2025-08-07
Almasri, altra trappola dei giudici
Il capo di gabinetto del ministero della Giustizia Giusi Bartolozzi (Imagoeconomica)
Rimandare a casa il libico servì a tutelare l’Eni e i nostri connazionali: una mossa chiara a tutti, ma non ai magistrati, che per l’ennesima volta provano a dettare legge.Il capo di gabinetto del ministero della Giustizia Giusi Bartolozzi non ha immunità parlamentare: ecco perché puntano lei. L’Aula, tuttavia, può blindare i coindagati dei membri dell’esecutivo. E resta l’arma del segreto di Stato.Lo speciale contiene due articoli.Hanno difeso gli interessi e i cittadini italiani in Libia, dunque vanno processati. È la triste sintesi della relazione del Tribunale dei ministri che dopo aver archiviato Giorgia Meloni ha chiesto l’autorizzazione a procedere per Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, e per il sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano, finiti nella tagliola del caso Almasri, il generale libico arrestato, poi espulso e rimpatriato dalle autorità italiane lo scorso gennaio. Nonostante negli atti depositati in Parlamento fosse lampante la ragion di Stato, i giudici hanno deciso di chiedere il processo per reati comuni che vanno dal rifiuto di atti d’ufficio al favoreggiamento (Nordio), dal favoreggiamento al peculato (Piantedosi e Mantovano) anche per aver rimandato a Tunisi il «massacratore» Osama Almasri con un volo dei servizi segreti e non in economy accanto a bambini e vecchie zie. Ormai vale tutto. Anche una simulazione da terzo anno di giurisprudenza diventa un casus belli, un tentativo della magistratura di sostituirsi alla politica nel dettare tempi e modi delle scelte strategiche del Paese. Con le toghe a fungere da arbitri delle istituzioni elette dal popolo, ormai impegnate su tutti i dossier a ridurre la complessità degli scenari internazionali a mera successione di fatti slegati dal contesto. Quindi facili da trasformare in crimini e misfatti anche senza la regia di Woody Allen. Così il guardasigilli Nordio «non ha dato corso alla richiesta di cooperazione della Corte penale internazionale», che premeva perché Almasri fosse incarcerato in Italia per crimini di guerra. Così il ministro dell’Interno Piantedosi «ha autorizzato la scarcerazione e l’espulsione mentre Almasri avrebbe dovuto rimanere in carcere» e il sottosegretario Mantovano «ha fatto riportare a casa il generale libico con volo di Stato».La polpetta avvelenata arriva da lontano, poiché il procuratore della Cpi aveva emesso l’ordine di cattura il 2 ottobre scorso e solo il 18 gennaio il giudice aveva ordinato di eseguirlo, dopo che Almasri era stato individuato a spasso per la Germania e i servizi tedeschi si erano ben guardati dal disturbarlo. La Corte ha spinto per l’arresto quando è entrato in Italia. Il resto è dentro la relazione per la richiesta di autorizzazione a procedere delle giudici Maria Teresa Cialoni, Donatella Casari e Valeria Cerulli. Ora la palla passa alla giunta della Camera che entro settembre preparerà il documento da votare in ottobre. Con esito ragionevolmente scontato, sempre che l’Italia sia ancora uno Stato di diritto. La vendetta giudiziaria è già pronta: mandare a processo Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto di Nordio, che non ha l’ombrello parlamentare. Secondo l’accusa il punto chiave della faccenda è una videoconferenza del 19 gennaio, alla presenza di Piantedosi, Mantovano, Antonio Tajani, i sottosegretari e i capi di gabinetto. C’era anche il prefetto dei servizi Giovanni Caravelli, preoccupato per «possibili ritorsioni per i cittadini e gli interessi italiani in Libia derivanti dal mantenimento in prigione di Almasri». Si legge nell’atto d’accusa: «C’era molta agitazione e indicatori di possibili manifestazioni o possibili ritorsioni nei confronti dei circa 500 cittadini italiani che vivono a Tripoli e in Libia, nonché nei confronti degli interessi italiani». Il riferimento è allo stabilimento gestito dall’Eni vicino al confine con la Tunisia, visto che la Rada Force di Almasri collabora con le forze di sicurezza nell’area. Sempre Caravelli sottolineò il precedente di Cecilia Sala arrestata in Iran e ipotizzò che «la Rada Force, gestendo l’attività di polizia giudiziaria, avrebbe potuto effettuare dei fermi di nostri cittadini o perquisizioni negli uffici dell’Eni».Qui i giudici compiono un capolavoro. Ammettono che gli accusati «si sono mossi per evitare possibili ritorsioni nei confronti degli italiani» ma che non è compito loro occuparsi di questo aspetto, considerato il lato politico della vicenda. Per loro è vergognoso che non abbiano ubbidito ai colleghi della Corte penale e abbiano «commesso reati ministeriali» per raggiungere lo scopo istituzionale. Con una stupefacente deduzione ex post: «Nessuna delle paventate generiche ritorsioni si era estrinsecata in una minaccia concreta», c’era solo «il generico timore di future rappresaglie». Come se le informazioni di un ufficiale dei servizi segreti a conferma di un pericolo reale (i pozzi dell’Eni sono un obiettivo sensibile da anni) fosse da considerare un allarmistico dettaglio. Della serie, il codice prevede emergenze solo se ci scappa il morto, signora mia.Per la verità la International Law Commission delle Nazioni Unite codifica «lo stato di necessità in un atto illegittimo internazionale» (articolo 25 del regolamento). Lo ha scritto Palazzo Chigi nella sua memoria difensiva, sottolineando che la norma citata «giustifica l’illiceità di una misura per salvaguardare un interesse essenziale dello Stato da un pericolo grave e imminente». In questo caso i giudici, solitamente rigidissimi sul rispetto dei codici internazionali riguardo (per esempio) i migranti, non ne hanno tenuto conto. Peccato non ci fossero loro ai tempi di Sigonella; sarebbe stato interessante leggere i capi d’accusa per «reati ministeriali» nei confronti di Bettino Craxi (premier) e Oscar Luigi Scalfaro (ministro dell’Interno), per aver impedito l’arresto di un terrorista. E ancora di più ai tempi della strage del Cermis, quando furono consegnati agli americani e non processati in Italia i due piloti responsabili della morte di 20 cittadini italiani. Governi di Romano Prodi e Massimo D’Alema, ministri dell’Interno Giorgio Napolitano e Rosa Russo Jervolino, vicepremier dell’esecutivo dalemiano, Sergio Mattarella con delega ai servizi segreti. Tutti monumenti della sinistra. Allora la ragion di Stato era sacra.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/almasri-giudici-governo-2673864402.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-strategia-colpire-la-bartolozzi-per-educare-tutto-il-governo" data-post-id="2673864402" data-published-at="1754509500" data-use-pagination="False"> La strategia: colpire la Bartolozzi per «educare» tutto il governo Il trappolone perfetto da far scattare per mettere in difficoltà il governo di Giorgia Meloni ha il volto di Giusi Bartolozzi, potente capo di gabinetto del ministro della Giustizia Carlo Nordio, il cui nome ricorre spessissimo, e accompagnato da considerazioni tutt’altro che benevole, negli atti del Tribunale dei ministri sul caso Almasri. La Bartolozzi non è parlamentare, e quindi può essere indagata senza passare attraverso le forche caudine della richiesta di autorizzazione a procedere. Non solo: se venisse iscritta nel registro degli indagati, Giorgia Meloni, Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano, oltre a una decina tra ministri e funzionari del ministero della Giustizia, dovrebbero presentarsi in aula come persone informate sui fatti o in qualità di testimoni, non potendo quindi avvalersi della facoltà di non rispondere. La Bartolozzi anche mediaticamente ha il profilo perfetto per essere trasformata nella protagonista di un tormentone mediatico-giudiziario: bionda, sguardo di ghiaccio, fascino austero, fama di lady di ferro (viene soprannominata «la zarina» di via Arenula, ed i soliti maligni la indicano come il ministro ombra), Giuseppa Lara Bartolozzi, detta Giusi, 55 anni, siciliana di Gela, è stata prima avvocato, poi magistrato, poi deputata di Forza Italia, tendenza liberal: nel 2020, in dissenso con il proprio gruppo, insieme a quattro colleghi deputati forzisti (Renata Polverini, Elio Vito, Matteo Perego e Stefania Prestigiacomo) votò a favore del ddl Zan contro l’omofobia. Negli atti inviati alla giunta per le autorizzazioni il suo nome compare molte volte, e in un passaggio dei giudici viene specificato che «la versione fornita da Bartolozzi è da ritenere sotto diversi profili inattendibile e, anzi, mendace». La Bartolozzi è stata sentita dai giudici nelle scorse settimane come persona informata sui fatti, e leggendo gli atti non può non sorgere il sospetto che, una volta negata l’autorizzazione a procedere nei confronti di Nordio, Piantedosi e Mantovano, la Procura di Roma possa iscriverla nel registro degli indagati seguendo la procedura ordinaria. Fanno ipotizzare questa prospettiva sia le parole pronunciate l’altro ieri dal presidente dell’Anm, Cesare Parodi, che a una domanda su una eventuale inchiesta sulla Bartolozzi ha risposto che «avrebbe ricadute politiche», sia quanto si legge negli atti. Per gli inquirenti, come riporta l’Ansa, la versione fornita dalla Bartolozzi «è da ritenere sotto diversi profili inattendibile e, anzi, mendace». La ricostruzione della capo di gabinetto di Nordio, si legge ancora, «è intrinsecamente contraddittoria, laddove affermava, da un lato, che, non appena avuto notizia dell’arresto, ne aveva informato il ministro. Parimenti, subito dopo la prima riunione su Signal del 19 gennaio, lo aveva richiamato; che, in generale, si sentiva con lui quaranta volte al giorno [...] tuttavia, non aveva ritenuto opportuno sottoporgli la bozza predisposta dall’ufficio», proposta dai tecnici per rispondere alle richieste giunte in merito al fermo di Almasri. Inoltre, secondo i magistrati «è logicamente insostenibile che la Bartolozzi si sia arrogata il diritto [...] di sottrarre al ministro, che le aveva prospettato la necessità di studiare le carte, un elemento tecnico da valutare e tenere in considerazione ai fini della decisione da assumere; perché, cosi facendo, sarebbe venuta meno agli obblighi inerenti l’incarico assunto, avrebbe derogato alla prassi costantemente seguita di informare il ministro di ogni cosa». Inoltre, si legge ancora, «le sue dichiarazioni risultano smentite da quelle di Guerra (funzionaria del ministero, ndr) che ricordava espressamente di aver parlato del problema dei termini da rispettare». Ce n’è abbastanza per sospettare che la Bartolozzi corre il rischio di essere indagata; ieri, e questo non può essere un caso, il suo nome è stato tirato in ballo da diversi esponenti dell’opposizione, in primo luogo Matteo Renzi. Come se ne esce? A quanto risulta alla Verità, il governo potrebbe ancora fare quello che avrebbe dovuto fare in realtà fin dal primo giorno: apporre il segreto di Stato su una vicenda che, come ormai hanno capito anche i bambini, attiene alla sicurezza nazionale, poiché le ritorsioni delle milizie libiche di Almasri sarebbero state imprevedibili. Basta un cdm convocato d’urgenza dal premier e si chiude questa partita: il precedente c’è, risale al 2013, quando il governo guidato da Mario Monti confermò il segreto di Stato, già apposto da Romano Prodi e poi da Silvio Berlusconi, sul caso del rapimento dell’ex imam di Milano Abu Omar. A quanto ci risulta ancora, è confermata anche un’altra ipotesi allo studio del governo: il comma 3 dell’articolo 9 della legge costituzionale 16 gennaio 1989 non esclude che il Parlamento possa negare l’autorizzazione a procedere anche nei confronti dei coindagati dei ministri. La Bartolozzi, quindi, potrebbe essere «scudata» così come Nordio, Piantedosi e Mantovano. Le ricadute dal punto di vista della comunicazione di queste due ipotesi sarebbero magari negative, ma comunque estremamente più lievi rispetto al supercirco mediatico che andrebbe in scena con una inchiesta a carico della Bartolozzi con annessa sfilata di supertestimoni.
Un momento della manifestazione pro pal di Torino (Ansa)
Maria Elena Delia (Getty Images)