2024-09-13
In Australia vige la verità di Stato. Multa ai social che non «censurano»
Le piattaforme social del gruppo Meta appartengono a Mark Zuckerberg (iStock)
Canberra intende infliggere un’ammenda alle piattaforme online che non prevengono la «disinformazione». Intanto scopre che Meta, dal 2007, usa senza consenso i post degli utenti per allenare l’intelligenza artificiale.Il governo australiano ha annunciato che intende multare le piattaforme online fino al 5% dei loro ricavi globali se non riusciranno a prevenire la diffusione di disinformazione, con particolare riferimento ai contenuti falsi che danneggiano «l’integrità elettorale» o la «salute pubblica».Un annuncio effettuato nelle stesse ore in cui una nuova bufera si è abbattuta su Meta, la società di Mark Zuckerberg proprietaria di Facebook, Instagram, Threads e Whatsapp. Una commissione d’inchiesta del Senato australiano ha infatti svelato che le foto e i post pubblicati dagli utenti australiani su Facebook e Instagram dal 2007 a oggi vengono utilizzati per addestrare il nuovo modello di intelligenza artificiale progettato da Meta. Ma mentre agli utenti europei è stata data la possibilità di non partecipare alla raccolta di massa dei loro contenuti, hanno protestato alcuni senatori, gli utenti australiani non hanno beneficiato di questa opzione. Il paradosso di uno Stato che vuole imporre che cosa è vero e che cosa è falso, ma non riesce a proteggere i dati sensibili dei cittadini.La questione è stata appurata durante un’audizione che ha coinvolto la direttrice globale della privacy di Meta, Melinda Claybaugh, a cui in prima battuta è stato chiesto se il colosso di Zuckerberg stesse raccogliendo i dati di tutti gli australiani per sviluppare i suoi strumenti di intelligenza artificiale generativa. Inizialmente, forse approfittando della vaghezza della domanda, la donna ha negato i fatti. Poi però David Shoebridge, senatore dei Verdi, ha contestato questa risposta: «La verità», ha dichiarato in Aula, «è che, a meno che non abbiate consapevolmente impostato quei post come privati dal 2007, Meta ha semplicemente deciso che sarebbero state raccolte tutte le foto e tutti i testi di ogni post pubblico su Instagram o Facebook dal 2007. Questa è la realtà, vero?». La risposta questa volta è stata affermativa, con la precisazione che gli account di persone sotto i 18 anni non sono stati inclusi nella selezione. Tuttavia, quando il senatore e presidente della commissione Tony Sheldon ha chiesto se le foto pubbliche dei suoi figli sul suo account venissero comunque raccolte, la direttrice Claybaugh ha risposto ancora una volta positivamente. Invece, la rappresentante di Meta non ha chiarito quale sia il destino dei contenuti condivisi in passato da utenti che ora sono adulti ma che erano minorenni al momento della creazione dei loro account. A quel punto, il parlamentare ha virato su una seconda questione, chiedendo il motivo per cui agli australiani non sia stata data la stessa possibilità di scegliere concessa agli europei. Claybaugh ha allora spiegato che l’opzione di esclusione in Europa è stata applicata «in risposta a un quadro giuridico molto specifico», senza entrare nel merito se tale possibilità sarebbe stata offerta in futuro anche agli australiani. Lo sbarco in Europa di Meta Ai, il chatbot progettato dal gruppo di Zuckerberg, sarebbe infatti dovuto avvenire lo scorso 26 giugno, ma le operazioni sono state bloccate dall’intervento della Commissione irlandese per la protezione dei dati (Dpc), il principale regolatore europeo sulla privacy. Le preoccupazioni dell’autorità europea erano le stesse che oggi muovono i politici australiani, e cioè l’addestramento dei modelli linguistici attraverso i contenuti pubblici condivisi su Facebook e Instagram.Durante l’audizione al Senato australiano, la donna ha anche aggiunto che le persone possono ora impostare i loro account come privati al fine di prevenire la schedatura futura, ma in ogni caso ciò non avrebbe alcun effetto sulle pubblicazioni passate. Il senatore Sheldon ha però evidenziato come ci siano milioni di australiani che utilizzano Facebook e Instagram i quali non hanno acconsentito all’uso delle loro foto e video per addestrare un modello di intelligenza artificiale. In proposito, il Brasile a luglio aveva vietato a Meta di usare i dati degli utenti per allenare l’Ia.Nelle pagine di ieri della Verità, partendo da un assurdo episodio di censura verificatosi su Threads (social network sempre del gruppo Meta) in Giappone, abbiamo ricostruito le diverse testimonianze emerse negli ultimi anni di pressioni governative volte a censurare contenuti ritenuti scomodi sulle piattaforme online. La voce definitiva, in tal senso, è stata quella dello stesso Zuckerberg, il quale di recente ha raccontato che «alti funzionari dell’amministrazione Biden, compresa la Casa Bianca, hanno ripetutamente esercitato pressioni» sui team di Meta «affinché censurassero alcuni contenuti Covid-19». Pressioni che a quel tempo avvenivano sottotraccia, ma che adesso - basti pensare al Digital service act dell’Unione europea - sono del tutto espliciti. Ieri il governo di Canberra ha annunciato che obbligherà le piattaforme tecnologiche a stabilire codici di condotta che regolino come fermare la diffusione di fake news pericolose, codici che a loro volta dovranno essere approvati da un’autorità di regolamentazione. Se una piattaforma non lo farà, l’autorità stabilirà i propri standard e potrà multare le aziende per mancata conformità.Da una parte, dunque, osserviamo governi e organismi sovranazionali investire da anni grandi energie nella lotta contro le fake news (che troppe volte abbiamo visto scadere nella mera censura). Dall’altra, a quasi 20 anni dall’esplosione dei social network, gli sforzi da parte degli Stati per proteggere i dati dei cittadini non sembrano molto convincenti. È almeno dallo scandalo Cambridge Analytica scoppiato nel 2018, quando si è scoperto che i dati di milioni di utenti sarebbero stati venduti per costruirci sopra le campagne elettorali, che sono universalmente noti questi pericoli, ma per qualche ragione i governi preferiscono occuparsi di hate speech.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)