2019-09-17
Attacco all’Arabia, petrolio alle stelle. E per i carburanti prezzi già in salita
Dimezzata la produzione: il greggio ha un rialzo del 15 per cento. Per la benzina si ipotizza un aumento superiore a 20 centesimi.Si registrano forti scossoni nel settore petrolifero. Sabato scorso, due importanti impianti della società pubblica saudita Aramco sono stati oggetto di un attacco da parte di droni: un attacco rivendicato dai ribelli yemeniti filoiraniani Huthi. Quanto accaduto ha eliminato 5,7 milioni di barili di produzione giornaliera di greggio, ovvero il 50% della produzione di petrolio di Riad. Si tratta di oltre il 5% della produzione petrolifera giornaliera a livello globale. La compagnia saudita dispone dai 35 ai 40 giorni di fornitura per far fronte ai propri obblighi contrattuali, mentre è stato reso noto che - nel breve termine - potrà essere ripristinato circa un terzo della produzione. L'amministrazione Trump, nel frattempo, ha dichiarato di essere pronta a sfruttare la Strategic petroleum reserve degli Stati Uniti «se necessario», per mantenere un approvvigionamento costante e prevenire un massiccio aumento dei prezzi: si tratta di una scorta, gestita dal Dipartimento dell'energia, di circa 695 milioni di barili di greggio. La Russia, dal canto suo, ha dichiarato che ci sarebbero riserve sufficienti a livello globale per compensare l'attuale calo della produzione. In generale, la situazione è peggiore rispetto al 1979, quando - in occasione della rivoluzione khomeinista in Iran - vennero persi 5,6 milioni di barili, o rispetto al 1990 quando - a seguito dell'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq di Saddam Hussein - la perdita fu di 4,3 milioni di barili. Intanto il prezzo del petrolio è salito alle stelle. Domenica sera i futures statunitensi sul greggio hanno avuto un rialzo del 15% e il Brent del 18%. Ieri mattina invece il Brent è salito del 10,7% a 66,66 dollari e il Wti del 9,6% a 60,1 dollari. Pronte le ripercussioni per i carburanti: rialzo dell'11% sulla benzina, che potrebbe portare a rincari superiori a 20 centesimi al litro. Anche la tensione nel Golfo Persico si sta facendo sempre più palpabile. Gli Stati Uniti ritengono che gli attacchi siano partiti dall'Iran. In questo senso, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha puntato il dito direttamente contro Teheran. Una linea condivisa anche dal segretario all'Energia americano, Rick Perry. Lo stesso Donald Trump, domenica scorsa, ha rilasciato una dichiarazione sibillina che parrebbe lasciare aperta l'ipotesi di una risposta militare. Tutto questo, mentre anche il portavoce della coalizione militare saudita nello Yemen, il colonnello Turki al-Malki, ha attribuito le responsabilità degli attacchi a Teheran. «I risultati preliminari mostrano che le armi sono iraniane [..] L'attacco terroristico non ha avuto origine dallo Yemen come ha affermato la milizia Huthi», ha dichiarato ieri pomeriggio in una conferenza stampa a Riad. Accuse prontamente respinte dalla Repubblica islamica, con il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, che ha sostanzialmente dato a Pompeo del bugiardo. Nel pieno di questo scontro, la Cina sta cercando di mediare tra le parti ma, per ora, senza troppi risultati. Il problema in questo caos è allora capire chi ci stia rimettendo e chi invece possa trarre effettivo giovamento dall'accaduto. Indubbiamente Riad ha mostrato una certa fragilità nei propri sistemi di difesa: un duro colpo anche in termini di immagine. Tanto più in una fase in cui il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, sta portando avanti Saudi Vision 2030: un progetto volto a diversificare l'economia del regno, riducendo la sua dipendenza dal petrolio. Detto questo, non bisogna comunque trascurare che - nel medio termine - la monarchia possa avvantaggiarsi da un aumento dei prezzi del petrolio, senza poi dimenticare alcuni aspetti geopolitici. Non è un mistero che, negli ultimi tempi, Trump stia cercando di assumere una postura meno aggressiva nei confronti di Teheran: il suo scopo non è infatti quello di abbattere il regime degli ayatollah ma - semmai - quello di rinegoziare il trattato sul nucleare, siglato ai tempi di Barack Obama nel 2015. Il tutto, con un occhio alle prossime presidenziali statunitensi. Se riuscisse in questo obiettivo, il presidente americano potrebbe sbandierare un successo diplomatico in campagna elettorale, evitando inoltre atti bellici che l'elettorato statunitense non digerirebbe. È comprensibile che una linea simile non sia troppo gradita ai sauditi che, non da oggi, chiedono un maggior coinvolgimento americano nello scacchiere mediorientale, in funzione anti-iraniana. Del resto, anche a Washington ci sono settori ampiamente contrari all'orientamento morbido del presidente su Teheran: settori non poco infastiditi dal siluramento di un falco anti iraniano come l'ormai ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, la settimana scorsa. Si tratta di ambienti trasversali, presenti al Congresso, nelle alte sfere dell'esercito, ai vertici della grande industria bellica e finanche nell'amministrazione americana. Dall'altra parte, anche in Iran la situazione appare piuttosto ingarbugliata. Se il presidente Hassan Rouhani sembrerebbe pragmaticamente intenzionato a un dialogo con gli Stati Uniti, i pasdaran sono di tutt'altro avviso. E puntano molto sull'acuirsi della tensione.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)