True
2021-07-17
Becciu premeva per avere i soldi. Che poi finivano nel feudo di Ozieri
Angelo Becciu (Getty Images)
Il vescovo di Ozieri, in Sardegna, quando Angelo Becciu fu raggiunto dalla maxi inchiesta vaticana, non ebbe dubbi. Corrado Melis si schierò subito al fianco del cardinale. Ad aprile scrisse pure una lettera per chiarire che la Chiesa sarda «non se la beve facilmente tutta quella fangosa e prepotente valanga di scoordinate informazioni». A mettere ordine e coordinare le informazioni ma soprattutto le coordinate bancarie ci hanno pensato gli inquirenti vaticani che poco tempo dopo, a giugno, si sono presentati alla diocesi di Ozieri e alla Caritas con un mandato di perquisizione. Il documento spiega bene come, nonostante vivesse in Vaticano da anni, il legame tra l'ex sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato, Angelo Becciu, e la Sardegna non si fosse mai interrotto. Anzi è proprio nella diocesi di Ozieri che il cardinale, il cui processo inizierà il prossimo 27 luglio, osservava da lontano il «feudo».
Al centro del progetto c'era un conto corrente intestato alla stessa «Diocesi di Ozieri Caritas ℅ Spes società cooperativa […]», aperto in una filiale della banca Intesa Sanpaolo. Sul quale nel periodo compreso tra il 2012 e il 2020 ci sono state, come scrivono gli investigatori, «uscite di cassa per complessivi 2.801.837 euro il cui beneficiario era la cooperativa». Secondo l'accusa dei promotori di giustizia vaticani (i «pubblici ministeri» d'Oltretevere, Gian Piero Milano e Alessandro Diddi), che contestano al prelato i reati di peculato, abuso d'ufficio e subornazione, una gran parte di «quei bonifici» erano «sprovvisti della natura caritatevole».
Ma soprattutto la domanda è: come è stato possibile che attraverso un conto della diocesi siano stati favoriti gli interessi dell'ex numero tre del Vaticano? Di quel rapporto bancario «Antonino Becciu (uno dei due fratelli del cardinale, ndr) e Giovanna Pani sono risultati essere i principali amministratori e, de facto, i titolari effettivi». I flussi verso la cooperativa arrivano da tre distinte fonti. La Segreteria di Stato, la Conferenza episcopale italiana e la stessa diocesi. La prima ha versato 225.000 euro, la seconda 600.000.
Secondo gli inquirenti in entrambe i casi sarebbe stato Becciu a fare pressioni «consapevole che il denaro sarebbe finito nella disponibilità del fratello». Accusa che rende ancora più complessa la decifrazione delle altre pezze giustificative. Almeno là dove ci sono. La cooperativa Spes ha inoltre ricevuto tramite la diocesi di Ozieri bonifici, che indicavano come causale «prestiti, nel periodo dal 2 maggio 2013 al 19 dicembre 2016, per un importo complessivo di 1.174.700 euro». «Tali importi non risultano esser mai stati restituiti, ad eccezione», scrivono gli investigatori, «di un'unica tranche di 5.000 euro […]. Si può dedurre, pertanto, che tutti i prestiti concessi dalla diocesi di Ozieri alla cooperativa sociale Spes siano stati erogati “a fondo perduto"».
Gli inquirenti hanno fatto anche il controllo successivo e verificato che in molti casi il fratello ricevesse a sua volta bonifici dalla cooperativa con la causale «restituzione prestito» senza però trovare traccia di un flusso a monte partito dal conto personale a quello della cooperativa. L'inchiesta che ha travolto i vertici del Vaticano è scoppiata per la compravendita dell'immobile londinese di Sloane avenue 60, ed è su questo palazzo che si focalizzeranno gran parte delle accuse ai nove coimputati di Becciu; quest'ultimo dovrà inoltre spiegare davanti ai giudici le finalità perseguite dall'enorme massa di denaro movimentato. La lista degli investimenti, fatta con i soldi della Segreteria di Stato e della Cei (Conferenza episcopale italiana), è infatti lunga, ma soprattutto in numerosi casi, secondo gli inquirenti, solleva seri dubbi sul rispetto dei principi del cattolicesimo. È il 14 maggio 2018 quando dal conto corrente della diocesi, l'unico aperto in banca Intesa Sanpaolo (per capirsi lo stesso amministrato dalla Spes), partono due bonifici da «200.000 euro cadauno, riconducibili alla sottoscrizione in due fondi comuni di investimento: Speon e Spfxn».
Per l'accusa «in quest'ultimo particolare aspetto, si ravvisa la distrazione dei fondi di che trattasi dalla prevista finalità, atteso che tale operatività bancaria è in aperto contrasto con gli scopi caritatevoli della diocesi e della cooperativa Spes, poiché evidentemente finalizzata a investimenti di carattere lucrativo e speculativo». Più in generale, gli inquirenti vaticani hanno avuto modo di dare un occhiata anche agli altri conti intestati alla diocesi di Ozieri. Dire che fosse povera sarebbe sbagliato. «A dispetto delle dichiarate difficoltà in cui la diocesi versava», scrivono gli inquirenti, «oltre alle somme presenti sul conto citato prima, la stessa era intestataria di un conto depositi presso il Banco di Sardegna dal valore di oltre 2,3 milioni di euro».
Insomma di soldi ne sono girati. Tanto che sempre alla cooperativa è finita un immobile in un angolo fantastico della Sardegna: Golfo Aranci. La giunta provinciale di Olbia nel maggio 2012 delibera «la concessione di colonia marina di Marinella in uso temporaneo per attività di carattere sociale». Immobile, di notevoli dimensioni visto che, a quanto ci risulta, sarebbero presenti 13 bagni, concesso in comodato gratuito per 29 anni, durante i quali Spes si dichiarava disponibile «ad effettuare interventi di ordinaria e straordinaria manutenzione al fine di una sua riqualificazione, con una spesa stimata di oltre 600.000 euro». Da ammortizzare con la durata della concessione. La cooperativa se ne sta occupando.
Non è dato sapere se abbia effettivamente speso tutti i 600.000 euro. Di certo il «feudo» di Ozieri tra prestiti non restituiti e investimenti «dubbi» è costato alla Chiesa ben 1,4 milioni di euro.
La questua di Becciu per avere soldi «Servono a liberare suor Gloria»
«Ti ricordi la questione della suora colombiana? Pare che qualcosa si muova e il mediatore deve aver subito a disposizione i soldi». È il 20 dicembre 2018 quando l'ex sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato della Santa sede Angelo Becciu chiede, schermando l'operazione come se fosse una attività d'intelligence per la liberazione della suora colombiana Gloria Cecilia Narvaez Argoti, rapita il 7 febbraio 2017 nel sud del Mali da un gruppo jihadista, a monsignor Alberto Perlasca, per anni figura centrale della Segreteria di Stato vaticana (e supertestimone nel processo a Becciu e agli altri nove imputati che inizierà il 27 luglio), di approntare il bonifico.
Le disposizioni di Becciu sono queste: «Li inviamo a diverse tranche sul conto che più sotto ti indicherò. Primo bonifico 75.000 euro intestato a Logsic doo, Causale voluntary contribution for a humanitarian mission». Segue un altro messaggio con lo screenshot contenente l'Iban. E anche con un'altra disposizione: «Ti ricordo», scrive Becciu, «che ne ho riparlato con il Sp (Santo padre, ndr) e vuole mantenere le disposizioni già date e in gran segreto». Becciu, insomma, non si fa scrupoli nell'uso del nome di papa Francesco.
E l'11 gennaio l'operazione si ripete. Sempre con la stessa scusa: «Caro monsignore», scrive Becciu, «scusami, ieri mi sono dimenticato di dirti che occorre trasferire quell'altra trancia. Pare che qualcosa si muova». Peccato che di suor Gloria non si sia saputo più nulla fino a maggio scorso, quando i rapitori le hanno permesso di scrivere al fratello per dimostrare che fosse ancora viva. Nel frattempo Becciu, alle spalle di Bergoglio, speculava sulla povera missionaria finita nelle mani degli islamisti. Perlasca è a disposizione: «Certo! Immediatamente 50.000 euro». Becciu sembra eccitato. Non riesce a contenersi. E risponde: «Sììì».
Ma c'è una brutta notizia. Perlasca poco dopo comunica: «Il sostituto mi fa difficoltà, me le aveva fatte anche l'altra volta per l'invio dei soldi da lei chiesto. Forse è bene che lei gli parli». Il nuovo sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato, subentrato a Becciu in quel momento spostato da Bergoglio alla Congregazione per le cause dei santi, è monsignor Edgar Peña Parra. E dalle chat intercettate sembra che Perlasca a ogni richiesta di Becciu debba sorbirsi i suoi rimbrotti. «Ma gli aveva parlato il Papa!», sbotta Becciu, che chiede: «Ma devi chiedere a lui ogni volta l'autorizzazione? Non bastava che avessi la mia fino al completamento della somma?».
Peña Parra, insomma, si oppone, obiettando di essere all'oscuro della vicenda. E solo dopo aver ricevuto rassicurazioni da Perlasca e da Becciu, che di nuovo fa intendere di aver informato la Sovrana autorità, ovvero il Papa, autorizza i pagamenti. «Il sostituto vuole sapere», si giustifica Perlasca, «[…] è voluto andare dal Santo Padre, il quale gli ha detto di pagare. Io pensavo bastasse... evidentemente no...». E ancora: Becciu chiede «ma che difficoltà fa? Così che gli possa parlare e chiarire di nuovo la cosa». Poi aggiunge: «Dico di nuovo perché gliel'ho già spiegato io e lo stesso Sp». Perlasca: «Lui dice che gli pesa dover firmare documenti relativi a una questione che non conosce. Comunque martedì ne parlerà con il Sp».
Ma dalle chat emerge che c'è anche un altro aspetto che fa stare in ansia Becciu: «Mantenere riservata al massimo la questione». E quando Perlasca gli dice che per l'ulteriore bonifico deve firmare anche l'assessore, Becciu replica agitato: «No, per carità, non parlarne all'assessore».
La somma, ha ricostruito il promotore di giustizia del Tribunale vaticano (l'equivalente del Procuratore della Repubblica in Italia), tranche dopo tranche alla fine è arrivata a ben 575.000 euro. E, stando alla documentazione originale consegnata all'accusa da Peña Parra, proveniva da conti svizzeri della Segreteria di Stato. Ma dove finivano tutti quei soldi? Grazie alle notizie fornite al promotore di giustizia dalla Nunziatura apostolica in Slovenia, che ha agito come se fosse un servizio d'intelligence con tanto di protocolli riservati, si è scoperto che la Logsic doo era riconducibile alla signora Cecilia Marogna (arrestata a Milano per peculato e poi scarcerata, è imputata anche lei nel processo del 27 luglio), che per Becciu, come spiegato in una breve nota a sua firma, prestava «servizio professionale come analista geopolitico e consulente per le relazioni esterne per la Segreteria di Stato-Affari generali». I nove bonifici emessi tra il 2018 e il 2019 finivano, insomma, su un conto usato dalla Marogna. E dall'analisi compiuta dal Corpo della Gendarmeria vaticana, quei soldi sono stati spesi non per pagare il riscatto per la povera suor Gloria, bensì per «oltre 120 pagamenti in negozi Prada, Tod's Hogan, Missoni, Montblanc, Luis Vuitton, Maxmara, Poltronesofà, Auchan» e in prestigiosi alberghi «come l'hotel Bagni nuovi, Cervo» e ristoranti «come i Frati Ros». Solo «per rimanere alle spese più significative», spiega il promotore di giustizia.
Gli ultimi due bonifici partono per la solita Logsic doo e per la Inkerman trading ltd, una società specializzata nel settore della sicurezza e nella gestione del rischio. Ma mentre il promotore di giustizia stava per sequestrare le somme, si accorge che Dagospia aveva rilanciato una notizia esclusiva della Verità che riconduceva l'operazione ancora una volta alla Marogna. «L'imprevista e imprevedibile diffusione mediatica», annota la toga vaticana, però, sembra aver fatto saltare l'operazione.
Continua a leggereRiduci
Attraverso un conto della diocesi sarda è circolato molto denaro. Finito nella disponibilità del fratello del cardinale a giudizio il 27.Tranche dopo tranche, con «massima riservatezza», ha ottenuto dalla Segreteria di Stato 575.000 euro. Depositati in un conto usato dalla Marogna per acquisti di lusso. Della religiosa non si sa nulla da 4 anni.Lo speciale contiene due articoli.Il vescovo di Ozieri, in Sardegna, quando Angelo Becciu fu raggiunto dalla maxi inchiesta vaticana, non ebbe dubbi. Corrado Melis si schierò subito al fianco del cardinale. Ad aprile scrisse pure una lettera per chiarire che la Chiesa sarda «non se la beve facilmente tutta quella fangosa e prepotente valanga di scoordinate informazioni». A mettere ordine e coordinare le informazioni ma soprattutto le coordinate bancarie ci hanno pensato gli inquirenti vaticani che poco tempo dopo, a giugno, si sono presentati alla diocesi di Ozieri e alla Caritas con un mandato di perquisizione. Il documento spiega bene come, nonostante vivesse in Vaticano da anni, il legame tra l'ex sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato, Angelo Becciu, e la Sardegna non si fosse mai interrotto. Anzi è proprio nella diocesi di Ozieri che il cardinale, il cui processo inizierà il prossimo 27 luglio, osservava da lontano il «feudo». Al centro del progetto c'era un conto corrente intestato alla stessa «Diocesi di Ozieri Caritas ℅ Spes società cooperativa […]», aperto in una filiale della banca Intesa Sanpaolo. Sul quale nel periodo compreso tra il 2012 e il 2020 ci sono state, come scrivono gli investigatori, «uscite di cassa per complessivi 2.801.837 euro il cui beneficiario era la cooperativa». Secondo l'accusa dei promotori di giustizia vaticani (i «pubblici ministeri» d'Oltretevere, Gian Piero Milano e Alessandro Diddi), che contestano al prelato i reati di peculato, abuso d'ufficio e subornazione, una gran parte di «quei bonifici» erano «sprovvisti della natura caritatevole». Ma soprattutto la domanda è: come è stato possibile che attraverso un conto della diocesi siano stati favoriti gli interessi dell'ex numero tre del Vaticano? Di quel rapporto bancario «Antonino Becciu (uno dei due fratelli del cardinale, ndr) e Giovanna Pani sono risultati essere i principali amministratori e, de facto, i titolari effettivi». I flussi verso la cooperativa arrivano da tre distinte fonti. La Segreteria di Stato, la Conferenza episcopale italiana e la stessa diocesi. La prima ha versato 225.000 euro, la seconda 600.000. Secondo gli inquirenti in entrambe i casi sarebbe stato Becciu a fare pressioni «consapevole che il denaro sarebbe finito nella disponibilità del fratello». Accusa che rende ancora più complessa la decifrazione delle altre pezze giustificative. Almeno là dove ci sono. La cooperativa Spes ha inoltre ricevuto tramite la diocesi di Ozieri bonifici, che indicavano come causale «prestiti, nel periodo dal 2 maggio 2013 al 19 dicembre 2016, per un importo complessivo di 1.174.700 euro». «Tali importi non risultano esser mai stati restituiti, ad eccezione», scrivono gli investigatori, «di un'unica tranche di 5.000 euro […]. Si può dedurre, pertanto, che tutti i prestiti concessi dalla diocesi di Ozieri alla cooperativa sociale Spes siano stati erogati “a fondo perduto"». Gli inquirenti hanno fatto anche il controllo successivo e verificato che in molti casi il fratello ricevesse a sua volta bonifici dalla cooperativa con la causale «restituzione prestito» senza però trovare traccia di un flusso a monte partito dal conto personale a quello della cooperativa. L'inchiesta che ha travolto i vertici del Vaticano è scoppiata per la compravendita dell'immobile londinese di Sloane avenue 60, ed è su questo palazzo che si focalizzeranno gran parte delle accuse ai nove coimputati di Becciu; quest'ultimo dovrà inoltre spiegare davanti ai giudici le finalità perseguite dall'enorme massa di denaro movimentato. La lista degli investimenti, fatta con i soldi della Segreteria di Stato e della Cei (Conferenza episcopale italiana), è infatti lunga, ma soprattutto in numerosi casi, secondo gli inquirenti, solleva seri dubbi sul rispetto dei principi del cattolicesimo. È il 14 maggio 2018 quando dal conto corrente della diocesi, l'unico aperto in banca Intesa Sanpaolo (per capirsi lo stesso amministrato dalla Spes), partono due bonifici da «200.000 euro cadauno, riconducibili alla sottoscrizione in due fondi comuni di investimento: Speon e Spfxn». Per l'accusa «in quest'ultimo particolare aspetto, si ravvisa la distrazione dei fondi di che trattasi dalla prevista finalità, atteso che tale operatività bancaria è in aperto contrasto con gli scopi caritatevoli della diocesi e della cooperativa Spes, poiché evidentemente finalizzata a investimenti di carattere lucrativo e speculativo». Più in generale, gli inquirenti vaticani hanno avuto modo di dare un occhiata anche agli altri conti intestati alla diocesi di Ozieri. Dire che fosse povera sarebbe sbagliato. «A dispetto delle dichiarate difficoltà in cui la diocesi versava», scrivono gli inquirenti, «oltre alle somme presenti sul conto citato prima, la stessa era intestataria di un conto depositi presso il Banco di Sardegna dal valore di oltre 2,3 milioni di euro». Insomma di soldi ne sono girati. Tanto che sempre alla cooperativa è finita un immobile in un angolo fantastico della Sardegna: Golfo Aranci. La giunta provinciale di Olbia nel maggio 2012 delibera «la concessione di colonia marina di Marinella in uso temporaneo per attività di carattere sociale». Immobile, di notevoli dimensioni visto che, a quanto ci risulta, sarebbero presenti 13 bagni, concesso in comodato gratuito per 29 anni, durante i quali Spes si dichiarava disponibile «ad effettuare interventi di ordinaria e straordinaria manutenzione al fine di una sua riqualificazione, con una spesa stimata di oltre 600.000 euro». Da ammortizzare con la durata della concessione. La cooperativa se ne sta occupando. Non è dato sapere se abbia effettivamente speso tutti i 600.000 euro. Di certo il «feudo» di Ozieri tra prestiti non restituiti e investimenti «dubbi» è costato alla Chiesa ben 1,4 milioni di euro.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/becciu-vaticano-2653810228.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-questua-di-becciu-per-avere-soldi-servono-a-liberare-suor-gloria" data-post-id="2653810228" data-published-at="1626505869" data-use-pagination="False"> La questua di Becciu per avere soldi «Servono a liberare suor Gloria» «Ti ricordi la questione della suora colombiana? Pare che qualcosa si muova e il mediatore deve aver subito a disposizione i soldi». È il 20 dicembre 2018 quando l'ex sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato della Santa sede Angelo Becciu chiede, schermando l'operazione come se fosse una attività d'intelligence per la liberazione della suora colombiana Gloria Cecilia Narvaez Argoti, rapita il 7 febbraio 2017 nel sud del Mali da un gruppo jihadista, a monsignor Alberto Perlasca, per anni figura centrale della Segreteria di Stato vaticana (e supertestimone nel processo a Becciu e agli altri nove imputati che inizierà il 27 luglio), di approntare il bonifico. Le disposizioni di Becciu sono queste: «Li inviamo a diverse tranche sul conto che più sotto ti indicherò. Primo bonifico 75.000 euro intestato a Logsic doo, Causale voluntary contribution for a humanitarian mission». Segue un altro messaggio con lo screenshot contenente l'Iban. E anche con un'altra disposizione: «Ti ricordo», scrive Becciu, «che ne ho riparlato con il Sp (Santo padre, ndr) e vuole mantenere le disposizioni già date e in gran segreto». Becciu, insomma, non si fa scrupoli nell'uso del nome di papa Francesco. E l'11 gennaio l'operazione si ripete. Sempre con la stessa scusa: «Caro monsignore», scrive Becciu, «scusami, ieri mi sono dimenticato di dirti che occorre trasferire quell'altra trancia. Pare che qualcosa si muova». Peccato che di suor Gloria non si sia saputo più nulla fino a maggio scorso, quando i rapitori le hanno permesso di scrivere al fratello per dimostrare che fosse ancora viva. Nel frattempo Becciu, alle spalle di Bergoglio, speculava sulla povera missionaria finita nelle mani degli islamisti. Perlasca è a disposizione: «Certo! Immediatamente 50.000 euro». Becciu sembra eccitato. Non riesce a contenersi. E risponde: «Sììì». Ma c'è una brutta notizia. Perlasca poco dopo comunica: «Il sostituto mi fa difficoltà, me le aveva fatte anche l'altra volta per l'invio dei soldi da lei chiesto. Forse è bene che lei gli parli». Il nuovo sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato, subentrato a Becciu in quel momento spostato da Bergoglio alla Congregazione per le cause dei santi, è monsignor Edgar Peña Parra. E dalle chat intercettate sembra che Perlasca a ogni richiesta di Becciu debba sorbirsi i suoi rimbrotti. «Ma gli aveva parlato il Papa!», sbotta Becciu, che chiede: «Ma devi chiedere a lui ogni volta l'autorizzazione? Non bastava che avessi la mia fino al completamento della somma?». Peña Parra, insomma, si oppone, obiettando di essere all'oscuro della vicenda. E solo dopo aver ricevuto rassicurazioni da Perlasca e da Becciu, che di nuovo fa intendere di aver informato la Sovrana autorità, ovvero il Papa, autorizza i pagamenti. «Il sostituto vuole sapere», si giustifica Perlasca, «[…] è voluto andare dal Santo Padre, il quale gli ha detto di pagare. Io pensavo bastasse... evidentemente no...». E ancora: Becciu chiede «ma che difficoltà fa? Così che gli possa parlare e chiarire di nuovo la cosa». Poi aggiunge: «Dico di nuovo perché gliel'ho già spiegato io e lo stesso Sp». Perlasca: «Lui dice che gli pesa dover firmare documenti relativi a una questione che non conosce. Comunque martedì ne parlerà con il Sp». Ma dalle chat emerge che c'è anche un altro aspetto che fa stare in ansia Becciu: «Mantenere riservata al massimo la questione». E quando Perlasca gli dice che per l'ulteriore bonifico deve firmare anche l'assessore, Becciu replica agitato: «No, per carità, non parlarne all'assessore». La somma, ha ricostruito il promotore di giustizia del Tribunale vaticano (l'equivalente del Procuratore della Repubblica in Italia), tranche dopo tranche alla fine è arrivata a ben 575.000 euro. E, stando alla documentazione originale consegnata all'accusa da Peña Parra, proveniva da conti svizzeri della Segreteria di Stato. Ma dove finivano tutti quei soldi? Grazie alle notizie fornite al promotore di giustizia dalla Nunziatura apostolica in Slovenia, che ha agito come se fosse un servizio d'intelligence con tanto di protocolli riservati, si è scoperto che la Logsic doo era riconducibile alla signora Cecilia Marogna (arrestata a Milano per peculato e poi scarcerata, è imputata anche lei nel processo del 27 luglio), che per Becciu, come spiegato in una breve nota a sua firma, prestava «servizio professionale come analista geopolitico e consulente per le relazioni esterne per la Segreteria di Stato-Affari generali». I nove bonifici emessi tra il 2018 e il 2019 finivano, insomma, su un conto usato dalla Marogna. E dall'analisi compiuta dal Corpo della Gendarmeria vaticana, quei soldi sono stati spesi non per pagare il riscatto per la povera suor Gloria, bensì per «oltre 120 pagamenti in negozi Prada, Tod's Hogan, Missoni, Montblanc, Luis Vuitton, Maxmara, Poltronesofà, Auchan» e in prestigiosi alberghi «come l'hotel Bagni nuovi, Cervo» e ristoranti «come i Frati Ros». Solo «per rimanere alle spese più significative», spiega il promotore di giustizia. Gli ultimi due bonifici partono per la solita Logsic doo e per la Inkerman trading ltd, una società specializzata nel settore della sicurezza e nella gestione del rischio. Ma mentre il promotore di giustizia stava per sequestrare le somme, si accorge che Dagospia aveva rilanciato una notizia esclusiva della Verità che riconduceva l'operazione ancora una volta alla Marogna. «L'imprevista e imprevedibile diffusione mediatica», annota la toga vaticana, però, sembra aver fatto saltare l'operazione.
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
Continua a leggereRiduci
content.jwplatform.com
Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
Continua a leggereRiduci
Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
Continua a leggereRiduci