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2024-06-16
Berlino blocca le sanzioni sul gas. L’Occidente in retro sul conflitto
Olaf Scholz (Ansa)
Nonostante tutto, votare è servito. Non ci credete? Gustatevi il bagno di realtà che è toccato ai bellicisti.
Il cancelliere Olaf Scholz aveva riempito gli ucraini di contraeree e ha pure rinunciato al veto sui bombardamenti nel territorio russo. Alle Europee, i tedeschi hanno mazzolato il Partito socialdemocratico, superato da Alternative für Deutschland. E ora il suo governo sta tirando di nuovo il freno, opponendosi alle sanzioni contro il gas russo.
La notizia l’ha data Politico: alla vigilia della conferenza di pace in Svizzera, i rappresentanti permanenti dell’Ue non sono riusciti a trovare un accordo su un pacchetto di provvedimenti economici, che avrebbe colpito anche il settore del gas naturale liquefatto, attraverso il divieto, imposto ai singoli Paesi, di riesportare il Gnl russo dai porti europei e di finanziare i terminali artici e baltici. Per via del niet di Berlino, la presidenza belga del Consiglio ha dovuto dividere in due tronconi la discussione, che includeva interventi per prevenire il transito di merci attraverso la Bielorussia. L’obiettivo di Bruxelles era di impedire a Vladimir Putin di continuare a comprare tecnologia occidentale, che viene impiegata nell’industria bellica. I teutonici, ha scritto la testata d’informazione, sono però preoccupati «per l’ampliamento di una misura che costringerebbe le aziende dell’Ue a garantire che i loro clienti non possano vendere beni sanzionati a Mosca». Berlino, in sostanza, «teme che le sue piccole imprese soffrano se», dopo il Gnl, «la misura verrà estesa a prodotti di uso civile come quelli chimici o le attrezzature per la lavorazione dei metalli». «Una volta si diceva che fosse sempre colpa dell’Ungheria», ha commentato un diplomatico, «e adesso invece la colpa è della Germania».
Scholz ha provato a sdrammatizzare: «No, non stiamo bloccando le sanzioni, come per tutti gli altri pacchetti stiamo lavorando intensamente con tutti gli altri e vogliamo garantire che tutto venga gestito modo più pragmatico possibile». Ha poi respinto il paragone con Viktor Orbán, spiegando che intende solo proteggere l’economia nazionale, fondata sull’export. E in fondo ha ragione: bisogna essere realisti. Al di là della promessa di restare al fianco di Volodymyr Zelensky fino alla vittoria, al di là dello sprezzo con cui i leader del mondo libero snobbano l’idea di trattare con lo zar.
Qualche trattativa, per la verità, è in corso. L’Europa, ha rivelato qualche giorno fa Bloomberg, sta negoziando affinché sia assicurato il transito del gas dalle infrastrutture che passano per l’Ucraina, anche se allo studio c’è l’ipotesi di immettere nei tubi russi metano azero. L’intesa oggi in vigore scade a dicembre, però diverse nazioni dell’Est dipendono ancora dagli approvvigionamenti di Mosca. E da questo dato non si può prescindere. Né si possono ignorare i vincoli di finanza pubblica sui quali, venerdì, è andato a schiantarsi l’ambizioso piano di Jens Stoltenberg, che avrebbe voluto costringere i membri della Nato a stanziare 40 miliardi l’anno per gli ucraini. È stato il nostro ministro della Difesa, Guido Crosetto, a mettersi di traverso, facendo notare che Roma ha già difficoltà a raggiungere il 2% del Pil per le spese militari, previsto dalle clausole dell’Alleanza. Pertanto, non riuscirebbe a far fronte a ulteriori impegni finanziari. Alla fine, persino il G7, pur concordando sui 50 miliardi per la resistenza, da sottrarre ai proventi degli asset russi congelati, ha partorito un’iniziativa al ribasso, che ha posto un argine alle pretese americane.
Sì, votare è servito. Non ci credete? Pensateci bene. In Italia, gli elettori hanno sommerso di preferenze il «putiniano» Roberto Vannacci. Hanno confermato la loro fiducia in Giorgia Meloni, ma nel frattempo il governo, pur risolutamente atlantista, si era smarcato da alcune delle iniziative più oltranziste, opponendosi all’invio di truppe sul terreno, oltre che all’impiego delle armi inviate da Roma per i raid all’interno dei confini della Federazione.
Il pesante verdetto delle urne, intanto, ha costretto Emmanuel Macron a concentrarsi sul fronte interno. Solo poche settimane fa, il Napoleoncino di Parigi aveva disposto l’invio di istruttori militari francesi nella parte occidentale dell’Ucraina e aveva destinato all’aviazione di Zelensky i Mirage in dismissione, ancorché equipaggiati in modo che non potessero bombardare l’oblast di Belgorod. In questo momento, invece, l’inquilino dell’Eliseo è alle prese con la grana dello storico successo di Marine Le Pen. E, pur di arginare l’ascesa del Rassemblement national alle legislative del 30 giugno, è costretto ad appiccicare insieme un’ammucchiata «antifascista».
La Nato, la Germania, la Francia, le sanzioni, le armi, gli aiuti… Magari votare non basterà a salvarci dalla terza guerra mondiale. Ma per ora, a qualcosa è servito.
Pechino stronca la «Yalta» svizzera
Ha preso il via ieri la conferenza di pace sulla guerra in Ucraina, che andrà avanti fino a oggi nei pressi del lago dei Quattro Cantoni, in Svizzera. A partecipare, insieme a Volodymyr Zelensky, sono oltre 50 capi di Stato e di governo, per un totale di un centinaio di delegazioni internazionali. «Si sta facendo la storia», ha detto il presidente ucraino, che, secondo la Cnn, punta al ritiro delle truppe russe, al ripristino dei confini prebellici e all’istituzione di un tribunale per perseguire i crimini di guerra perpetrati dalle forze di Mosca. Sicuramente Zelensky si è avviato al vertice forte del comunicato finale del G7 in Puglia: un documento in cui è stato ribadito significativo sostegno a Kiev. Tuttavia, il vero punto interrogativo che aleggia sulla conferenza svizzera è quello delle assenze. A evitare di prendervi parte, infatti, non è stata soltanto la Russia ma anche Pechino. «La Cina ha sempre insistito sul fatto che una conferenza internazionale di pace dovrebbe essere approvata sia dalla Russia che dall’Ucraina», aveva detto a fine maggio il ministero degli Esteri cinese, mentre ieri il Dragone ha esortato «Mosca e Kiev a incontrarsi a metà strada e ad avviare tempestivamente i colloqui di pace per raggiungere un cessate il fuoco e la fine della guerra».
Kiev aveva espresso rammarico per la scelta di Pechino, accusandola inoltre di aver effettuato pressioni su alcuni Paesi per spingerli a non partecipare al summit svizzero. Un altro aspetto significativo risiede nel fatto che Joe Biden non prenderà parte all’evento: in sua vece, è infatti presente Kamala Harris (che ha annunciato ieri aiuti energetici e umanitari da 1,5 miliardi di dollari a Kiev). Ora, non è un mistero che, in questi anni, la numero due della Casa Bianca si sia rivelata piuttosto impalpabile nei vari consessi internazionali a cui ha partecipato. L’assenza di Biden potrebbe quindi essere interpretata come una scarsa convinzione da parte sua della possibilità che il vertice svizzero porti a qualche svolta concreta. Una sensazione che circola probabilmente anche al Cremlino, visto che venerdì Vladimir Putin ha proposto delle condizioni per un cessate il fuoco che equivalgono sostanzialmente alla richiesta di una resa incondizionata: il presidente russo non ha preteso soltanto che l’Ucraina non entri nella Nato ma ha anche affermato che Kiev dovrebbe rinunciare alle province di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia.
Il nodo che aleggia sul summit svizzero è duplice. Innanzitutto, Biden non sembra ancora riuscire a ripristinare la capacità di deterrenza degli Usa nei confronti di Mosca: prova ne è la spavalderia delle recenti parole di Putin. È ben difficile che si possano fare passi avanti nella risoluzione politico-militare della crisi ucraina, se la deterrenza americana non viene prima ristabilita come precondizione a un negoziato che non voglia trasformarsi in appeasement (non è forse un caso che lo zar abbia rinunciato ad aggredire l’Ucraina durante i quattro anni dell’amministrazione Trump).
Il secondo nodo riguarda il Sud Globale. Secondo l’Associated Press, l’India e il Sudafrica hanno inviato al summit svizzero soltanto dei funzionari di basso rango, mentre i leader di Arabia Saudita e Turchia sono rappresentati dai loro ministri degli Esteri. Esponenti del governo di Pechino hanno inoltre riferito a Reuters che «molti Paesi in via di sviluppo sono allineati con le sue opinioni sulla conferenza». Ecco, il problema è proprio questo: parte consistente del Sud Globale non è al momento troppo ostile alla Russia. E la Cina non ha alcuna intenzione di lasciare all’Occidente l’iniziativa politico-diplomatica sull’Ucraina. Quel ruolo il Dragone vuole ritagliarselo per sé, con l’obiettivo di ridurre l’influenza euroatlantica, rafforzare la sua presa sullo stesso Sud Globale e rendere ancora di più Mosca il proprio junior partner. Ne consegue che, per scardinare la strategia cinese, l’Occidente dovrebbe rispolverare il principio reaganiano della «pace attraverso la forza», rilanciando al contempo il proprio soft power in Africa, Medio Oriente e America Latina.
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La Germania teme per l’export delle sue imprese, l’Ue negozia per i flussi di metano che passano dall’Ucraina. Dopo la frenata ai 40 miliardi l’anno per Kiev e la legnata a Macron, ecco un’altra prova che votare è servito. Al via il summit elvetico senza Russia (che sta vincendo sul campo) e Cina. Il Dragone: «Dovete incontrarvi a metà strada». Il Sud Globale snobba l’iniziativa, assente Biden. Lo speciale contiene due articoli.Nonostante tutto, votare è servito. Non ci credete? Gustatevi il bagno di realtà che è toccato ai bellicisti.Il cancelliere Olaf Scholz aveva riempito gli ucraini di contraeree e ha pure rinunciato al veto sui bombardamenti nel territorio russo. Alle Europee, i tedeschi hanno mazzolato il Partito socialdemocratico, superato da Alternative für Deutschland. E ora il suo governo sta tirando di nuovo il freno, opponendosi alle sanzioni contro il gas russo.La notizia l’ha data Politico: alla vigilia della conferenza di pace in Svizzera, i rappresentanti permanenti dell’Ue non sono riusciti a trovare un accordo su un pacchetto di provvedimenti economici, che avrebbe colpito anche il settore del gas naturale liquefatto, attraverso il divieto, imposto ai singoli Paesi, di riesportare il Gnl russo dai porti europei e di finanziare i terminali artici e baltici. Per via del niet di Berlino, la presidenza belga del Consiglio ha dovuto dividere in due tronconi la discussione, che includeva interventi per prevenire il transito di merci attraverso la Bielorussia. L’obiettivo di Bruxelles era di impedire a Vladimir Putin di continuare a comprare tecnologia occidentale, che viene impiegata nell’industria bellica. I teutonici, ha scritto la testata d’informazione, sono però preoccupati «per l’ampliamento di una misura che costringerebbe le aziende dell’Ue a garantire che i loro clienti non possano vendere beni sanzionati a Mosca». Berlino, in sostanza, «teme che le sue piccole imprese soffrano se», dopo il Gnl, «la misura verrà estesa a prodotti di uso civile come quelli chimici o le attrezzature per la lavorazione dei metalli». «Una volta si diceva che fosse sempre colpa dell’Ungheria», ha commentato un diplomatico, «e adesso invece la colpa è della Germania».Scholz ha provato a sdrammatizzare: «No, non stiamo bloccando le sanzioni, come per tutti gli altri pacchetti stiamo lavorando intensamente con tutti gli altri e vogliamo garantire che tutto venga gestito modo più pragmatico possibile». Ha poi respinto il paragone con Viktor Orbán, spiegando che intende solo proteggere l’economia nazionale, fondata sull’export. E in fondo ha ragione: bisogna essere realisti. Al di là della promessa di restare al fianco di Volodymyr Zelensky fino alla vittoria, al di là dello sprezzo con cui i leader del mondo libero snobbano l’idea di trattare con lo zar.Qualche trattativa, per la verità, è in corso. L’Europa, ha rivelato qualche giorno fa Bloomberg, sta negoziando affinché sia assicurato il transito del gas dalle infrastrutture che passano per l’Ucraina, anche se allo studio c’è l’ipotesi di immettere nei tubi russi metano azero. L’intesa oggi in vigore scade a dicembre, però diverse nazioni dell’Est dipendono ancora dagli approvvigionamenti di Mosca. E da questo dato non si può prescindere. Né si possono ignorare i vincoli di finanza pubblica sui quali, venerdì, è andato a schiantarsi l’ambizioso piano di Jens Stoltenberg, che avrebbe voluto costringere i membri della Nato a stanziare 40 miliardi l’anno per gli ucraini. È stato il nostro ministro della Difesa, Guido Crosetto, a mettersi di traverso, facendo notare che Roma ha già difficoltà a raggiungere il 2% del Pil per le spese militari, previsto dalle clausole dell’Alleanza. Pertanto, non riuscirebbe a far fronte a ulteriori impegni finanziari. Alla fine, persino il G7, pur concordando sui 50 miliardi per la resistenza, da sottrarre ai proventi degli asset russi congelati, ha partorito un’iniziativa al ribasso, che ha posto un argine alle pretese americane.Sì, votare è servito. Non ci credete? Pensateci bene. In Italia, gli elettori hanno sommerso di preferenze il «putiniano» Roberto Vannacci. Hanno confermato la loro fiducia in Giorgia Meloni, ma nel frattempo il governo, pur risolutamente atlantista, si era smarcato da alcune delle iniziative più oltranziste, opponendosi all’invio di truppe sul terreno, oltre che all’impiego delle armi inviate da Roma per i raid all’interno dei confini della Federazione.Il pesante verdetto delle urne, intanto, ha costretto Emmanuel Macron a concentrarsi sul fronte interno. Solo poche settimane fa, il Napoleoncino di Parigi aveva disposto l’invio di istruttori militari francesi nella parte occidentale dell’Ucraina e aveva destinato all’aviazione di Zelensky i Mirage in dismissione, ancorché equipaggiati in modo che non potessero bombardare l’oblast di Belgorod. In questo momento, invece, l’inquilino dell’Eliseo è alle prese con la grana dello storico successo di Marine Le Pen. E, pur di arginare l’ascesa del Rassemblement national alle legislative del 30 giugno, è costretto ad appiccicare insieme un’ammucchiata «antifascista».La Nato, la Germania, la Francia, le sanzioni, le armi, gli aiuti… Magari votare non basterà a salvarci dalla terza guerra mondiale. Ma per ora, a qualcosa è servito. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/berlino-blocca-sanzioni-sul-gas-2668533368.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="pechino-stronca-la-yalta-svizzera" data-post-id="2668533368" data-published-at="1718517976" data-use-pagination="False"> Pechino stronca la «Yalta» svizzera Ha preso il via ieri la conferenza di pace sulla guerra in Ucraina, che andrà avanti fino a oggi nei pressi del lago dei Quattro Cantoni, in Svizzera. A partecipare, insieme a Volodymyr Zelensky, sono oltre 50 capi di Stato e di governo, per un totale di un centinaio di delegazioni internazionali. «Si sta facendo la storia», ha detto il presidente ucraino, che, secondo la Cnn, punta al ritiro delle truppe russe, al ripristino dei confini prebellici e all’istituzione di un tribunale per perseguire i crimini di guerra perpetrati dalle forze di Mosca. Sicuramente Zelensky si è avviato al vertice forte del comunicato finale del G7 in Puglia: un documento in cui è stato ribadito significativo sostegno a Kiev. Tuttavia, il vero punto interrogativo che aleggia sulla conferenza svizzera è quello delle assenze. A evitare di prendervi parte, infatti, non è stata soltanto la Russia ma anche Pechino. «La Cina ha sempre insistito sul fatto che una conferenza internazionale di pace dovrebbe essere approvata sia dalla Russia che dall’Ucraina», aveva detto a fine maggio il ministero degli Esteri cinese, mentre ieri il Dragone ha esortato «Mosca e Kiev a incontrarsi a metà strada e ad avviare tempestivamente i colloqui di pace per raggiungere un cessate il fuoco e la fine della guerra».Kiev aveva espresso rammarico per la scelta di Pechino, accusandola inoltre di aver effettuato pressioni su alcuni Paesi per spingerli a non partecipare al summit svizzero. Un altro aspetto significativo risiede nel fatto che Joe Biden non prenderà parte all’evento: in sua vece, è infatti presente Kamala Harris (che ha annunciato ieri aiuti energetici e umanitari da 1,5 miliardi di dollari a Kiev). Ora, non è un mistero che, in questi anni, la numero due della Casa Bianca si sia rivelata piuttosto impalpabile nei vari consessi internazionali a cui ha partecipato. L’assenza di Biden potrebbe quindi essere interpretata come una scarsa convinzione da parte sua della possibilità che il vertice svizzero porti a qualche svolta concreta. Una sensazione che circola probabilmente anche al Cremlino, visto che venerdì Vladimir Putin ha proposto delle condizioni per un cessate il fuoco che equivalgono sostanzialmente alla richiesta di una resa incondizionata: il presidente russo non ha preteso soltanto che l’Ucraina non entri nella Nato ma ha anche affermato che Kiev dovrebbe rinunciare alle province di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia.Il nodo che aleggia sul summit svizzero è duplice. Innanzitutto, Biden non sembra ancora riuscire a ripristinare la capacità di deterrenza degli Usa nei confronti di Mosca: prova ne è la spavalderia delle recenti parole di Putin. È ben difficile che si possano fare passi avanti nella risoluzione politico-militare della crisi ucraina, se la deterrenza americana non viene prima ristabilita come precondizione a un negoziato che non voglia trasformarsi in appeasement (non è forse un caso che lo zar abbia rinunciato ad aggredire l’Ucraina durante i quattro anni dell’amministrazione Trump).Il secondo nodo riguarda il Sud Globale. Secondo l’Associated Press, l’India e il Sudafrica hanno inviato al summit svizzero soltanto dei funzionari di basso rango, mentre i leader di Arabia Saudita e Turchia sono rappresentati dai loro ministri degli Esteri. Esponenti del governo di Pechino hanno inoltre riferito a Reuters che «molti Paesi in via di sviluppo sono allineati con le sue opinioni sulla conferenza». Ecco, il problema è proprio questo: parte consistente del Sud Globale non è al momento troppo ostile alla Russia. E la Cina non ha alcuna intenzione di lasciare all’Occidente l’iniziativa politico-diplomatica sull’Ucraina. Quel ruolo il Dragone vuole ritagliarselo per sé, con l’obiettivo di ridurre l’influenza euroatlantica, rafforzare la sua presa sullo stesso Sud Globale e rendere ancora di più Mosca il proprio junior partner. Ne consegue che, per scardinare la strategia cinese, l’Occidente dovrebbe rispolverare il principio reaganiano della «pace attraverso la forza», rilanciando al contempo il proprio soft power in Africa, Medio Oriente e America Latina.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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