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2021-07-17
Becciu premeva per avere i soldi. Che poi finivano nel feudo di Ozieri
Angelo Becciu (Getty Images)
Il vescovo di Ozieri, in Sardegna, quando Angelo Becciu fu raggiunto dalla maxi inchiesta vaticana, non ebbe dubbi. Corrado Melis si schierò subito al fianco del cardinale. Ad aprile scrisse pure una lettera per chiarire che la Chiesa sarda «non se la beve facilmente tutta quella fangosa e prepotente valanga di scoordinate informazioni». A mettere ordine e coordinare le informazioni ma soprattutto le coordinate bancarie ci hanno pensato gli inquirenti vaticani che poco tempo dopo, a giugno, si sono presentati alla diocesi di Ozieri e alla Caritas con un mandato di perquisizione. Il documento spiega bene come, nonostante vivesse in Vaticano da anni, il legame tra l'ex sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato, Angelo Becciu, e la Sardegna non si fosse mai interrotto. Anzi è proprio nella diocesi di Ozieri che il cardinale, il cui processo inizierà il prossimo 27 luglio, osservava da lontano il «feudo».
Al centro del progetto c'era un conto corrente intestato alla stessa «Diocesi di Ozieri Caritas ℅ Spes società cooperativa […]», aperto in una filiale della banca Intesa Sanpaolo. Sul quale nel periodo compreso tra il 2012 e il 2020 ci sono state, come scrivono gli investigatori, «uscite di cassa per complessivi 2.801.837 euro il cui beneficiario era la cooperativa». Secondo l'accusa dei promotori di giustizia vaticani (i «pubblici ministeri» d'Oltretevere, Gian Piero Milano e Alessandro Diddi), che contestano al prelato i reati di peculato, abuso d'ufficio e subornazione, una gran parte di «quei bonifici» erano «sprovvisti della natura caritatevole».
Ma soprattutto la domanda è: come è stato possibile che attraverso un conto della diocesi siano stati favoriti gli interessi dell'ex numero tre del Vaticano? Di quel rapporto bancario «Antonino Becciu (uno dei due fratelli del cardinale, ndr) e Giovanna Pani sono risultati essere i principali amministratori e, de facto, i titolari effettivi». I flussi verso la cooperativa arrivano da tre distinte fonti. La Segreteria di Stato, la Conferenza episcopale italiana e la stessa diocesi. La prima ha versato 225.000 euro, la seconda 600.000.
Secondo gli inquirenti in entrambe i casi sarebbe stato Becciu a fare pressioni «consapevole che il denaro sarebbe finito nella disponibilità del fratello». Accusa che rende ancora più complessa la decifrazione delle altre pezze giustificative. Almeno là dove ci sono. La cooperativa Spes ha inoltre ricevuto tramite la diocesi di Ozieri bonifici, che indicavano come causale «prestiti, nel periodo dal 2 maggio 2013 al 19 dicembre 2016, per un importo complessivo di 1.174.700 euro». «Tali importi non risultano esser mai stati restituiti, ad eccezione», scrivono gli investigatori, «di un'unica tranche di 5.000 euro […]. Si può dedurre, pertanto, che tutti i prestiti concessi dalla diocesi di Ozieri alla cooperativa sociale Spes siano stati erogati “a fondo perduto"».
Gli inquirenti hanno fatto anche il controllo successivo e verificato che in molti casi il fratello ricevesse a sua volta bonifici dalla cooperativa con la causale «restituzione prestito» senza però trovare traccia di un flusso a monte partito dal conto personale a quello della cooperativa. L'inchiesta che ha travolto i vertici del Vaticano è scoppiata per la compravendita dell'immobile londinese di Sloane avenue 60, ed è su questo palazzo che si focalizzeranno gran parte delle accuse ai nove coimputati di Becciu; quest'ultimo dovrà inoltre spiegare davanti ai giudici le finalità perseguite dall'enorme massa di denaro movimentato. La lista degli investimenti, fatta con i soldi della Segreteria di Stato e della Cei (Conferenza episcopale italiana), è infatti lunga, ma soprattutto in numerosi casi, secondo gli inquirenti, solleva seri dubbi sul rispetto dei principi del cattolicesimo. È il 14 maggio 2018 quando dal conto corrente della diocesi, l'unico aperto in banca Intesa Sanpaolo (per capirsi lo stesso amministrato dalla Spes), partono due bonifici da «200.000 euro cadauno, riconducibili alla sottoscrizione in due fondi comuni di investimento: Speon e Spfxn».
Per l'accusa «in quest'ultimo particolare aspetto, si ravvisa la distrazione dei fondi di che trattasi dalla prevista finalità, atteso che tale operatività bancaria è in aperto contrasto con gli scopi caritatevoli della diocesi e della cooperativa Spes, poiché evidentemente finalizzata a investimenti di carattere lucrativo e speculativo». Più in generale, gli inquirenti vaticani hanno avuto modo di dare un occhiata anche agli altri conti intestati alla diocesi di Ozieri. Dire che fosse povera sarebbe sbagliato. «A dispetto delle dichiarate difficoltà in cui la diocesi versava», scrivono gli inquirenti, «oltre alle somme presenti sul conto citato prima, la stessa era intestataria di un conto depositi presso il Banco di Sardegna dal valore di oltre 2,3 milioni di euro».
Insomma di soldi ne sono girati. Tanto che sempre alla cooperativa è finita un immobile in un angolo fantastico della Sardegna: Golfo Aranci. La giunta provinciale di Olbia nel maggio 2012 delibera «la concessione di colonia marina di Marinella in uso temporaneo per attività di carattere sociale». Immobile, di notevoli dimensioni visto che, a quanto ci risulta, sarebbero presenti 13 bagni, concesso in comodato gratuito per 29 anni, durante i quali Spes si dichiarava disponibile «ad effettuare interventi di ordinaria e straordinaria manutenzione al fine di una sua riqualificazione, con una spesa stimata di oltre 600.000 euro». Da ammortizzare con la durata della concessione. La cooperativa se ne sta occupando.
Non è dato sapere se abbia effettivamente speso tutti i 600.000 euro. Di certo il «feudo» di Ozieri tra prestiti non restituiti e investimenti «dubbi» è costato alla Chiesa ben 1,4 milioni di euro.
La questua di Becciu per avere soldi «Servono a liberare suor Gloria»
«Ti ricordi la questione della suora colombiana? Pare che qualcosa si muova e il mediatore deve aver subito a disposizione i soldi». È il 20 dicembre 2018 quando l'ex sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato della Santa sede Angelo Becciu chiede, schermando l'operazione come se fosse una attività d'intelligence per la liberazione della suora colombiana Gloria Cecilia Narvaez Argoti, rapita il 7 febbraio 2017 nel sud del Mali da un gruppo jihadista, a monsignor Alberto Perlasca, per anni figura centrale della Segreteria di Stato vaticana (e supertestimone nel processo a Becciu e agli altri nove imputati che inizierà il 27 luglio), di approntare il bonifico.
Le disposizioni di Becciu sono queste: «Li inviamo a diverse tranche sul conto che più sotto ti indicherò. Primo bonifico 75.000 euro intestato a Logsic doo, Causale voluntary contribution for a humanitarian mission». Segue un altro messaggio con lo screenshot contenente l'Iban. E anche con un'altra disposizione: «Ti ricordo», scrive Becciu, «che ne ho riparlato con il Sp (Santo padre, ndr) e vuole mantenere le disposizioni già date e in gran segreto». Becciu, insomma, non si fa scrupoli nell'uso del nome di papa Francesco.
E l'11 gennaio l'operazione si ripete. Sempre con la stessa scusa: «Caro monsignore», scrive Becciu, «scusami, ieri mi sono dimenticato di dirti che occorre trasferire quell'altra trancia. Pare che qualcosa si muova». Peccato che di suor Gloria non si sia saputo più nulla fino a maggio scorso, quando i rapitori le hanno permesso di scrivere al fratello per dimostrare che fosse ancora viva. Nel frattempo Becciu, alle spalle di Bergoglio, speculava sulla povera missionaria finita nelle mani degli islamisti. Perlasca è a disposizione: «Certo! Immediatamente 50.000 euro». Becciu sembra eccitato. Non riesce a contenersi. E risponde: «Sììì».
Ma c'è una brutta notizia. Perlasca poco dopo comunica: «Il sostituto mi fa difficoltà, me le aveva fatte anche l'altra volta per l'invio dei soldi da lei chiesto. Forse è bene che lei gli parli». Il nuovo sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato, subentrato a Becciu in quel momento spostato da Bergoglio alla Congregazione per le cause dei santi, è monsignor Edgar Peña Parra. E dalle chat intercettate sembra che Perlasca a ogni richiesta di Becciu debba sorbirsi i suoi rimbrotti. «Ma gli aveva parlato il Papa!», sbotta Becciu, che chiede: «Ma devi chiedere a lui ogni volta l'autorizzazione? Non bastava che avessi la mia fino al completamento della somma?».
Peña Parra, insomma, si oppone, obiettando di essere all'oscuro della vicenda. E solo dopo aver ricevuto rassicurazioni da Perlasca e da Becciu, che di nuovo fa intendere di aver informato la Sovrana autorità, ovvero il Papa, autorizza i pagamenti. «Il sostituto vuole sapere», si giustifica Perlasca, «[…] è voluto andare dal Santo Padre, il quale gli ha detto di pagare. Io pensavo bastasse... evidentemente no...». E ancora: Becciu chiede «ma che difficoltà fa? Così che gli possa parlare e chiarire di nuovo la cosa». Poi aggiunge: «Dico di nuovo perché gliel'ho già spiegato io e lo stesso Sp». Perlasca: «Lui dice che gli pesa dover firmare documenti relativi a una questione che non conosce. Comunque martedì ne parlerà con il Sp».
Ma dalle chat emerge che c'è anche un altro aspetto che fa stare in ansia Becciu: «Mantenere riservata al massimo la questione». E quando Perlasca gli dice che per l'ulteriore bonifico deve firmare anche l'assessore, Becciu replica agitato: «No, per carità, non parlarne all'assessore».
La somma, ha ricostruito il promotore di giustizia del Tribunale vaticano (l'equivalente del Procuratore della Repubblica in Italia), tranche dopo tranche alla fine è arrivata a ben 575.000 euro. E, stando alla documentazione originale consegnata all'accusa da Peña Parra, proveniva da conti svizzeri della Segreteria di Stato. Ma dove finivano tutti quei soldi? Grazie alle notizie fornite al promotore di giustizia dalla Nunziatura apostolica in Slovenia, che ha agito come se fosse un servizio d'intelligence con tanto di protocolli riservati, si è scoperto che la Logsic doo era riconducibile alla signora Cecilia Marogna (arrestata a Milano per peculato e poi scarcerata, è imputata anche lei nel processo del 27 luglio), che per Becciu, come spiegato in una breve nota a sua firma, prestava «servizio professionale come analista geopolitico e consulente per le relazioni esterne per la Segreteria di Stato-Affari generali». I nove bonifici emessi tra il 2018 e il 2019 finivano, insomma, su un conto usato dalla Marogna. E dall'analisi compiuta dal Corpo della Gendarmeria vaticana, quei soldi sono stati spesi non per pagare il riscatto per la povera suor Gloria, bensì per «oltre 120 pagamenti in negozi Prada, Tod's Hogan, Missoni, Montblanc, Luis Vuitton, Maxmara, Poltronesofà, Auchan» e in prestigiosi alberghi «come l'hotel Bagni nuovi, Cervo» e ristoranti «come i Frati Ros». Solo «per rimanere alle spese più significative», spiega il promotore di giustizia.
Gli ultimi due bonifici partono per la solita Logsic doo e per la Inkerman trading ltd, una società specializzata nel settore della sicurezza e nella gestione del rischio. Ma mentre il promotore di giustizia stava per sequestrare le somme, si accorge che Dagospia aveva rilanciato una notizia esclusiva della Verità che riconduceva l'operazione ancora una volta alla Marogna. «L'imprevista e imprevedibile diffusione mediatica», annota la toga vaticana, però, sembra aver fatto saltare l'operazione.
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Attraverso un conto della diocesi sarda è circolato molto denaro. Finito nella disponibilità del fratello del cardinale a giudizio il 27.Tranche dopo tranche, con «massima riservatezza», ha ottenuto dalla Segreteria di Stato 575.000 euro. Depositati in un conto usato dalla Marogna per acquisti di lusso. Della religiosa non si sa nulla da 4 anni.Lo speciale contiene due articoli.Il vescovo di Ozieri, in Sardegna, quando Angelo Becciu fu raggiunto dalla maxi inchiesta vaticana, non ebbe dubbi. Corrado Melis si schierò subito al fianco del cardinale. Ad aprile scrisse pure una lettera per chiarire che la Chiesa sarda «non se la beve facilmente tutta quella fangosa e prepotente valanga di scoordinate informazioni». A mettere ordine e coordinare le informazioni ma soprattutto le coordinate bancarie ci hanno pensato gli inquirenti vaticani che poco tempo dopo, a giugno, si sono presentati alla diocesi di Ozieri e alla Caritas con un mandato di perquisizione. Il documento spiega bene come, nonostante vivesse in Vaticano da anni, il legame tra l'ex sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato, Angelo Becciu, e la Sardegna non si fosse mai interrotto. Anzi è proprio nella diocesi di Ozieri che il cardinale, il cui processo inizierà il prossimo 27 luglio, osservava da lontano il «feudo». Al centro del progetto c'era un conto corrente intestato alla stessa «Diocesi di Ozieri Caritas ℅ Spes società cooperativa […]», aperto in una filiale della banca Intesa Sanpaolo. Sul quale nel periodo compreso tra il 2012 e il 2020 ci sono state, come scrivono gli investigatori, «uscite di cassa per complessivi 2.801.837 euro il cui beneficiario era la cooperativa». Secondo l'accusa dei promotori di giustizia vaticani (i «pubblici ministeri» d'Oltretevere, Gian Piero Milano e Alessandro Diddi), che contestano al prelato i reati di peculato, abuso d'ufficio e subornazione, una gran parte di «quei bonifici» erano «sprovvisti della natura caritatevole». Ma soprattutto la domanda è: come è stato possibile che attraverso un conto della diocesi siano stati favoriti gli interessi dell'ex numero tre del Vaticano? Di quel rapporto bancario «Antonino Becciu (uno dei due fratelli del cardinale, ndr) e Giovanna Pani sono risultati essere i principali amministratori e, de facto, i titolari effettivi». I flussi verso la cooperativa arrivano da tre distinte fonti. La Segreteria di Stato, la Conferenza episcopale italiana e la stessa diocesi. La prima ha versato 225.000 euro, la seconda 600.000. Secondo gli inquirenti in entrambe i casi sarebbe stato Becciu a fare pressioni «consapevole che il denaro sarebbe finito nella disponibilità del fratello». Accusa che rende ancora più complessa la decifrazione delle altre pezze giustificative. Almeno là dove ci sono. La cooperativa Spes ha inoltre ricevuto tramite la diocesi di Ozieri bonifici, che indicavano come causale «prestiti, nel periodo dal 2 maggio 2013 al 19 dicembre 2016, per un importo complessivo di 1.174.700 euro». «Tali importi non risultano esser mai stati restituiti, ad eccezione», scrivono gli investigatori, «di un'unica tranche di 5.000 euro […]. Si può dedurre, pertanto, che tutti i prestiti concessi dalla diocesi di Ozieri alla cooperativa sociale Spes siano stati erogati “a fondo perduto"». Gli inquirenti hanno fatto anche il controllo successivo e verificato che in molti casi il fratello ricevesse a sua volta bonifici dalla cooperativa con la causale «restituzione prestito» senza però trovare traccia di un flusso a monte partito dal conto personale a quello della cooperativa. L'inchiesta che ha travolto i vertici del Vaticano è scoppiata per la compravendita dell'immobile londinese di Sloane avenue 60, ed è su questo palazzo che si focalizzeranno gran parte delle accuse ai nove coimputati di Becciu; quest'ultimo dovrà inoltre spiegare davanti ai giudici le finalità perseguite dall'enorme massa di denaro movimentato. La lista degli investimenti, fatta con i soldi della Segreteria di Stato e della Cei (Conferenza episcopale italiana), è infatti lunga, ma soprattutto in numerosi casi, secondo gli inquirenti, solleva seri dubbi sul rispetto dei principi del cattolicesimo. È il 14 maggio 2018 quando dal conto corrente della diocesi, l'unico aperto in banca Intesa Sanpaolo (per capirsi lo stesso amministrato dalla Spes), partono due bonifici da «200.000 euro cadauno, riconducibili alla sottoscrizione in due fondi comuni di investimento: Speon e Spfxn». Per l'accusa «in quest'ultimo particolare aspetto, si ravvisa la distrazione dei fondi di che trattasi dalla prevista finalità, atteso che tale operatività bancaria è in aperto contrasto con gli scopi caritatevoli della diocesi e della cooperativa Spes, poiché evidentemente finalizzata a investimenti di carattere lucrativo e speculativo». Più in generale, gli inquirenti vaticani hanno avuto modo di dare un occhiata anche agli altri conti intestati alla diocesi di Ozieri. Dire che fosse povera sarebbe sbagliato. «A dispetto delle dichiarate difficoltà in cui la diocesi versava», scrivono gli inquirenti, «oltre alle somme presenti sul conto citato prima, la stessa era intestataria di un conto depositi presso il Banco di Sardegna dal valore di oltre 2,3 milioni di euro». Insomma di soldi ne sono girati. Tanto che sempre alla cooperativa è finita un immobile in un angolo fantastico della Sardegna: Golfo Aranci. La giunta provinciale di Olbia nel maggio 2012 delibera «la concessione di colonia marina di Marinella in uso temporaneo per attività di carattere sociale». Immobile, di notevoli dimensioni visto che, a quanto ci risulta, sarebbero presenti 13 bagni, concesso in comodato gratuito per 29 anni, durante i quali Spes si dichiarava disponibile «ad effettuare interventi di ordinaria e straordinaria manutenzione al fine di una sua riqualificazione, con una spesa stimata di oltre 600.000 euro». Da ammortizzare con la durata della concessione. La cooperativa se ne sta occupando. Non è dato sapere se abbia effettivamente speso tutti i 600.000 euro. 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È il 20 dicembre 2018 quando l'ex sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato della Santa sede Angelo Becciu chiede, schermando l'operazione come se fosse una attività d'intelligence per la liberazione della suora colombiana Gloria Cecilia Narvaez Argoti, rapita il 7 febbraio 2017 nel sud del Mali da un gruppo jihadista, a monsignor Alberto Perlasca, per anni figura centrale della Segreteria di Stato vaticana (e supertestimone nel processo a Becciu e agli altri nove imputati che inizierà il 27 luglio), di approntare il bonifico. Le disposizioni di Becciu sono queste: «Li inviamo a diverse tranche sul conto che più sotto ti indicherò. Primo bonifico 75.000 euro intestato a Logsic doo, Causale voluntary contribution for a humanitarian mission». Segue un altro messaggio con lo screenshot contenente l'Iban. E anche con un'altra disposizione: «Ti ricordo», scrive Becciu, «che ne ho riparlato con il Sp (Santo padre, ndr) e vuole mantenere le disposizioni già date e in gran segreto». Becciu, insomma, non si fa scrupoli nell'uso del nome di papa Francesco. E l'11 gennaio l'operazione si ripete. Sempre con la stessa scusa: «Caro monsignore», scrive Becciu, «scusami, ieri mi sono dimenticato di dirti che occorre trasferire quell'altra trancia. Pare che qualcosa si muova». Peccato che di suor Gloria non si sia saputo più nulla fino a maggio scorso, quando i rapitori le hanno permesso di scrivere al fratello per dimostrare che fosse ancora viva. Nel frattempo Becciu, alle spalle di Bergoglio, speculava sulla povera missionaria finita nelle mani degli islamisti. Perlasca è a disposizione: «Certo! Immediatamente 50.000 euro». Becciu sembra eccitato. Non riesce a contenersi. E risponde: «Sììì». Ma c'è una brutta notizia. Perlasca poco dopo comunica: «Il sostituto mi fa difficoltà, me le aveva fatte anche l'altra volta per l'invio dei soldi da lei chiesto. Forse è bene che lei gli parli». Il nuovo sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato, subentrato a Becciu in quel momento spostato da Bergoglio alla Congregazione per le cause dei santi, è monsignor Edgar Peña Parra. E dalle chat intercettate sembra che Perlasca a ogni richiesta di Becciu debba sorbirsi i suoi rimbrotti. «Ma gli aveva parlato il Papa!», sbotta Becciu, che chiede: «Ma devi chiedere a lui ogni volta l'autorizzazione? Non bastava che avessi la mia fino al completamento della somma?». Peña Parra, insomma, si oppone, obiettando di essere all'oscuro della vicenda. E solo dopo aver ricevuto rassicurazioni da Perlasca e da Becciu, che di nuovo fa intendere di aver informato la Sovrana autorità, ovvero il Papa, autorizza i pagamenti. «Il sostituto vuole sapere», si giustifica Perlasca, «[…] è voluto andare dal Santo Padre, il quale gli ha detto di pagare. Io pensavo bastasse... evidentemente no...». E ancora: Becciu chiede «ma che difficoltà fa? Così che gli possa parlare e chiarire di nuovo la cosa». Poi aggiunge: «Dico di nuovo perché gliel'ho già spiegato io e lo stesso Sp». Perlasca: «Lui dice che gli pesa dover firmare documenti relativi a una questione che non conosce. Comunque martedì ne parlerà con il Sp». Ma dalle chat emerge che c'è anche un altro aspetto che fa stare in ansia Becciu: «Mantenere riservata al massimo la questione». E quando Perlasca gli dice che per l'ulteriore bonifico deve firmare anche l'assessore, Becciu replica agitato: «No, per carità, non parlarne all'assessore». La somma, ha ricostruito il promotore di giustizia del Tribunale vaticano (l'equivalente del Procuratore della Repubblica in Italia), tranche dopo tranche alla fine è arrivata a ben 575.000 euro. E, stando alla documentazione originale consegnata all'accusa da Peña Parra, proveniva da conti svizzeri della Segreteria di Stato. Ma dove finivano tutti quei soldi? Grazie alle notizie fornite al promotore di giustizia dalla Nunziatura apostolica in Slovenia, che ha agito come se fosse un servizio d'intelligence con tanto di protocolli riservati, si è scoperto che la Logsic doo era riconducibile alla signora Cecilia Marogna (arrestata a Milano per peculato e poi scarcerata, è imputata anche lei nel processo del 27 luglio), che per Becciu, come spiegato in una breve nota a sua firma, prestava «servizio professionale come analista geopolitico e consulente per le relazioni esterne per la Segreteria di Stato-Affari generali». I nove bonifici emessi tra il 2018 e il 2019 finivano, insomma, su un conto usato dalla Marogna. E dall'analisi compiuta dal Corpo della Gendarmeria vaticana, quei soldi sono stati spesi non per pagare il riscatto per la povera suor Gloria, bensì per «oltre 120 pagamenti in negozi Prada, Tod's Hogan, Missoni, Montblanc, Luis Vuitton, Maxmara, Poltronesofà, Auchan» e in prestigiosi alberghi «come l'hotel Bagni nuovi, Cervo» e ristoranti «come i Frati Ros». Solo «per rimanere alle spese più significative», spiega il promotore di giustizia. Gli ultimi due bonifici partono per la solita Logsic doo e per la Inkerman trading ltd, una società specializzata nel settore della sicurezza e nella gestione del rischio. Ma mentre il promotore di giustizia stava per sequestrare le somme, si accorge che Dagospia aveva rilanciato una notizia esclusiva della Verità che riconduceva l'operazione ancora una volta alla Marogna. «L'imprevista e imprevedibile diffusione mediatica», annota la toga vaticana, però, sembra aver fatto saltare l'operazione.
Bill Clinton e Jeffrey Epstein (Ansa)
Neanche a dirlo, è scoppiato uno scontro tra il Dipartimento di Giustizia e alcuni parlamentari. «La legge approvata dal Congresso e firmata dal presidente Trump era chiarissima: l’amministrazione Trump aveva 30 giorni di tempo per pubblicare tutti i file di Epstein, non solo alcuni. Non farlo equivale a violare la legge. Questo dimostra che il Dipartimento di Giustizia, Donald Trump e Pam Bondi sono determinati a nascondere la verità», ha tuonato il capogruppo dell’Asinello al Senato, Chuck Schumer, mentre il deputato dem Ro Khanna ha ventilato l’ipotesi di un impeachment contro la Bondi. Strali all’amministrazione Trump sono arrivati anche dai deputati Thomas Massie e Marjorie Taylor Greene: due dei principali critici repubblicani dell’attuale presidente americano.
«Il Dipartimento di Giustizia sta pubblicando una massiccia tranche di nuovi documenti che le amministrazioni Biden e Obama si sono rifiutate di divulgare. Il punto è questo: l’amministrazione Trump sta garantendo livelli di trasparenza che le amministrazioni precedenti non avevano mai nemmeno preso in considerazione», ha replicato il dicastero guidato dalla Bondi, per poi aggiungere: «La scadenza iniziale è stata rispettata mentre lavoriamo con diligenza per proteggere le vittime». Insomma, se per i critici di Trump la deadline di venerdì era assoluta e perentoria, il Dipartimento di Giustizia l’ha interpretata come una «scadenza iniziale». Ma non è finita qui. Ulteriori polemiche sono infatti sorte a causa del fatto che numerosi documenti pubblicati venerdì fossero pesantemente segretati: un’accusa a cui il Dipartimento di Giustizia ha replicato, sostenendo di aver voluto tutelare le vittime di Epstein.
Ma che cosa c’è di interessante nei file divulgati venerdì? Innanzitutto, tra i documenti pubblicati l’altro ieri, compare la denuncia presentata all’Fbi nel 1996 contro Epstein da una sua vittima, Maria Farmer. In secondo luogo, sono rispuntate le figure di Trump e Bill Clinton, anche se in misura differente. «Trump è appena visibile nei documenti, con le poche foto che lo ritraggono che sembrano essere di pubblico dominio da decenni. Tra queste, due in cui Trump ed Epstein posano con l’attuale first lady Melania Trump nel febbraio 2000 durante un evento nel suo resort di Mar-a-Lago», ha riferito The Hill. Svariate foto riguardano invece Bill Clinton. In particolare, una ritrae l’ex presidente dem in una piscina insieme alla socia di Epstein, Ghislaine Maxwell, e a un’altra donna dal volto oscurato. In un’altra, Clinton è in una vasca idromassaggio sempre in compagnia di una donna dall’identità celata: una donna che, secondo quanto affermato su X dal portavoce del Dipartimento di Giustizia Gates McGavick, risulterebbe una «vittima». In un’altra foto ancora, l’ex presidente dem è sul sedile di un aereo, con una ragazza che gli cinge il collo con un braccio. Clinton compare infine in foto anche con i cantanti Mick Jagger e Michael Jackson.
«La Casa Bianca non ha nascosto questi file per mesi, per poi pubblicarli a tarda notte di venerdì per proteggere Bill Clinton», ha dichiarato il portavoce di Clinton, Angel Ureña, che ha aggiunto: «Si tratta di proteggersi da ciò che verrà dopo, o da ciò che cercheranno di nascondere per sempre. Così possono pubblicare tutte le foto sgranate di oltre 20 anni che vogliono, ma non si tratta di Bill Clinton». «Persino Susie Wiles ha detto che Donald Trump si sbagliava su Bill Clinton», ha concluso. «Questa è la sua resa dei conti», ha invece dichiarato al New York Post un ex assistente di Clinton, riferendosi proprio all’ex presidente dem. «Voglio dire, se accendete la Cnn, è di questo che stanno parlando. Ho ricevuto un milione di messaggi a riguardo», ha proseguito. «La gente pensa: non posso credere che fosse in una vasca idromassaggio. Chi è quella donna lì dentro?», ha continuato, per poi aggiungere: «Voglio dire, è incredibile. È semplicemente scioccante», ha continuato. Vale la pena di sottolineare che né Trump né Clinton sono accusati di reati in riferimento al caso Epstein. Caso su cui i coniugi Clinton si sono tuttavia recentemente rifiutati di testimoniare alla Camera. Per questo, il presidente della commissione Sorveglianza della Camera stessa, il repubblicano James Comer, ha offerto loro di deporre a gennaio: in caso contrario, ha minacciato di avviare un procedimento per oltraggio al Congresso contro la coppia.
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Il Tribunale dei minori de l'Aquila. Nel riquadro, la famiglia Trevallion Birmingham (Ansa)
Un bambino è un teste fragile estremamente suggestionabile, perché è abituato al fatto che non deve contraddire un adulto, e, soprattutto se il bambino è spaventato, tende a compiacere l’adulto e a dire quello che l’adulto vuole. Ricordiamo che esiste la Carta di Noto, un protocollo di linee guida per l’ascolto del minore in caso di presunti abusi sessuali o maltrattamenti, elaborato da esperti di diverse discipline (magistrati, avvocati, psicologi, ecc.), che sono state sistematicamente disattese per esempio a Bibbiano. Un bambino deportato dalla sua famiglia è per definizione terrorizzato. Il termine corretto per i bambini tolti dalle famiglie dalle assistenti sociali è deportazione. La deportazione avviene all’improvviso, da un istante all’altro, con l’interruzione totale di tutti gli affetti, genitori, nonni, amici, eventuali animali domestici. Il deportato è privato dei suoi oggetti e del suo ambiente e con la proibizione di contatti con la sua vita precedente. Il deportato non ha nessuna padronanza della sua vita. Questo è lo schema della deportazione. Assistenti sociali possono mentire e psicologi possono avvallare queste menzogne con interrogatori suggestivi che portano i bambini a mentire. I motivi sono tre: compiacenza verso superiori o colleghi (è già successo), interesse economico (è già successo), fanatismo nell’applicare le proprie teorie: l’abuso sessuale dei padri sui bambini è diffusissimo, una famiglia non ha il diritto di vivere in un bosco, una madre povera non ha diritto ad allevare suo figlio, i bambini appartengono allo Stato, a meno che non siano rom allora appartengono al clan, un non vaccinato è un nemico del popolo oltre che della scienza e va deportato e vaccinato (è già successo).
Un’assistente sociale può mentire. E dato che la menzogna è teoricamente possibile deve essere necessario, per legge, che a qualsiasi interazione tra lo psicologo e l’assistente sociale e il bambino sia presente un avvocato di parte o un perito di parte, psicologo o altra figura scelta dalla famiglia. È necessario quindi che venga fatta immediatamente una legge che chiarisca che sia vietato una qualsiasi interazione tra il bambino e un adulto, assistente sociale, psicologo, ovviamente magistrato, dove non sia presente un perito di parte o un avvocato. Facciamo un esempio a caso. Supponiamo (siamo nell’ambito delle supposizioni, il posto fantastico dei congiuntivi e dei condizionali) che l’assistente sociale che ha dichiarato che i bambini della famiglia del Bosco sono analfabeti, oltre ad aver compiuto il crimine deontologico gravissimo della violazione di segreto professionale, abbia mentito. Certo è estremamente probabile che i figli di una famiglia con un livello culturale alto, poliglotta, la cui madre lavora in smart working siano analfabeti. È la cosa più logica che ci sia, però supponiamo per ipotesi fantastica che l’assistente sociale abbia mentito. In questo caso è evidente che i bambini non possono tornare a casa per Natale. Se i bambini tornassero a casa in tempi brevi, non sarebbe difficile fare un video dove si dimostra che scrivono benissimo, che leggono benissimo, molto meglio dei coetanei in scuole dove il 90% degli utenti sono stranieri che non sanno nemmeno l’italiano e meno che mai l’inglese, si potrebbe dimostrare che sono perfettamente in grado di farsi una doccia da soli e anche di cucinare un minestrone.
La deportazione di un bambino, coi rapporti troncati da un colpo di ascia, produce danni incalcolabili. I bambini sono stati sottratti ai loro affetti per darli in mano a una tizia talmente interessata al loro interesse che sputtana loro e la loro famiglia davanti a tutta l’Italia e per sempre (il Web non dimentica) con affermazioni (vere?) sul loro analfabetismo e sulla loro incapacità a fare una doccia. Questi bambini rischiano di essere aggrediti e sfottuti dai coetanei per questo, si è spianata la strada a renderli vittime di bullismo per decenni. Con impressionante sprezzo di qualsiasi straccio di deontologia gli operatori, tutti felici di squittire a cani e porci informazioni che dovrebbero essere assolutamente riservate (anche questi il segreto professionale e la deontologia non sanno che cosa siano), ci informano che i bambini annusano con perplessità i vestiti che profumano di pulito. I vestiti non profumano di pulito. Hanno l’odore dei pessimi detersivi industriali reclamizzati alla televisione che deve essere la fonte principale se non l’unica da cui nasce la cultura degli operatori. I loro componenti sono pessimi, non solo inquinanti, ma anche pericolosi per la salute umana a lungo termine: stesso discorso per lo sciampo e il bagno schiuma, soprattutto negli orfanatrofi di Stato, le cosiddette case famiglie, dove si comprano i prodotti meno cari, quindi quelli con i componenti peggiori.
Nessuno dei libricini su cui hanno studiato gli operatori ha spiegato che ci sono ben altri sistemi per garantire una pulizia impeccabile. In tutte le foto che li ritraggono con i genitori, ai tempi distrutti per sempre in cui erano felici, i bambini sono pulitissimi. Tra l’altro tutte queste incredibili esperte di comportamento infantile, non hanno mai sentito parlare di comportamento oppositivo? Un bambino normale, una volta deportato con arbitrio dalla sua vita e dalla sua famiglia, può spezzarsi ed essere malleabile o può resistere ed essere oppositivo. Fai la doccia. Non la voglio fare. Scrivi. Non sono capace. Il bambino oppositivo deve essere frantumato. Non ti mando a casa nemmeno per Natale.
Sia fatta una legge immediatamente. Subito. I bambini del bosco devono avere di fianco un avvocato. Noi popolo italiano, che con le nostre tasse paghiamo i servizi sociali e la deportazione dei bambini, abbiamo il diritto a pretendere che non siano soli. I bambini nel bosco passeranno un Natale da deportati. Qualcuno si sentirà in dovere di informarci che in vita loro non avevano mai mangiato un qualche dolce industriale a base di zucchero, grassi idrogenati e coloranti e che grazie alla deportazione questa lacuna è stata colmata.
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La famiglia Trevallion-Birmingham (Ansa)
È infatti una prepotenza senza significato confrontare una bomba affettiva e esistenziale come tre fratellini che giocano e si vogliono evidentemente bene, accompagnata da genitori altrettanto uniti, e naturalmente affettivi con norme e abitudini di un Paese dove il nucleo abitativo più frequente nelle città più prestigiose consiste in un cittadino singolo. Pretendere che i pochi figli superstiti in qualche «terra di nessuno», con i suoi boschi e le affettuosità (che ancora esistono fuori dalle famiglie-tipo), si uniformino ai secchi diritti e cupe abitudini del sociologico e disperato «gruppo dei pari» è un’operazione di una freddezza stalinista, per fortuna destinata allo scacco. È coltivata da burocrazie che scambiano relazioni profonde e vere, comunque indispensabili alla vita e alla sua felicità, con strumenti tecnici, adoperabili solo quando la famiglia purtroppo non c’è più, molto spesso per l’ottusità e la corruzione dello Stato stesso che le subentra (come racconta Hanna Arendt) quando è riuscito a distruggerla. Se non si vuole creare danni inguaribili, tutti, anche i funzionari dello Stato, dovrebbero fare attenzione a non sostituire gli aspetti già legati all’umano fin dalla creazione del mondo, con pratiche esterne magari infiocchettate dalle burocrazie ma che non c’entrano nulla con la sostanza dell’uomo e la sua capacità di sopravvivere.
Certo, la bimba Utopia Rose, citata nel bel pezzo di Francesco Borgonovo del 18 dicembre, è una testimone insostituibile di un’altra visione del mondo rispetto alle varie ideologie che prevalgono in questo momento, unendo ferocia e ricchezza, cinismo e follia. Impossibile di fronte ai fratellini che tanto scandalizzano le burocrazie perbene non ricordare (oltretutto a pochi giorni dal Natale) l’ordine di Gesù: «Lasciate che questi piccoli vengano a me». Nessuno dubita che entreranno nel Regno prima degli assistenti sociali. Utopia Rose, la più grande, è affettuosa e impegnata, lavoratrice e giocattolona, organizzatrice e sognatrice. Però non è sola (Come si fa a non amarla, e anche un po’ invidiarla?). Non soltanto perché ha i suoi due fratellini, e i tre quarti del pubblico fa il tifo per loro. Ma perché questa visione loro e dei genitori di cercare una vita buona e naturale, semplicemente felice e affettuosa verso sé e verso gli altri e tutto il mondo vivente, cresce con la stessa velocità con la quale si sviluppa l’idolatria verso tutto ciò che è artificiale, fabbricato, mentale, non affettivo. È già qualche anno che chi viene in analisi scopre soprattutto questo: l’urgenza di mettersi al riparo dagli egoismi e pretese grandiose, vuote e fredde, e invece amare. Ormai il fenomeno trasborda nelle cronache. Trasgressione conclusiva, dialettale e popolaresca (milanese): «Spérèm»!
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(Imagoeconomica)
A leggere queste parole c’è davvero da impazzire. In pratica si continua a ripetere che questi bambini sono bravi, educati, felici e amati. Ma hanno difficoltà con la lettura e si cambiano i vestiti troppo raramente. E alle nostre istituzioni, oltre che a una parte della politica, sembra normale che tanto basti per strapparli ai genitori e lasciarli in una casa famiglia a tempo indeterminato. In aggiunta, si continuano a trattare papà e mamma Trevallion come discoli da raddrizzare. Si scrive e si dice che ora si comportano bene, che hanno accettato di modificare la propria casa, di vaccinare i figli, di farli incontrare con un insegnante. Lo ripetono pure i giudici della Corte d'appello che hanno confermato venerdì la validità del provvedimento di allontanamento e hanno passato la palla al Tribunale dei minori dell'Aquila per eventuali nuove decisioni. La corte conferma «tutte le criticità rilevate nell'ordinanza del Tribunale dei minorenni» tra cui i «gravi rischi per la salute fisica e psichica dei bambini, per la loro sana crescita, per lo sviluppo armonioso della loro personalità». Ma rileva «gli apprezzabili sforzi di collaborazione» da parte dei genitori e auspica «un definitivo superamento del muro di diffidenza da loro precedentemente alzato verso gli interventi e le offerte di sostegno». Chiaro, no? Quando papà e mamma saranno più docili e addomesticati, il ricatto potrà forse concludersi.
Pare infatti che il nodo di tutta questa storia, sia soltanto questo: bisogna compiacere i magistrati. Chi non lo fa è un pericoloso pasdaran della destra, è uno che fa campagna politica per il referendum sulla giustizia. Lo dice chiaramente Elisabetta Piccolotti di Alleanza verdi e sinistra, la quale se la prende con i ministri Matteo Salvini e Eugenia Roccella «che continuano a fare gli sciacalli con l’unico scopo di preparare il terreno per il referendum sulla giustizia. Noi di Avs», spiega Piccolotti, «crediamo che il percorso di dialogo con la famiglia debba dare i giusti frutti, come sostengono anche gli avvocati: i bambini devono tornare a casa dai genitori, con la garanzia che non saranno negati loro il diritto all’istruzione e alla socialità che solo la scuola assicura davvero». Ah, ma dai: i bambini devono tornare a scuola, perché quella parentale non va. Di più: bisogna che il ministro Valditara invii «gli ispettori nella scuola paritaria che ha certificato l’assolvimento dell’obbligo scolastico per la bambina di 11 anni, nonostante pare che la bimba sappia a stento scrivere il proprio nome sotto dettatura».
Interessante cortocircuito. Con la famiglia del bosco i compagni di Avs sono inflessibili, invocano perquisizioni e correzioni. Ma con altri sono molto più teneri. Nei riguardi degli antagonisti di Askatasuna, per dire, hanno parole di miele. Marco Grimaldi, vicecapogruppo di Avs alla Camera, si è aggregato al corteo di protesta contro lo sgombero del centro sociale. «Noi non abbiamo nulla da nascondere», grida. «Siamo parte, alla luce del sole, di un’associazione a resistere, quella dell’antifascismo che i trumpiani di tutto il mondo vorrebbero dichiarare fuori legge. Ma fino a quando la nostra Costituzione sarà in piedi nessuno potrà impedirmi di manifestare il mio dissenso ed io continuerò a farlo». La sua compagna di partito Ilaria Salis ribadisce che «lo spirito di Askatasuna continuerà ad ardere». Bravi, bravissimi, dei veri rivoluzionari, dei grandi ribelli antisistema. Ma per chi sceglie davvero un modello di vita alternativo, a quanto risulta, non hanno pietà. Anzi, dicono le stesse cose dei magistrati.
Fateci caso: Elisabetta Piccolotti ha pronunciato praticamente le stesse frasi scandite da Virginia Scalera, giudice del tribunale di Pescara e presidente della sezione Abruzzo dell’Anm. Costei è intervenuta ieri dicendo che c’è «stato un attacco scomposto e offensivo nei confronti dei giudici da parte dei ministri Salvini e Roccella, espresso peraltro in mancanza di conoscenza del provvedimento, perché le motivazioni non sono ancora uscite. E comunque è inaccettabile il tono. Abbiamo l’impressione chiara», insiste Scalera, «che sia un modo per riattivare l’attenzione dell’opinione pubblica, strumentalizzando una storia significativa in ottica referendaria. Ogni volta si additano i giudici, si parla di sequestro di bambini. Stigmatizziamo gli attacchi del governo».
Siamo sempre lì: guai a sfiorare i giudici, guai ad avanzare anche solo un minuscolo dubbio sul loro operato. Persino la sinistra radicale, quella che si batte contro i confini e contro la fantomatica «repressione», alla bisogna si rimette in riga al fianco delle toghe. E intanto tre bambini bravi e educati sono ancora tenuti lontano dai loro genitori.
A proposito di cortocircuiti sinistri, sia concessa un’ultima considerazione. Negli anni passati, con l’avvicinarsi del Natale, fior di sacerdoti e militanti progressisti hanno proposto presepi pieni zeppi di barconi e migranti. È un vero peccato che quest’anno qualcuno di questi impegnati a favore dei più deboli non abbia pensato a un bel presepe con la famiglia del bosco posizionata in mezzo ai pastori.
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