2025-02-13
Allora trattare con i banditi si può. Chiesta l’archiviazione per D'Alema
Massimo D'Alema (Imagoeconomica)
Per il pm Nicola Gratteri l’ex premier non deve andare a processo per la trattativa sulle fregate alla Colombia. «La Verità» aveva svelato che uno degli interlocutori di Baffino era un paramilitare esperto in pulizia etnica.Trattare con spietati assassini stranieri si può. Perlomeno può farlo Massimo D’Alema, anche per affari privati. In giorni in cui impazza la polemica per i presunti rapporti del governo italiano con il generale libico Osama Almasri (e per la relativa iscrizione sul registro degli indagati di mezzo gabinetto Meloni), la Procura di Napoli ha chiesto, dopo quasi tre anni di indagini, l’archiviazione per l’ex premier, finito sotto inchiesta per i negoziati con un ex paramilitare riconosciuto colpevole di efferati delitti. L’accusa era di corruzione internazionale e coinvolgeva anche due professionisti collegati a Baffino (l’avvocato Umberto Claudio Bonavita, dello studio Robert Allen di Miami, e il ragioniere Gherardo Gardo), un imprenditore, Giancarlo Mazzotta, due broker con rapporti in Colombia (Francesco Amato ed Emanuele Caruso), l’ex amministratore delegato di Leonardo, Alessandro Profumo e l’ex direttore generale di Fincantieri Giuseppe Giordo. Alle due società partecipate era stato chiesto, tramite D’Alema, un preventivo per la fornitura all’esercito sudamericano di 4 corvette, due sommergibili e 24 caccia militari. Un affare da circa 4 miliardi, che, se fosse andato in porto, avrebbe fatto guadagnare all’ex ministro degli Esteri e alla «sua» squadra circa il 2 per cento della torta complessiva, una percentuale che Max considerava «un risultato straordinario». A far scattare l’inchiesta era stata una denuncia presentata dall’ambasciatore Sergio Piazzi, segretario generale dell’Assemblea parlamentare del Mediterraneo. Il diplomatico contestava l’uso che i broker avevano fatto di documenti ufficiali dell’organismo internazionale. Ma velocemente i pm napoletani avevano aperto un nuovo filone contestando la corruzione internazionale alla presunta cricca, dopo che La Verità aveva reso pubblico l’audio in cui D’Alema trattava la vendita dei mezzi militari con un presunto senatore (che tale non era) ovvero Edgar Ignacio Fierro Florez, 50 anni, meglio conosciuto come «don Antonio», già condannato a 40 anni di prigione per i crimini (omicidi compresi) commessi da comandante delle Autodefensas unidas de Colombia, le famigerate Auc, gruppi paramilitari di estrema destra che si sono distinti in operazioni di pulizia etnica e narcotraffico. Tra le vittime preferite esponenti della società civile e militanti della sinistra. Nel 2014 Fierro ha beneficiato del perdono pubblico durante la pacificazione nazionale.Del sodalizio faceva parte anche Oscar José Ospino Pacheco, classe 1966, alias Tolemaida, accusato «di massacri, omicidi selettivi (compresi quelli di due sindacalisti, ndr), sfollamenti e sparizioni forzate mentre era a capo di un gruppo del Blocco Nord delle Auc». L’audio aveva un contenuto estremamente imbarazzante, soprattutto se si considera che a parlare era un politico di sinistra che ha costruito la carriera predicando la salvaguardia dei diritti umani e della pace. Ma rileggiamo che cosa diceva D’Alema a Fierro, dopo aver discusso con uno dei broker che batteva cassa per ricevere dei rimborsi di viaggio: «Noi stiamo lavorando perché? Perché siamo stupidi? No perché siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro, quindi si può fare un investimento perché l’obiettivo non è quello di avere 10.000 euro per pagare un viaggio adesso, ma è, alla fine, avere un premio di 80 milioni di euro. Questa è la posta in gioco». Fierro nell’audio con D’Alema ha fatto delle affermazioni che erano il cuore dell’inchiesta. L’ex premier era preoccupato per le imminenti elezioni legislative colombiane e Fierro lo aveva rassicurato: «Come ho già detto, le persone che abbiamo nel nostro team rimangono nelle posizioni importanti che possono aiutare a decidere se assumere, acquistare. Sono loro che decidono, prima o dopo le elezioni. Il ministro della Difesa se ne andrà tra due o tre mesi, ma ci sono ancora due funzionari che fanno parte della nostra squadra, che possono gestire tutto ciò di cui abbiamo bisogno e tutto ciò per cui ci siamo impegnati con Leonardo». Fierro aveva anche rimarcato i rapporti privilegiati con un alto ufficiale dell'Aeronautica: «Penso che in tutti i Paesi ci siano diverse metodologie di trattativa. È vero che qui in Colombia ci stiamo gestendo con un generale della Repubblica che ha il potere di decidere cosa è necessario per l'Aeronautica militare colombiana e può farlo direttamente senza il consenso o senza che succedano alcune cose da parte del Senato. Sì, il generale è dentro la nostra squadra. In modo che possa velocizzarci, può aiutarci ad accelerare il processo di acquisto dei prodotti offerti da Leonardo». Il pugliese Amato, il gancio con i paramilitari, alla Verità aveva detto la sua sulle presunte mazzette, in un interessante botta e risposta che conviene qui rammentare: «Spintarelle? Quando io stavo in mezzo non siamo arrivati a quel punto perché era il passo che veniva dopo». Poi c’era stato questo interessante botta e risposta.Ha sentito o capito se i D’Alema boys fossero pronti a pagare tangenti a qualcuno?«Se ci fosse stato bisogno suppongo di sì […]. Era scontato che si dovessero pagare tangenti, ma ci sono tutti i messaggi da cui si vede che non ero io quello che si occupava di queste cose». Amato, che vive all’estero ed è stato definito negli atti «irreperibile», ci aveva anche annunciato che avrebbe ripetuto, «senza problemi», queste parole anche davanti ai magistrati, ma non ci risulta che sia mai stato sentito in Procura. Grazie alla mediazione di D’Alema, Fincantieri aveva firmato un memorandum of understanding per la vendita delle fregate e dei sommergibili, mentre Leonardo aveva predisposto un «contratto di supporto e assistenza per la promozione delle vendite» per uno dei professionisti indicati dall’ex premier. Ma dopo gli scoop della Verità l’affare era saltato. D’Alema, discutendo con Fierro, si era anche preoccupato di vanificare i colloqui in corso tra il governo italiano e quello colombiano sulla fornitura di armi: «Dobbiamo evitare che ci siano due canali paralleli» aveva sottolineato. «Perché tutto questo negoziato deve passare tra di noi, attraverso un solo canale. Quindi, dobbiamo dare il senso che noi abbiamo rapporti, non soltanto con i militari e i funzionari, ma anche con il governo […]. Noi abbiamo interesse che il negoziato passi dalle società italiane, attraverso Robert Allen e dall’altra parte le autorità colombiane, senza interferenze». Il gabinetto Draghi, e in particolare il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè, non dovevano essere d’intralcio. In Procutra confermano solo che la richiesta di archiviazione è stata presentata da poco e che l’ufficio è in attesa della decisione del gip. È noto che il procuratore Nicola Gratteri non sia considerato un iper-garantista o un inquirente morbido con gli indagati, ancorché politici di rango. Non è neppure ritenuto un uomo vicino alla sinistra, quantunque Matteo Renzi lo volesse ministro della Giustizia (ma l’allora presidente Giorgio Napolitano si oppose alla nomina). I motivi della scelta di Gratteri potrebbero essere diversi. Per esempio, potrebbe non essere stata trovata la prova che il pubblico ufficiale fosse consapevole dell’accordo corruttivo e i pm potrebbero aver giudicato Fierro un mediatore preoccupato solo di percepire una propria commissione senza che una parte di quei soldi fosse davvero destinata a un dipendente del ministero. Un’altra possibilità è che gli inquirenti, in ossequio alla riforma Cartabia, abbiano ritenuto non pronosticabile una sentenza di condanna, anche perché molti testimoni e gli ipotetici corrotti, non individuati, sono residenti in America Latina. D’Alema, in questo affare, come detto, si è fatto rappresentare, dall’avvocato Bonavita, socio del ragionier Gardo (per esempio nella Wey lcc di Miami), coinvolto, tra l’altro, in una cessione di quote dell’azienda vitivinicola dell’ex premier. Noi, nelle scorse settimane, siamo andati a cercare Bonavita nello studio Allen che si trova al quattordicesimo piano della Four seasons office tower nel financial district di Miami. All’ingresso abbiamo trovato le statue in bronzo di Adamo ed Eva scolpite dal colombiano Fernando Botero. In ufficio, invece, una segretaria gentile ci ha fissato un appuntamento con Bonavita, che al telefono sembrava molto disponibile. Ma quando ha compreso chi fossimo ha annullato l’incontro. Della giornata ci rimane solo il biglietto da visita dello studio che segnala la specialità della casa: «The business of yachts». In attesa dell’archiviazione l’attività di consulente di D’Alema è andata avanti a gonfie vele. La prima notizia sul Colombia-gate è di fine febbraio 2022. Il 6 giugno del 2023 sono scattate le perquisizioni degli indagati e si è scoperto che l’ex premier era sotto inchiesta per corruzione internazionale. Eppure, proprio nel 2023, la Dl & M advisor Srl dell’ex segretario del Pds ha realizzato ricavi record, per circa 3 milioni di euro, e utili per 1,35 milioni. Nel 2022 il fatturato era, invece, sceso a 820.000 euro rispetto al milione del 2021 e gli utili da 581.000 euro erano calati a 393.000. Dunque l’indagato D’Alema ha visto più che triplicare i profitti. Adesso deve solo attendere la decisione del gip per completare i festeggiamenti e «sciabolare» una magnum del suo spumante Nerosé 120 mesi.
Alberto Stefani (Imagoeconomica)
(Arma dei Carabinieri)
All'alba di oggi i Carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Chieti, con il supporto operativo dei militari dei Comandi Provinciali di Pescara, L’Aquila e Teramo, su delega della Direzione Distrettuale Antimafia de L’Aquila, hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di un quarantacinquenne bengalese ed hanno notificato un avviso di conclusione delle indagini preliminari nei confronti di 19 persone, tutte gravemente indiziate dei delitti di associazione per delinquere finalizzata a commettere una serie indeterminata di reati in materia di immigrazione clandestina, tentata estorsione e rapina.
I provvedimenti giudiziari sono stati emessi sulla base delle risultanze della complessa attività investigativa condotta dai militari del NIL di Chieti che, sotto il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia, hanno fatto luce su un sodalizio criminale operante fin dal 2022 a Pescara e in altre località abruzzesi, con proiezioni in Puglia e Campania che, utilizzando in maniera fraudolenta il Decreto flussi, sono riusciti a far entrare in Italia diverse centinaia di cittadini extracomunitari provenienti prevalentemente dal Bangladesh, confezionando false proposte di lavoro per ottenere il visto d’ingresso in Italia ovvero falsificando gli stessi visti. L’associazione, oggi disarticolata, era strutturata su più livelli e si avvaleva di imprenditori compiacenti, disponibili a predisporre contratti di lavoro fittizi o società create in vista dei “click day” oltre che di di professionisti che curavano la documentazione necessaria per far risultare regolari le richieste di ingresso tramite i decreti flussi. Si servivano di intermediari, anche operanti in Bangladesh, incaricati di reclutare cittadini stranieri e di organizzarne l’arrivo in Italia, spesso dietro pagamento e con sistemazioni di fortuna.
I profitti illeciti derivanti dalla gestione delle pratiche migratorie sono stimati in oltre 3 milioni di euro, considerando che ciascuno degli stranieri fatti entrare irregolarmente in Italia versava somme consistenti. Non a caso alcuni indagati definivano il sistema una vera e propria «miniera».
Nel corso delle indagini nel luglio 2024, i Carabinieri del NIL di Chieti hanno eseguito un intervento a Pescara sorprendendo due imprenditori mentre consegnavano a cittadini stranieri documentazione falsa per l’ingresso in Italia dietro pagamento.
Lo straniero destinatario del provvedimento cautelare svolgeva funzioni di organizzazione e raccordo con l’estero, effettuando anche trasferte per individuare connazionali disponibili a entrare in Italia. In un episodio, per recuperare somme pretese, ha inoltre minacciato e aggredito un connazionale. Considerata la gravità e l’attualità delle esigenze cautelari, è stata disposta la custodia in carcere presso la Casa Circondariale di Pescara.
Nei confronti degli altri 19 indagati, pur sussistendo gravi indizi di colpevolezza, non vi è l’attualità delle esigenze cautelari.
Il Comando Carabinieri per la Tutela del Lavoro, da anni, è impegnato nel fronteggiare su tutto il territorio nazionale il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, fenomeno strettamente collegato a quello dello sfruttamento lavorativo.
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