino. «Cristiano Ronaldo?», vi domanderete. Ma no, altro che Cr7: è arrivato Bhl. Francese nato in Algeria, figlio di un multimiliardario, intellettuale, polemista, Bernard Henri Lévy dev'essere stato a lungo incerto se fare il filosofo, la rockstar o il santone laico: nel dubbio, ha deciso di fare tutte e tre le cose. La notizia è che da ieri ha iniziato la sua collaborazione con il quotidiano La Stampa. Per comprendere Bhl, è indispensabile la massima di Oscar Wilde: «Solo i superficiali non giudicano dalle apparenze». Guardatelo in foto: solenne, cotonatissimo, capigliatura che avrebbe suscitato l'invidia di Maria Antonietta, camicia aperta svolazzante accuratamente spiegazzata (né troppo né troppo poco: ore di preparazione, capite bene…), espressione ispirata e sofferente, il tono costante di chi ti descrive l'abisso morale del nostro tempo dal quale soltanto lui potrà salvarti. Filosoficamente parlando, il nostro, più che un guru, è da sempre un paraguru: è stato negli anni Settanta uno dei nouveaux philosophes, pensatori dal retroterra fritto misto (un po' di marxismo, un po' di maoismo, un po' di esistenzialismo), che poi hanno ripudiato il comunismo (bene) salvo però subito dopo passare gran parte del tempo a criticare capitalismo e conservatorismo (male). Come dicevamo, siccome i tromboni italiani non erano abbastanza, da ventiquattr'ore il quotidiano di Torino si è assicurato le prestazioni del supertrombone francese. E che prestazioni! L'esordio è stata una difesa a corpo morto di Emmanuel Macron, sotto assedio perché il suo bodyguard prediletto, tale Benalla (super stipendio, super appartamento, super intimità con la coppia presidenziale), il primo maggio scorso ha malmenato alcuni manifestanti travestito da poliziotto. Ovviamente, un po' tutti in Francia hanno spiegazioni da chiedere a un Macron alle corde (come La Verità vi ha raccontato nel dettaglio nei giorni scorsi). Meglio di un bodyguard, meglio di Benalla, arriva ora Bhl, che (a rischio di spettinarsi) insorge a difesa dell'Eliseo. Bhl non si dà pace, è sconvolto: «Macron è nella vasca dei piranha», siamo davanti a una «sequenza singolare e agghiacciante...». Sì, c'è stata una «sbavatura» (scrive testualmente il paraguru), perfino un «grave errore» (ammette, bontà sua), però da quel momento la vera vittima è stato il povero Macron: «la preda imperiale che i piranha vogliono spolpare fino all'osso», «ipotesi grottesche sulla vita privata della coppia presidenziale», «orde pettegole» scatenate sui «cosiddetti social network», il «fruscio dei tweet», i «sanculotti senz'anima», il «mondo impazzito», il «fascismo in ascesa». Bhl è partito e capite bene che non lo si può fermare: è un flusso di coscienza. Ma attenzione: è arrivato al punto. I cattivoni se la prendono con Macron perché è l'unico «argine» contro «l'internazionale delle nuove tirannie» e gli immancabili «populisti». E qui occorre fermarsi un attimo a riflettere, perché viene fuori la seconda dimensione di Bhl. Finora abbiamo scherzato sugli aspetti scenografici e coreografici: trucco e parrucco, vanità sfacciata, pose da indossatore. Ma l'uomo non va affatto sottovalutato: perché va (o viene inviato, o si autoinvia: fate voi) ogni volta che c'è da salvare qualcuno o da destabilizzare qualcun altro. Sarà una coincidenza: ma quando c'è una missione delicata, arriva lui, in posa plastica. Il primo esempio (ramo salvataggi) è quello che abbiamo finito di raccontare: questa disperata difesa dell'indifendibile Macron che, non scordiamocelo mai, fino a qualche mese fa era l'eroe assoluto degli euroentusiasti e degli eurolirici (ve lo ricordate il selfie di Enrico Letta durante i festeggiamenti postelettorali francesi e l'indimenticabile tweet di Paolo Gentiloni «una speranza s'aggira per l'Europa»?). Adesso, il loro campione è nei guai, e occorre rimetterlo in piedi per le elezioni europee. Secondo esempio (ramo destabilizzazioni): Brexit, che invece a Bhl non piace. Figurarsi, il dogma europeista messo in discussione, e perfino per decisione degli elettori: una cosa intollerabile per Lévy, che ha scritto una caterva di articoli e ha messo in piedi perfino una strampalata performance teatrale per spiegare agli inglesi che «Brexit è un regresso di civiltà». Terzo esempio (ramo destabilizzazioni, qualche anno fa): la Libia. In quel caso, Bhl, allora agiografo instancabile di Nicolas Sarkozy, non solo sostenne l'intervento, ma poi, in un docufilm da lui scritto, diretto e interpretato (l'uomo è multimediale oltre che multiautocelebrativo), rivendicò di aver avuto un ruolo negli incontri tra Sarkozy e i ribelli anti Gheddafi. Il quale era quello che era, sia ben chiaro: ma l'esito dell'operazione libica è sotto gli occhi di tutti. C'è chi teme che la nuova attenzione per l'Italia di Bhl possa celare il desiderio di un «quarto esempio». È noto che a Parigi tanti auspicavano un esito elettorale diverso prima del 4 marzo, e, anche dopo - come male minore - un'intesa M5s-Pd: uno schema centrato sul Pd e ritenuto Oltralpe più funzionale alla difesa degli interessi politici e commerciali francesi. Ora in alcuni ambienti (lo ha raccontato ieri La Verità) è scattato una specie di piano B: occorre lavorare sulle faglie (vere o presunte, reali o supposte) tra il Mef e gli azionisti di maggioranza dell'esecutivo, tra il ministro Giovanni Tria e la coppia Salvini-Di Maio, tra il Quirinale e l'asse politico oggi prevalente. Vero? Verosimile? Nessuno può dirlo con certezza: ma un Bhl in prima pagina può sempre tornare utile per le necessità estive (e soprattutto autunnali) di un certo establishment, italiano e non. Daniele Capezzone<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/bernard-henry-levy-2590636069.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-francia-ha-paura-dellintelligence-guidata-da-savona" data-post-id="2590636069" data-published-at="1766896741" data-use-pagination="False"> La Francia ha paura dell’intelligence guidata da Savona Chiunque abbia letto un solo libro del professor Paolo Savona sa bene che l'ultima cosa che gli si possa imputare è quella di non essere un europeista. In ogni suo scritto concernente la comunitarizzazione delle istituzioni si trovano, sempre, insieme alle analisi dei problemi creati dal mercato comune anche le possibili soluzioni. Una volta appurata tale semplice verità, e compreso che dalla presenza attiva di Paolo Savona l'Europa avrebbe tutto da guadagnarci, se ne deduce che i continui attacchi al mancato ministro dell'Economia hanno ben altra natura. Il vero scopo di tale infinita gogna non è la sicurezza dell'Unione europea, ma l'ennesima destabilizzazione dell'Italia. Il problema di Savona è il medesimo dell'Italia, ovvero quello di non disporre di un sistema che sappia gestire in maniera sistematica e coordinata una guerra economica e informativa per la quale i Paesi concorrenti, soprattutto la Francia, si sono organizzati da più di due decenni e di cui Paolo Savona, insieme al generale Carlo Jean, è uno dei massimi esperti. Negli anni Novanta del secolo precedente, constatato il cambio del paradigma geopolitico internazionale dovuto alla fine del bipolarismo, l'allora inquilino dell'Eliseo, Francoise Mitterand, diede compito a una commissione di esperti, presieduta da Henri Martre, di studiare il modo per far tornare la Francia strategicamente importante. Quella commissione, comprendendo che le guerre guerreggiate in un mondo altamente globalizzato facevano parte del passato e che la competizione geoeconomica poteva portare ben maggiori benefici o causare danni pesanti ai nemici, espose un progetto successivamente implementato nei minimi dettagli e noto agli esperti con il nome di intelligence economica. Si tratta di un sistema coordinato di collaborazione, ma soprattutto di scambio informativo, tra il settore privato e quello pubblico che permette alla Francia di perorare efficacemente, ovunque e in ogni momento, il proprio interesse nazionale. I servizi segreti della Repubblica e le aziende si scambiano continuativamente le informazioni, fissano i propri obiettivi e infine il governo vi cuce sopra la strategia di sostegno generale utilizzando qualora necessario agenzie esterne, apparentemente slegate dallo Stato, per operazioni di guerra cognitiva e psicologica con fini di destabilizzazione, controinformazione o propaganda. Tale struttura, Comitato per la competitività e la sicurezza economica, creata nel 1995, ha sede presso il segretariato generale per la difesa nazionale, è inglobata nel gabinetto del primo ministro e affidata di solito a un ex membro dei servizi segreti. L'intelligence economica è lo strumento con cui la Francia sostiene la competitività del proprio sistema Paese e strumentalmente destabilizza le nazioni concorrenti. Poiché un sistema efficace ha anche bisogno di esperti preparati, a Parigi hanno pensato bene che la rete delle grandi scuole da cui esce l'élite di potere non fosse più sufficiente e hanno istituito anche una scuola di guerra economica, oggi diretta da Christian Harbulot, consigliere di Henri Martre ai tempi della commissione voluta da Mitterrand. Il volume di Giuseppe Gagliano, Guerra economica. Stato e impresa nei nuovi scenari internazionali, uscito di recente, ben descrive come oggi gli Stati debbano rivedere il proprio ruolo nel mondo. Tuttavia, per noi, che con Savona e Jean abbiamo negli anni passati proposto all'Italia la formazione di una struttura di intelligence economica che permettesse al sistema Paese di ridivenire competitivo, è chiaro come il ministro per gli Affari europei sia principalmente sotto attacco dei servizi francesi e come il nostro Paese, non avendolo ascoltato, non ha gli strumenti per gestire il problema. Savona è scomodo, non solo perché conosce le soluzioni ai problemi europei, ma soprattutto perché conosce i metodi della scuola francese, essendo stato il primo a studiarli comprendendone le dirompenti potenzialità. La Francia vuole continuare a indebolire il Belpaese, per acquisirne i gioielli economici e per mantenerla menomata a livello geopolitico. Il rapporto negativo su Fincantieri, uscito questo mese, preparato dalla società di consulenza Adit, non è altro che un pezzo di tale complicato puzzle, dato che la Adit altro non è che una società di consulenza strategica al servizio delle aziende d'Oltrealpe, il cui capitale è partecipato dallo Stato francese. In tale quadro s'inseriscono anche le decisioni del consiglio d'amministrazione di Generali, a guida transalpina, che ha deciso la vendita di diverse partecipate estere successivamente finite in mano francese e le decisioni dell'ad di Unicredit, Jean Pierre Mustier, un ex militare francese, che facilita la vendita dei fondi Pioneer - tra i più grandi in Europa - a Crédit agricole e senza i quali è assai più facile influire sullo spread Btp italiano, ovvero inventarsi una fusione con Société générale. E per correttezza non possiamo dimenticare il continuo interessamento francese a Finmeccanica, della quale una relazione preparata dall'Università parigina Science Po, da sempre fucina degli uomini d'intelligence francesi e nella quale Enrico Letta - insignito commendatore della Legione d'onore da Francois Hollande nel 2016 - è direttore della Scuola per gli affari internazionali, ne suggeriva, poco prima che lo stesso Letta divenisse presidente del Consiglio, la vendita a società francesi in quanto incapace di creare da sola economie di scala. L'Italia è sotto attacco. Paolo Savona è solo la punta dell'iceberg di un problema ben più grave. Se la politica gli permetterà di realizzare la struttura che ha in mente allora la Repubblica italiana avrà ancora qualche possibilità per recuperare il tempo perduto. In caso contrario, senza un dispositivo strategico d'intelligence capace di competere con i Paesi più avanzati, siamo destinati a diventare una colonia del mondo contemporaneo. Laris Gaiser
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Veniamo al profeta, Pellegrino Artusi, il Garibaldi della cucina tricolore. Scrivendo il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), l’uomo di Forlimpopoli trapiantato a Firenze creò un’identità gastronomica comune nel Paese da poco unificato, raccogliendo le ricette tradizionali delle varie Regioni - e subregioni - italiane valorizzando le tipicità e diffondendone la conoscenza. È così che suscitò uno slancio di orgoglio nazionale per le diverse cucine italiane che, nei secoli, si sono caratterizzate ognuna in maniera diversa, attraverso i vari coinvolgimenti storici, la civiltà contadina, la cucina di corte (anche papale), quella borghese, le benefiche infiltrazioni e contaminazioni di popoli e cucine d’oltralpe e d’oltremare, e, perché no, anche attraverso la fame e la povertà.
Orio Vergani, il custode, giornalista e scrittore milanese (1898-1960), è una figura di grande rilievo nella storia della cucina patria. Fu lui insieme ad altri innamorati a intuire negli anni Cinquanta del secolo scorso il rischio che correvano le buone tavole del Bel Paese minacciate dalla omologazione e dall’appiattimento dei gusti, insidiate da una cucina industriale e standardizzata. Fu lui a distinguere i pericoli nel turismo di massa e nell’alta marea della modernizzazione. Il timore e l’allarme sacrosanto di Vergani erano dettati dalla paura di perdere a tavola l’autenticità, la qualità e il legame col territorio della nostra tradizione gastronomica. Per combattere la minaccia, l’invitato speciale fondò nel 1953 l’Accademia italiana della cucina sottolineando già nel nome la diversità dell’arte culinaria nelle varie parti d’Italia.
L’Accademia, istituzione culturale della Repubblica italiana, continua al giorno d’oggi, con le sue delegazioni in sessanta Paesi del mondo e gli 8.000 soci, a portare avanti il buon nome della cucina italiana. Non è un caso se a sostenere il progetto all’Unesco siano stati tre attori, due dei quali legati al «profeta» romagnolo e al «custode» milanese: la Fondazione Casa Artusi di Forlimpopoli e l’Accademia italiana della cucina nata, appunto, dall’intuizione di Orio Vergani. Terzo attore è la rivista La cucina Italiana, fondata nel 1929. Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, commenta: «Il riconoscimento dell’Unesco rappresenta una grandissima medaglia al valore, per noi. La festeggeremo il terzo giovedì di marzo in tutte le delegazioni del mondo e nelle sedi diplomatiche con una cena basata sulla convivialità e sulla socialità. Il menu? Libero. Ogni delegazione lo rapporterà al territorio e alla tradizione.
L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana patrimonio immateriale andando oltre alle ricette e al semplice nutrimento, considerandola un sistema culturale, rafforzando il ruolo dell’Italia come ambasciatrice di un modello culturale nel mondo in quanto la nostra cucina è una pratica sociale viva, che trasmette memoria, identità e legame con il territorio, valorizzando la convivialità, i rituali, la condivisione famigliare, come il pranzo della domenica, la stagionalità e i gesti quotidiani, oltre a promuovere inclusione e sostenibilità attraverso ricette antispreco tramandate da generazione in generazione. Il riconoscimento non celebra piatti specifici come è stato fatto con altri Paesi, ma l’intera arte culinaria e culturale che lega comunità, famiglie e territori attraverso il cibo. Riconosce l’intelligenza delle ricette tradizionali nate dalla povertà contadina, che insegnano a non sprecare nulla, un concetto di sostenibilità ancestrale. Incarna il legame tra la natura, le risorse locali e le tradizioni culturali, riflettendo la diversità dei paesaggi italiani».
Peccato che non tutti la pensino così, vedi l’attacco del critico e scrittore britannico di gastronomia Giles Coren sul Times. Dopo aver bene intinto la penna nell’iperbole, nella satira e nell’insulto, Coren è partito all’attacco alla baionetta contro, parole sue, il riconoscimento assegnato dall’Unesco, riconoscimento prevedibile, servile, ottuso e irritante. Dice l’opinionista prendendosela anche con i suoi connazionali snob: «Da quando scrivo di ristoranti, combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia che, all’inizio degli anni Novanta, trasferirono le loro residenze estive in Toscana».
Risponde Petroni: «Credo che l’articolo di Coren sia una burla, lo scherzo di uno che in fondo, e lo ha dimostrato in altri articoli, apprezza la cucina italiana. Per etichettare il tutto come burla, basta leggere la parte in cui elogia la cucina inglese candidandola al riconoscimento Unesco per il valore culturale del “toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio”, gli “spaghetti con il ketchup”, il “Barolo britannico”, i “noodles cinesi incollati alla tovaglia” e altre perle di questo genere. C’è da sottolineare, invece, che la risposta dell’Unesco è stata unanime: i 24 membri del comitato intergovernativo per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale hanno votato all’unanimità in favore della cucina italiana. Non c’è stato nemmeno un astenuto. La prima richiesta fu bocciata. Nel 2023 l’abbiamo ripresentata. È la parola “immateriale” che ci bloccò. È difficile definire una cucina immateriale senza cadere nel materiale. Per esempio l’Unesco non ha dato il riconoscimento alla pizza in quanto pizza, ma all’arte napoletana della pizza. Il cammino è stato molto difficile ma, alla fine, siamo riusciti a unificare la pratica quotidiana, i gesti, le parole, i rituali di una cucina variegata e il risultato c’è stato. La cucina italiana è la prima premiata dall’Unesco in tutta la sua interezza».
Se Coren ha scherzato, Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, autore del libro La cucina italiana non esiste, è andato giù pesante nell’articolo su The Guardian. Basta il titolo per capire quanto: «Il mito della cucina tradizionale italiana ha sedotto il mondo. La verità è ben diversa». «Grandi è arrivato a dire che la pizza l’hanno inventata gli americani e che il vero grana si trova nel Wisconsin. Che la cucina italiana non risalga al tempo dei Romani lo sanno tutti. Prima della scoperta dell’America, la cucina era un’altra cosa. Quella odierna nasce nell’Ottocento da forni e fornelli borghesi. Se si rimane alla civiltà contadina, si rimane alle zuppe o poco più. Le classi povere non avevano carne da mangiare». Petroni conclude levandosi un sassolino dalla scarpa: l’esultanza dei cuochi stellati, i «cappelloni», come li chiama, è comprensibile ma loro non c’entrano: «Sono contento che approvino il riconoscimento, ma sia chiaro che questo va alla cucina italiana famigliare, domestica».
A chi si deve il maggior merito del riconoscimento Unesco? «A Maddalena Fossati, la direttrice de La cucina italiana. È stata lei a rivolgersi all’Accademia e alla Fondazione Casa Artusi. Il documento l’abbiamo preparato con il prezioso aiuto di Massimo Montanari, accademico onorario, docente all’Università di Bologna, e presentato con il sostegno del sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi».
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Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
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